Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23020 del 21/10/2020

Cassazione civile sez. I, 21/10/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 21/10/2020), n.23020

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6886/2019 proposto da:

S.T.L., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Natale Luigi, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositato il 04/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/09/2020 dal cons. Dott. BALSAMO MILENA.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Il Tribunale di Napoli, con decreto pubblicato il 4.02.2019, respingeva il ricorso proposto da S.T.L., cittadino della (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Caserta, a sua volta, aveva rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria).

Il Tribunale di Napoli riteneva che le dichiarazioni rese dal richiedente non fossero attendibili e che la Commissione avesse correttamente valutato l’insussistenza delle condizioni per il riconoscimento delle situazioni soggettive invocate per ottenere la protezione internazionale. Il richiedente aveva raccontato di essere stato costretto a lasciare la regione di (OMISSIS) della (OMISSIS) (villaggio (OMISSIS)) nel febbraio 2016 per sfuggire alle ritorsioni della comunità poro, di cui aveva fatto parte sin dall’età di cinque anni, ma che aveva lasciato all’età di sedici anni per convertirsi al (OMISSIS).

Sosteneva che la comunità pretendeva che ricoprisse il ruolo che il padre – che era defunto – ricopriva nella comunità e che lo avevano aggredito una volta saputo della conversione; concludeva affermando di aver raggiunto l’Italia nel settembre 2016 e di aver presentato domanda di asilo presso la Questura. Il tribunale partenopeo respingeva la domanda di protezione evidenziando le contraddizioni e l’incoerenza del colloquio oltre all’assenza di contestazioni specifiche al provvedimento di rigetto della Commissione.

S.T.L., ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di tre motivi.

Il ministero dell’interno si è costituito al solo fine di partecipare all’udienza.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

2.Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27 bis in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il “decidente escluso il riconoscimento della protezione internazionale, violando il principio secondo il quale il convincimento del giudice non può fondarsi sulla sola credibilità soggettiva del richiedente, avendo l’onere di verificare d’ufficio la credibilità delle dichiarazioni sulla base delle informazioni esterne relative alla situazione del paese di provenienza.

Argomentando ulteriormente che la valutazione di credibilità del richiedente deve fondarsi sulla verifica delle dichiarazioni e sulla situazione del paese, avendo il giudice il dovere di acquisire informazioni sul contesto socio – politico del paese di rientro sulla base delle fonti di informazioni indicate nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 o, in mancanza, acquisendo i dati da altri canali informativi. Non potendo l’incoerenza delle dichiarazioni su fatti secondari escludere di per sè la credibilità del richiedente, atteso che in detta materia vige il principio del cd. onere probatorio attenuato e dell’officiosità dei poteri istruttori del giudicante.

3. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, comma 3, lett. a), e art. 14; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il tribunale escluso il riconoscimento dello status di rifugiato, benchè sussista una situazione di violenza diffusa ed indiscriminata per il pericolo dei cittadini di restare vittime di attentati; che anche la limitazione delle libertà fondamentali nella (OMISSIS) rappresenta un elemento che denota l’insicurezza e l’instabilità politica del paese.

4.Con la terza censura, si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. A) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; per avere il tribunale escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, benchè il richiedente abbia evidenziato la situazione di vulnerabilità a causa della diffusione del virus Ebola in (OMISSIS), la sua giovane età, l’assenza di legami familiari nel pese di origine, il pericolo di essere sottoposto a trattamenti inumani, la presenza di violenza indiscriminata sul territorio, l’avvenuta integrazione sociale in Italia, avendo egli prodotto in giudizio un contratto di lavoro a tempo determinato.

6.Le prime due censure sono destituite di fondamento.

Secondo un recente indirizzo di legittimità, inaugurato da S.U. 2954/2020 e seguito da Cass. 8810/2020 e da Cass. 11925 del 19/06/2020, cui il collegio presta convinta adesione, il dovere di cooperazione istruttoria, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorge ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in un rapporto di stretta connessione logica (anche se non in una relazione di stretta e indefettibile subordinazione) rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile. Il principio che le inattendibili dichiarazioni del richiedente non richiedono approfondimento istruttorio officioso rileva ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Difatti è in relazione alla massima protezione ed ai casi disciplinati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) di “condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte” o “tortura o altra forma di pena o trattamento inumano e degradante ai danni del richiedente”, che la valutazione di credibilità soggettiva (all’esito di una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda; Cass. n. 21142/2019), costituisce una premessa indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento; sicchè le dichiarazioni che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non richiedono alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. n. 5224 del 2013; n. 16925 del 2018) dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass. (ord.) 20.12.2018, n. 33096; Cass. 12.6.2019, n. 15794). A meno che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri probatori, incombendo al giudice l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, al fine di accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Cass. n. 871 del 2017; Cass. n. 19716/2018).

Questa Corte di legittimità, con principio al quale vuole qui darsi continuità nell’apprezzata sua ragionevolezza, ha per un verso affermato che in materia di protezione internazionale il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, art. 5, comma 5, (Cass. n. 15794 del 12/06/2019; Cass. n. 27336 del 29/10/2018). Sull’indicata premessa, nella intrinseca inattendibilità del richiedente alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, i giudici di merito non sono tenuti a porre in essere alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass., 27/06/2018, n. 16925; Cass. 10/4/2015 n. 7333; Cass. 1/3/2013 n. 5224). Il contenuto dei parametri sub c) ed e) (coerenza e plausibilità delle dichiarazioni; generale attendibilità del richiedente) del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 su cui scrutinare la credibilità del racconto del richiedente protezione, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese là dove il complessivo quadro di allegazione e prova che sia stato fornito non risulti esauriente sempre che, però, sia positivo il giudizio di veridicità alla stregua degli indici di genuinità intrinseca (Cass. 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Cass. 10/5/2011, n. 10202). A questo detto si aggiunga che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero integra un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), – e che tale apprezzamento di fatto diviene censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. n. 3340 del 05/02/2019; Cass. n. 33096 del 20/12/2018).

Nella fattispecie, il collegio ha, tra l’altro, operato correttamente, considerando non certamente l’inattendibilità dei profili marginali della vicenda narrata, ma considerando complessivamente l’inverosimiglianza della narrazione, inferita dalla vaghezza ed astrattezza delle risposte rese all’esaminatore al quale non sapeva riferire dei rituali della comunità Poro, benchè vi avesse fatto parte dall’età di cinque anni; limitandosi ad una descrizione stereotipata, priva di specifici riferimenti alla struttura e ai rituali della comunità. La valutazione di non credibilità fondata anche sulla circostanza che il richiedente ricordava della presunta aggressione subita solo al termine dell’audizione, effettuata dal Tribunale per essere il racconto inattendibile e contraddittorio, attiene, in sè, come già chiarito, al giudizio di fatto e non è qui ulteriormente apprezzabile.

A fronte di dette argomentazioni parte ricorrente si è limitata da un lato ad una generica affermazione di plausibilità della narrazione compiuta dal richiedente, dall’altro a ridimensionare le contraddizioni evidenziate dal Tribunale, veicolando la critica sotto il paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

7. Invece, e con riferimento alla seconda censura relativa alla violazione dell’art. 14, lett. c) cit., il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Sez.1, 31/1/2019 n. 3016;Cass. n.. 15794 del 2019; n. 10286/2020). Ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) la “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” è il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

La protezione sussidiaria, disciplinata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ha come presupposto la presenza, nel Paese di origine, di una minaccia grave e individuale alla persona, derivante da violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato, il cui accertamento, condotto d’ufficio dal giudice in adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria, “deve precedere, e non seguire, qualsiasi valutazione sulla credibilità del richiedente”, (Cass. n. 8819/2020); l’indagine d’ufficio non trova ostacolo nella non credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente stesso riguardo alla propria vicenda personale, sempre che il giudizio di non credibilità non investa il fatto stesso della provenienza dell’istante dall’area geografica interessata alla violenza indiscriminata che fonda tale forma di protezione (Sez. 5 1, 24/05/2019, n. 14283; Sez.6-1, 25/07/2018, n. 19716; Sez.6-1, 28/06/2018, n. 17069; Sez.6-1, 16/07/2015, n. 14998).

Nel caso di specie, le fonti indicate dal giudice di merito, compiutamente indicate a pagina 7 del decreto impugnato, dimostrano che già precedentemente alle elezioni democratiche del 2012, è iniziato un processo di democratizzazione del Paese, con l’insediamento della (OMISSIS) delle N. U., la quale ha avviato il disarmo dei ribelli sancendo la fine della guerra civile nel 2002; sono stati avviati i processi per giudicare dei crimini di guerra; nel 2005 la missione si è ritirata al fine di agevolare il processo in corso di democratizzazione. Il nuovo presidente B.K.E. ha conservato solidi legami con i paesi limitrofi, ha avviato un percorso di riforme per migliorare la sanità e il sistema scolastico e la struttura economica del paese.

In relazione ai presupposti del riconoscimento della protezione sussidiaria, la Corte di giustizia UE 17.2.2009, in causa C-465/07, Elgafaji, ha avuto modo di precisare: a) che la situazione di violenza generalizzata esistente in una determinata area geografica non è sufficiente a giustificare la concessione della protezione sussidiaria, se il richiedente non dia prova di essere personalmente ed individualmente esposto ad un rischio grave in conseguenza di quella situazione (p. 37: “la sola dichiarazione oggettiva di un rischio legato alla situazione generale di un paese non è sufficiente, in linea di principio, a provare che le condizioni (per la protezione sussidiaria) sono soddisfatte in capo ad una determinata persona”); b) che a tale principio può derogarsi solo “in via eccezionale”, e solo nel caso in cui la violenza scoppiata nel paese del richiedente asilo sia così vasta e feroce, da lasciar presumere che il rientro in patria esporrebbe il richiedente asilo al rischio di danno grave alla persona “per il fatto della sola presenza” nel suo paese (p. 43 della motivazione); c) che, in ogni caso, spetta al giudice nazionale valutare se, quale e quanta sia l’intensità della violenza indiscriminata esistente nel paese di provenienza del richiedente (p. 43 della motivazione, secondo alinea)(Corte giust. 17/2/2009, C-465/07, Elgafaji, richiamata da Corte giust. 30/1/2014, C 285/12, Diakitè).

Questa Corte ha parimenti affermato che la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. Sez. 6-1, 17/04/2018, n. 9427; sez. I n. 2954/2020; n. 18306 e 9090 del 2019).

Nella specie, il collegio giudicante, dopo aver attivato il potere officioso di informarsi sulla situazione del paese di origine del ricorrente, ha scongiurato l’eventualità di un rischio per il predetto, sia perchè il virus Ebola risulta sconfitto in (OMISSIS) già dal 2017, come emerge dal rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, sia per aver accertato l’assenza di una situazione di violenza generalizzata e dunque la possibilità di esposizione a pericolo per la sua incolumità fisica.

Pertanto, la censura relativa alla dedotta violazione del c.d. dovere di cooperazione istruttoria di cui al D.Lgs. 25 del 2008, art. 8 risulta smentita dall’assolto onere di cooperazione dal decidente; con riferimento alla critica che attinge la valutazione operata dal primo collegio avente ad oggetto la situazione di pericolo in cui verserebbe il richiedente in caso di reimpatrio, vale osservare che lo stabilire quale sia il livello di violenza esistente nel paese di provenienza del richiedente (se basso, alto o “eccezionale”) è questione di fatto che deve essere “valutata dalle autorità nazionali competenti cui sia stata presentata una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro ai quali venga deferita una decisione di rigetto di una tale domanda” (p. 43 della motivazione). Di conseguenza, lo stabilire in punto di fatto se in un determinato paese esista o non esista una condizione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato che generi un grave pericolo per il ricorrente è un accertamento di fatto, non sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’omesso esame di fatti, profilo nel caso di specie non prospettato. Il risultato di tale indagine può essere censurato, quindi, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018; Cass. n. 11936/2020).

9.Col terzo motivo, si denuncia il mancato riconoscimento della protezione umanitaria stante la situazione di insicurezza della (OMISSIS) e la impossibilità, per l’odierno ricorrente, di godere dei propri diritti umani fondamentali in ipotesi di rimpatrio.

In primo luogo deve rilevarsi che la pronuncia delle S.U. 29459 del 2019 ha definitivamente affermato che alle domande (e, conseguentemente, ai giudizi) in corso alla data di entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018 si applica il sistema legislativo preesistente relativo alla tutela di carattere umanitario e non opera la sopravvenuta abrogazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. In secondo luogo, deve rilevarsi che la protezione umanitaria si fonda su requisiti non pienamente sovrapponibili con quelli posti a base delle protezioni tipizzate (rifugio politico e protezione sussidiaria) richiedendo un esame autonomo delle condizioni di vulnerabilità dedotte ed allegate, essendo tenuto il giudice del merito a svolgere anche su tale domanda, ove non genericamente proposta, il proprio dovere di cooperazione istruttoria.

In conformità con l’approccio scelto da questa Corte (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, e seguito, tra le altre, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19; n. 11912/2020, oltre che dalla preponderante giurisprudenza di merito) e condiviso dalle Sezioni Unite(n. 29459 del 2019), occorre accordare rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.

Il giudizio comparativo tra la condizione personale del richiedente asilo e le conseguenze di un suo eventuale rimpatrio – giudizio alla luce del quale, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4455/2018), andranno valutati funditus, operandone poi un bilanciamento di tipo ipotetico, la attuale condizione dell’istante nel Paese di accoglienza ed il suo futuro ricollocamento in quello di provenienza – non può prescindere dall’analisi e dal significato del sintagma “condizione di vulnerabilità” – vulnerabilità che, alla luce dell’insegnamento delle sezioni unite, rappresenta soltanto uno dei requisiti per i quali può riconoscersi la protezione umanitaria.

E’ stato definitivamente chiarito, quanto ai presupposti necessari per ottenere la protezione umanitaria (per tutte Cass. n. 4455/2018). Che non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano, che gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitano e possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali, sicchè l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (ex multis, Cass. nn. 13079 e 13096 del 2019); che l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione; che era necessario dar seguito a quell’orientamento di legittimità (inaugurato da Cass. n. 4455/2018 e riaffermato da Cass. n. 111072019 e da Cass. n. 110472020; n. 881972020, in motiv), nonchè dalla prevalente giurisprudenza di merito che assegnava rilievo centrale alla valutazione comparativa ex art. 8 Cedu tra il grado di integrazione effettiva del nostro paese e la situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio potesse determinare come già detto, la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.

Detto giudizio deve essere effettuato secondo il principio di “comparazione attenuata” (v. Cass. n. 1104/2020; n. 9304/2019), nel senso che quanto più intensa è la vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il “secundum comparationis”; tuttavia, in difetto di requisiti di vulnerabilità del richiedente e di allegazione del livello di integrazione, il Collegio non ha potuto svolgere alcuna comparazione, limitandosi a negare l’esistenza di seri motivi per il riconoscimento della protezione umanitaria. Vale osservare che ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria il confronto tra il grado di integrazione effettiva raggiunto nel nostro paese e la situazione oggettiva del paese di origine deve essere effettuato secondo il principio della comparazione attenuata” (Cass. n. 1104/2020; n. 9304/2019), nel senso che quanto più intensa è la vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il “secundum comparationis”; tuttavia, in difetto di requisiti di vulnerabilità del richiedente e di allegazione del livello di integrazione, il collegio non ha potuto svolgere alcuna comparazione, limitandosi a negare l’esistenza di seri motivi per il riconoscimento della protezione umanitaria.

Esclusa l’attendibilità del racconto e con essa la prova di una vicenda del richiedente meritevole di protezione, il Collegio ha ritenuto che quanto residuava nelle richieste del richiedente era da apprezzarsi in termini di valutazione della situazione generale della (OMISSIS) senza collegamento con la storia personale del primo che restava, come tale, non meritevole di tutela, giudizio non censurabile in sede di legittimità per le ragioni più sopra esposte sulla inattendibilità del racconto che quelle situazioni descrive.

Gli altri profili presi in considerazione dal tribunale non hanno superato il vaglio della fondatezza, in quanto l’insicurezza del Paese di origine non ha raggiunto la situazione di violenza diffusa e generalizzata tale da accordare la protezione umanitaria così come risulta debellato il virus ebola. Ritenendo peraltro l’irrilevanza – ai fini della dimostrazione della dedotta integrazione sociale – un contratto di lavoro a tempo determinato già scaduto, in assenza, in particolare per il richiedente, del pericolo di deprivazione dei diritti fondamentali nel paese di origine.

Vale osservare come l’apprezzamento della valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere correlata ad una valutazione individuale, da spendersi caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia che va comparata con la situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. Là dove infatti si prescindesse dalla situazione particolare del richiedente, si prenderebbe in considerazione non già la peculiare situazione del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (Cass. 03/04/2019 n. 9304).

Venuto meno uno dei due termini di comparazione secondo i quali deve trovare svolgimento il giudizio sulla riconoscibilità della protezione umanitaria, l’ulteriore situazione descritta dal ricorrente come da goduta in Italia non entra neppure nel giudizio di bilanciamento a cui è chiamato il giudice del merito (Cass. 07/08/2019 n. 21123).

10.In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Non è luogo a provvedere sulle spese, poichè la parte intimata non ha svolto attività difensiva.

Si dà atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’importo ulteriore del contributo unificato (c.d. doppio contributo), pari a quello dovuto per l’impugnazione, ove dovuto (S.U. n. 4315/2020).

PQM

Rigetta il ricorso.

Si dà atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’importo ulteriore del contributo unificato (c.d. doppio contributo), pari a quello dovuto per l’impugnazione, ove dovuto (S.U. n. 4315/2020).

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020

 

 

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