Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23066 del 22/10/2020
Cassazione civile sez. VI, 22/10/2020, (ud. 23/09/2020, dep. 22/10/2020), n.23066
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 30996-2019 proposto da:
A.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE ACACIE
13, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO DI GENIO, rappresentata
e difesa dagli avvocati FELICE AMATO, TOMMASO AMATO;
– ricorrente –
contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, (OMISSIS), in
persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso la sede dell’AVVOCATURA
dell’Istituto medesimo, rappresentato e difeso dagli avvocati MAURO
SFERRAZZA, VINCENZO TRIOLO, VINCENZO STUMPO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 26672/2019 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
di ROMA, depositata il 22/10/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non
partecipata del 23/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELLA
MARCHESE.
Fatto
RILEVATO
che:
A.C. ha proposto ricorso ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c., avverso la sentenza n. 26672 del 2018, con la quale la Corte di cassazione ha respinto il ricorso ordinario proposto dalla medesima A. e, per quanto solo rileva in questa sede, condannato la stessa al pagamento, in favore dell’INPS, “delle spese processuali liquidate in Euro 600,00, di cui Euro 400,00 per compensi professionali, oltre al 15% per spese generali ed oneri accessori”;
all’odierno giudizio resiste l’INPS;
è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio.
Diritto
CONSIDERATO
che:
con il motivo di ricorso, parte ricorrente deduce, in via principale, un errore di fatto, ai sensi dell’ art. 391 bis c.p.c. e dell’art. 395 c.p.c., n. 4, per essere la Corte incorsa in un errore di percezione determinato dalla supposizione (del fatto) che l’ammontare delle spese borsuali sostenute dall’INPS ammontasse a Euro 200,00 mentre “tale fatto” risultava escluso dai documenti di causa;
in via gradata, parte ricorrente assume un errore di calcolo laddove la somma liquidata (Euro 600,00) debba ritenersi comprensiva della maggiorazione del 15%; ciò perchè, in tal caso (a ritenere cioè la somma complessiva di Euro 600,00 inclusiva anche della maggiorazione del 15%), l’importo risulterebbe erroneamente calcolato e andrebbe rettificato in Euro 460,00 (Euro 400,00 per compensi professionale ed Euro 60,00 quale percentuale nella misura del 15% del primo importo);
il motivo è inammissibile;
come noto, l’errore revocatorio presuppone il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, semprechè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione (tra le tante, Cass. n. 442 del 2018);
nella fattispecie di causa, si imputa alla Corte di avere riconosciuto alla parte vittoriosa (che aveva depositato la procura speciale al difensore e, successivamente, partecipato alla discussione della causa) oltre ai compensi professionali ed alle spese generali forfettarie, un ulteriore importo, a titolo di esborsi, nonostante l’assenza di documentazione che ne comprovasse l’effettivo pagamento;
pertanto, secondo la parte, risulterebbe integrato il contrasto tra il fatto rappresentato in sentenza (spese sostenute dal difensore) e il medesimo fatto come emergente dagli atti processuali (assenza di spese sostenute dal difensore), emendabile con il rimedio revocatorio;
osserva, invece, il Collegio come la descritta censura esuli dal paradigma normativo dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, perchè prospetta una questione di diritto che involge direttamente l’attività processuale compiuta dalla Corte e che inerisce al potere di determinazione delle spese da porre a carico della parte soccombente;
nella pronuncia impugnata, la Corte di Cassazione ha riconosciuto all’INPS, oltre alle spese generali nella misura del 15%, un importo ulteriore, a titolo di esborsi, pari alla differenza tra la somma complessivamente liquidata di Euro 600,00 e quella espressamente attribuita a titolo di compensi professionali (Euro 400,00);
si tratta, conformemente a Cass., sez.un., n. 31030 del 2019, alla cui motivazione integralmente si rinvia, della liquidazione di spese, diverse tanto da quelle generali quanto da quelle documentate, che sfuggono ad una precisa elencazione ma che di fatto sono sostenute dal professionista nello svolgimento del singolo incarico;
esse vanno individuate nei costi sostenuti per gli spostamenti necessari a raggiungere l’ufficio giudiziario in occasione delle udienze o in quelli per gli adempimenti di cancelleria o anche nei costi per fotocopie, per l’invio di mail o per comunicazioni telefoniche inerenti al processo e sostenute al di fuori dello studio: per esse, in ragione della loro variabilità e scarsa rilevanza economica, nonchè per l’assenza di documenti fiscali che ne attestino l’esborso, sarebbe oltremodo difficile chiedere uno specifico rimborso. L’impossibilità o la rilevante difficoltà di provare il preciso ammontare di tali costi, unita alla considerazione della loro effettiva ricorrenza secondo l’id quod plerumque accidit, conduce ad una loro liquidazione equitativa (v. in termini sez.un. 31030 cit.);
in relazione alla liquidazione di detta voce, si è, dunque, in presenza, di un’attività della Corte che assume necessariamente natura valutativa e che, come tale, è estranea alla logica del rimedio revocatorio;
assorbito l’esame della censura subordinata, il ricorso, sulla base delle svolte argomentazioni, va dichiarato inammissibile;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
PQM
La corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis., se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 23 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2020