Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23068 del 11/11/2016


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Cassazione civile sez. I, 11/11/2016, (ud. 09/06/2016, dep. 11/11/2016), n.23068

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERNABAI Renato – Presidente –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16573-2013 proposto da:

PUBLIC HOUSE DI A. C. & CO. S.N.C., in persona del legale

rappresentante pro tempore, nonchè dei soci illimitatamente

responsabili CO.MA. (C.F. (OMISSIS)), C.A. (C.F.

(OMISSIS)), elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE G. MAZZINI

114-B, presso l’avvocato ALESSIO LANZA, rappresentati e difesi dagli

avvocati GIUSEPPE LEONARDO DE LUCA, EMANUELE CAIMI, giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

B.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI 8, presso l’avvocato FRANCESCO CRISCI, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati EZIO CRESPI, MARIO CRESPI, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 203/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 18/01/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2016 dal Consigliere Dott. MAURO DI MARZIO;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato A. GRAZIANI, con delega, che si

riporta;

udito, per la controricorrente, F. CRISCI che ha chiesto

l’inammissibilità del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – B.M. ha agito in giudizio dinanzi al Tribunale di Busto Arsizio, nelle forme dei rito societario, nei confronti di Public House di A. Cibin & Co. S.n.c. nonchè di C.A. e Co.Ma., soci della società, ed ha chiesto ordinarsi ai convenuti di rendere il conto della gestione della medesima, con condanna degli stessi convenuti a corrispondere quanto dovuto ad essa B., nonchè liquidarsi la quota sociale che le spettava ai sensi dell’art. 2289 c.c., essendo receduta dalla società.

p. 2. – Nel contraddittorio con i convenuti, che hanno resistito alla domanda, formulando istanza di fissazione di udienza, ed hanno chiesto condanna della B. per lite temeraria, il Tribunale di Busto Arsizio, con sentenza dell’8 gennaio 2007, respinta la richiesta di rimessione in termini avanzata dalla B. per la formulazione dei mezzi istruttori, ha dichiarato inammissibile la memoria di replica alla comparsa di costituzione da quest’ultima depositata ed ha respinto la domanda attrice in quanto infondata e non provata, disattendendo altresì la domanda proposta dai convenuti ai sensi dell’art. 96 c.p.c., con condanna della B. alle spese.

3. – La stessa B. ha proposto appello chiedendo anzitutto di essere rimessa in termini per le proprie deduzioni istruttorie e riproponendo nel merito le domande già proposte in primo grado. Public House di A. Cibin & Co. S.n.c. nonchè C.A. e Co.Ma. hanno resistito all’impugnazione.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 18 gennaio 2013 ha:

1) dichiarato l’estinzione del giudizio nei confronti della società Public House di A. Cibin & Co. S.n.c. per essere stata cancellata dal registro delle imprese;

2) accertato e dichiarato il diritto della B. alla liquidazione della quota sociale alla data dell’8 marzo 2005 ed alla divisione degli utili nel periodo dal settembre 2003 all’8 marzo 2005;

3) condannato C.A. e Co.Ma. a pagare alla B. la somma di Euro 83.162,5 a titolo di liquidazione della quota sociale nonchè la somma di 11.911,00 per utili nel periodo indicato, con interessi dalla domanda.

La Corte territoriale:

-) ha rimesso nei termini la B.;

-) ha ritenuto superata e non più attuale la domanda della B. di rendiconto, essendo stata la società cancellata dal registro delle imprese;

-) ha ritenuto che tale circostanza comportasse l’estinzione del processo nei confronti della società;

-) ha ritenuto che la consulenza tecnica d’ufficio espletata ai fini della liquidazione della quota in favore della B. avesse correttamente ricostruito in via induttiva il MOL (margine operativo lordo) in Euro 95.000 annui, avendo il consulente effettuato la stima dei costi in base a quanto evidenziato in un sopralluogo e attraverso l’analisi dell’attività, effettuata a mezzo di intervista del titolare attuale dell’esercizio commerciale, comparandola con i libri contabili disponibili e cioè con il libro Iva e il libro dei beni ammortizzabili;

-) ha ritenuto che dal MOL potesse risalirsi alla valutazione dell’intera azienda e di lì al valore della quota spettante alla B., da calcolarsi al marzo 2005 in seguito al recesso della medesima.

p. 4. – Per la cassazione della sentenza Public House di A. Cibin & Co. S.n.c. nonchè C.A. e Co.Ma. hanno proposto ricorso affidato a quattro motivi.

B.M. ha resistito con controricorso. Il solo C. ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 5. – Il ricorso contiene quattro motivi.

p. 5.1. – Il primo motivo è rubricato: “Errata e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 4, asrt. 8, commi 2 e 5, anche alla luce della pronuncia della Corte costituzionale 24 luglio 2007 e violazione degli artt. 153 e art. 184 c.p.c. nonchè violazione sempre in relazione agli articoli citati dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 “.

Sostengono in breve i ricorrenti che la Corte d’appello avrebbe male applicato il precetto dettato dal D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 8 nel testo risultante dall’intervento della Corte costituzionale citato in rubrica, intervento che in ogni caso non avrebbe potuto comunque incidere sulla vicenda in discorso trattandosi di rapporto esaurito con il verificarsi della decadenza maturata a carico della B., senza che sussistessero presupposti della rimessione in termini.

p. 5.2. – Il secondo motivo è rubricato: “Errata interpretazione ed applicazione dell’art. 2261 ed omessa pronuncia su una domanda”.

Secondo i ricorrenti la Corte d’appello avrebbe errato a giudicare superata e non più attuale la domanda di rendiconto proposta dalla B., sia perchè la cancellazione della società non determinava alcun effetto sulla richiesta di rendiconto, sia perchè la società cancellata manterrebbe piena autonomia processuale e sostanziale quanto ai rapporti pendenti, sia perchè la domanda era stata ribadita in sede d’appello.

Detta domanda, d’altro canto, sarebbe secondo gli stessi ricorrenti del tutto infondata spettando il diritto al rendiconto ai soci, tra i quali non poteva annoverarsi la B., che non partecipano all’amministrazione.

5.3. – Il terzo motivo è rubricato: “Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 2285, 2286 e 2697 c.c., art. 115 c.p.c., comma 4, per omesso esame su di un fatto determinante della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Con il motivo si denuncia la violazione delle norme richiamate in rubrica e si sostiene che la Corte d’appello non avrebbe indagato la legittimità del recesso sotto il profilo della sussistenza di una giusta causa, senza inoltre avvedersi che la prova di essa gravava sulla B.. Il recesso, inoltre, sarebbe stato inoltrato alla società e non ai soci.

p. 5.4. – Il quarto motivo è rubricato: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 199 c.p.c. e ss. e dall’art. 2289 c.c. ed omessa valutazione di un fatto decisivo per la controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”.

Il motivo è volto a denunciare l’errore commesso dalla Corte d’appello la quale, pur essendosi avveduta dell’insufficienza della consulenza tecnica d’ufficio, tra l’altro basata su documenti prodotti in sede di appello è senza il consenso delle parti, aveva ritenuto di avvalersi della voce MOL tratta da Wikipedia, voce definita inattendibile dallo stesso sito, omettendo inoltre di considerare le censure rivolte alla consulenza, nonchè i patti sociali che avrebbero comportato la liquidazione della quota al 31 dicembre 2004.

p. 5.5. – Occorre aggiungere che il ricorso, oltre ai quattro motivi svolti da pagina 12 a pagina 56, contiene un paragrafo 8, intitolato “In conclusione”, nel quale vi è un riassunto dei motivi precedentemente spiegati, da pagina 57 a pagina 60: e tra essi è menzionato un quinto motivo di ricorso, sunteggiato in modo peraltro del tutto incomprensibile.

p. 6. – Il ricorso spiegato da Public House di A. C. & Co. S.n.c. è inammissibile.

Risulta dalla sentenza impugnata, ed è d’altronde incontestato, che la società è stata cancellata dal registro delle imprese in data 4 novembre 2008 per effetto di una cessione d’azienda intervenuta in data 18 febbraio 2008 (pagina 11 della sentenza).

In proposito vale rammentare che, già nel 2010, questa Corte ha pronunciato tre sentenze, rese a Sezioni Unite, con le quali ha chiarito che, anche nelle società di persone, la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, determina il venir meno della loro capacità e soggettività, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali (Cass. 22 febbraio 2010, n. 4060, n. 4061 e 4062).

Perciò, è inammissibile il ricorso proposto dalla società ormai priva di capacità e soggettività.

p. 7. – Il ricorso spiegato da C.A. e Co.Ma. è inammissibile.

p. 7.1. – Il primo motivo è inammissibile per carenza di interesse (art. 100 c.p.c.).

Ed infatti, se è pur vero che gli originari convenuti avevano legittimamente avanzato istanza di fissazione dell’udienza ai sensi del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, art. 8, lett. c, dal momento che la loro comparsa di costituzione e risposta non comportava nè l’allegazione di “fatti diversi da quelli prospettati dall’attore in citazione”, ne, parimenti, “un allargamento dell’oggetto della controversia”, con conseguente inapplicabilità del correttivo in tal caso introdotto da Corte cost. 24 luglio 2007, n. 321, è altrettanto vero che quella definita dalla Corte d’appello quale rimessione in termini, fondata sul richiamo alla – per l’indicata ragione non pertinente – pronuncia del giudice delle leggi, non ha in effetti avuto alcuna ricaduta sullo svolgimento del processo, giacchè le istanze istruttorie avanzate dalla B. non sono state accolte, mentre è stata esclusivamente disposta una consulenza tecnica d’ufficio, la qual cosa rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito indipendentemente dalla ammissione della stessa B., per effetto della rimessione in termini pronunciata, a depositare una replica alla comparsa di costituzione dei convenuti in primo grado.

p. 7.2. – Anche il secondo motivo è inammissibile per carenza di interesse.

Difatti, l’interesse ad agire deve sussistere anche nella fase di impugnazione e deve essere desunto dall’utilità giuridica che colui che impugna può oggettivamente conseguire attraverso l’accoglimento dell’impugnazione (Cass. 5581/2014; Cass. 8934/2013; Cass. 6770/2012). Così, ad esempio, manca l’interesse ad agire in sede di impugnazione ove si intenda ottenere una corretta motivazione in iure che sottenda però alla medesima decisione già adottata nel precedente grado (Cass. SU 6057/2009; Cass. 26171/2006).

Anche per proporre ricorso per cassazione necessario il requisito dell’interesse (Cass. 12642/2014): requisito che in tanto sussiste, in quanto il ricorrente sia risultato soccombente nella fase di merito.

Ma, nel caso in esame, la domanda di rendiconto non è stata accolta, con la conseguenza che C. e Co. non sono rimasti in proposito soccombenti e, conseguentemente, non possono impugnare al fine di conseguire lo stesso risultato giuridico con una motivazione diversa.

p. 7.3. – Il terzo motivo è inammissibile.

Si tratta di un motivo composito, in cui vengono cumulati una denuncia di violazione di legge ed una denuncia di vizio motivazionale.

p. 7.3.1. – A quest’ultimo riguardo occorre rammentare che la sentenza impugnata è stata pronunciata il 18 gennaio 2013.

L’art. 360 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, stabilisce che le sentenze pronunciate in grado d’appello possono essere impugnate con ricorso per cassazione, tra l’altro, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non più “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, bensì “per omesso esame circa un fatto decisivo per 11 giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

La modificazione dell’art. 360, n. 5 ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv., con modif., in L. 7 agosto 2012, n. 134, si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno (12 agosto 2012) successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto.

Ha in proposito stabilito questa Corte, a Sezioni Unite, che: “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).

Nel caso in esame, anche a voler tralasciare l’errore di impostazione commesso dai ricorrenti (che hanno richiamato la norma previgente) e a voler esaminare il ricorso come se fosse stato spiegato in base alla norma vigente e non a quella abrogata, sta di fatto che:

a) di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, non è proprio il caso di discorrere, giacchè la motivazione c’è, ed è stata precedentemente riassunta (limitatamente ai suoi passaggi essenziali) in espositiva; in particolare, per quanto riguarda il recesso, la Corte d’appello ha posto l’accento sulla circostanza che esso era stato intimato dall’appellata con raccomandata la quale non era stata oggetto di contestazione alcuna da parte della società, sicchè, in ossequio al principio affermato da questa Corte, nella sentenza numero 2438 del 2009, richiamata dalla Corte territoriale, doveva ritenersi che il recesso fosse stato accettato dagli altri soci per fatti concludenti;

b) neppure ricorre un’ipotesi di “motivazione apparente”, giacchè la Corte d’appello, lungi dal limitarsi a stabilire la regola del caso concreto fondandola sul mero rinvio a precedenti o a massime giurisprudenziali o ad atti o a risultanze istruttorie richiamate in modo generico ed acritico e non riconducibili in modo immediatamente comprensibile alla fattispecie controversa, così da impedire l’identificazione stessa della ratio decidendi, ha spiegato in modo chiaro e lineare che il recesso era stato accettato dai controinteressati;

c) certamente non ricorre il caso del “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e della “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, giacchè, come si è appena detto e non resta che ribadire, la motivazione è lineare e perfettamente comprensibile e, così, sottratte al sindacato motivazionale spettante alla Corte di cassazione.

p. 7.3.2. – Anche la doglianza di violazione di legge è inammissibile.

La violazione della legge, intesa in generale, si articola nei due momenti ai quali si riferisce l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ossia la violazione in senso proprio e la falsa applicazione: a) l’una concernente la ricerca e l’interpretazione della norma regolatrice del caso concreto; b) l’altra concernente l’applicazione della norma stessa al caso concreto, una volta correttamente individuata ed interpretata. In relazione al primo momento, il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella erronea negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata; con riferimento al secondo momento, il vizio di falsa applicazione di legge consiste, alternativamente: a) nel sussumere la fattispecie concreta entro una norma non pertinente, perchè, rettamente individuata ed interpretata, si riferisce ad altro; b) nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la sua pur corretta interpretazione (in questi termini Cass. 26 settembre 2005, n. 18782). Ricorre insomma la violazione ogni qualvolta vi un vizio nella individuazione o nell’attribuzione di significato ad una disposizione normativa; ricorre invece la falsa applicazione qualora l’errore si sia annidato nella individuazione della esatta portata precettiva della norma, che il giudice di merito abbia applicato ad una fattispecie non corrispondente a quella descritta nella norma stessa.

Dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va tenuta distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (da ult. tra le tante Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110).

Nel caso in esame ciò che i ricorrenti addebitano alla Corte d’appello non è di aver travisato il senso delle norme citate, ma di avere ritenuto sussistente un recesso illegittimo perchè mancante di giusta causa, che la B. non aveva provato: di qui l’inammissibilità della domanda come spiegata. Senza contare che, come si è visto in precedenza, il ragionamento della Corte territoriale è stato completamente diverso da quello che i ricorrenti hanno ad essa addebitato, avendo la Corte ritenuto che il recesso, motivato o no, fosse stato accettato dai soci.

Quanto al segmento della doglianza concernente l’invio della raccomandata di recesso alla società e non ai soci (pagina 29 del ricorso), si tratta di questione non trattata nella sentenza impugnata e che risulta come tale nuova e perciò anch’essa inammissibile.

Ed infatti, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675). Indicazioni, quelle menzionate, nel caso di specie del tutto mancanti.

A tal riguardo occorre allora rammentare che, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675). Indicazioni, quelle menzionate, nel caso di specie del tutto mancanti.

p. 7.4. – Il quarto motivo inammissibile.

Valgono in proposito le considerazioni svolte nei due paragrafi precedenti:

a) per quanto riguarda il vizio motivazionale, agevole osservare che la Corte d’appello, alle pagine 11-12 della sentenza, ha dato analiticamente conto delle doglianze rivolte contro la consulenza tecnica (l’ausiliare non avrebbe precisato come e da dove aveva estrapolato i dati posti a base del calcolo eseguito, avrebbe effettuato un sopralluogo non autorizzato, non avrebbe disposto alle contestazioni del consulente tecnico di parte) rispondendo alle pagine 12-16 a ciascuna di esse (il sopralluogo era stato effettuato nel pieno contraddittorio delle parti in forza di una legittima scelta peritale, potendo il consulente nell’espletamento del mandato chiedere informazioni a terzi e alle parti; era stata analizzata un’attività aziendale del tutto analoga a quella della società; era stato fatto corretto impiego del MOL, non era attendibile la consulenza tecnica di parte fondata sul reddito dichiarato in sede fiscale, considerata inattendibile);

b) per quanto riguarda il vizio di violazione di legge, anche in questo caso è del tutto evidente che non viene in questione un travisamento delle norme richiamate, ma una censura rivolta all’amministrazione e valutazione del materiale istruttorio.

A ciò occorre aggiungere che il motivo manca del requisito di autosufficienza laddove si riferisce all’impiego di documenti prodotti in sede di appello è senza il consenso delle parti, dal momento che detti documenti non sono identificati.

Quanto alla circostanza che liquidazione della quota dovesse essere effettuata al 31 dicembre 2004 in forza dell’art. 12 dello statuto della società, è sufficiente osservare che la questione non è affatto trattata dalla sentenza impugnata. La doglianza è dunque in parte qua inammissibile in forza del principio richiamato al paragrafo precedente.

p. 8. – Le spese – da porre a carico dei soci ricorrenti – seguono la soccombenza.

PQM

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna C.A. e Co.Ma. al rimborso, in favore della B., delle spese sostenute per questo grado del giudizio, liquidate in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2016

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