Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23018 del 21/10/2020

Cassazione civile sez. I, 21/10/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 21/10/2020), n.23018

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6881/2019 proposto da:

D.E., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Natale Luigi, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, del 29/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/09/2020 dal cons. Dott. BALSAMO MILENA.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Il Tribunale di Napoli, con decreto pubblicato il 29.01.2019 respingeva il ricorso proposto da D.E., cittadino (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Caserta, a sua volta, aveva rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria).

Il Tribunale di Napoli riteneva l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria, alla luce della non credibilità delle dichiarazioni del richiedente nonchè di quella umanitaria per l’insussistenza di rischi equivalenti a quelli sottesi alla protezione sussidiaria, ma limitati nel tempo e per l’insussistenza del presupposto dell’avvenuta integrazione nel nostro paese. Il richiedente aveva raccontato di aver lasciato il (OMISSIS) il primo gennaio 2015 per ragioni politiche e socio-economiche, avendo subito minacce ed aggressioni per la sua appartenenza al partito (OMISSIS) nonchè per evitare di essere arrestato a seguito dell’emissione di un mandato di cattura per l’ingiusta accusa di aver ucciso un militante del partito (OMISSIS) durante una manifestazione a cui – affermava – non aveva partecipato.

Il tribunale partenopeo respingeva la domanda di protezione evidenziando l’assenza dei presupposti della richiesta protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria.

D.E. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di quattro motivi.

Il ministero dell’interno ha svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

2.Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5 nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 27 ex art. 360 c.p.c., n. 3; per avere i giudici di primo grado escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, basandosi sulla ritenuta non credibilità della narrazione del richiedente; valutazione che deve essere il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione svolta alla stregua dei criteri del cit. art. 3, valutando se il richiedente abbia fatto tutti gli sforzi possibili per circostanziare la domanda, stabilendo la coerenza delle dichiarazioni rispetto alla situazione del Paese di provenienza, la tempestività della domanda di protezione e l’attendibilità intrinseca della narrazione. Nella fattispecie, invece, il Collegio avrebbe escluso l’attendibilità del ricorrente scrutinando un singolo aspetto secondario della dichiarazione. In tal modo, il decidente avrebbe violato, ad avviso del ricorrente, il dovere di cooperazione istruttoria, omettendo di attivare il potere di acquisire informazioni attendibili sulla situazione del paese di provenienza e delle disposizioni legislative vigenti, potere che il giudice secondo il ricorrente – deve attivare anche in assenza di credibilità soggettiva del richiedente.

3. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2,7,8 e 11 del D.Lgs. n. 251 del 2007; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il tribunale escluso il riconoscimento dello status di rifugiato, pur sussistendo il timore fondato dello straniero di subire persecuzioni o atti discriminatori per l’appartenenza ad un partito politico avversario, richiamando al riguardo la Convenzione di Ginevra in materia di status di rifugiato.

4.Con la terza censura, si lamenta la violazione è falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), e art. 14, lett. c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 ex art. 360 c.p.c., n. 3; per avere i giudici di primo grado escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, violando il dovere di cooperazione istruttoria, avendo il decidente acquisito informazioni non approfondite sulla situazione del paese di provenienza. Nel caso all’esame, fonti internazionali indicate dal ricorrente descriverebbero una situazione di conflitto all’interno del paese in cui si sviluppano episodi di violenza ad opera di gruppi armati; inoltre il governo ha emanato leggi limitative della libertà di espressione dei giornalisti, vessato gruppi gay, arrestato gli oppositori appartenenti al gruppo politico (OMISSIS), pratica torture e maltrattamenti nelle carceri. Al fine di dimostrare la situazione socio – politica del (OMISSIS), viene citato l’episodio di un attacco alla città di (OMISSIS) dove gli abitanti sono rimasti senza abitazione e la polizia non è riuscita a proteggere i cittadini. In ogni caso, si deduce la sussistenza di un livello di violenza indiscriminata nel Paese, tale da far ritenere che il rientro del richiedente lo esponga ad un rischio elevato di subire minacce per la sola presenza sul territorio.

Assume il ricorrente che il tribunale avrebbe potuto acquisire dette informazioni dall’alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati e dal Ministero degli Affari esteri, che avrebbero confermato la sussistenza degli episodi di violenza collettiva o privata da parte delle autorità statali ed il rischio per l’incolumità personale del ricorrente, con la conseguenza che la sua posizione avrebbe dovuto essere valutata ai sensi dell’art. 14, lett. C).

5. Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; per avere il tribunale escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, benchè sussistessero le condizioni di vulnerabilità quali la giovane età, impossibilità di reinserimento nel paese di origine, una buona integrazione sociale in Italia, il pericolo di essere sottoposto a trattamenti inumani nel Paese di provenienza, l’instabilità politica e la violenza indiscriminata diffusa in (OMISSIS).

6. I primi due motivi, da scrutinarsi congiuntamente, involgendo questioni connesse, sono fondati, assorbito il quarto mezzo.

Preliminarmente, appare opportuno evidenziare che, ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 16, comma 1, lett. b), (come modificato dal D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 18, art. 1, comma 1, lett. I), n. 1)) è escluso lo status di protezione sussidiaria quando sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero abbia commesso, al di fuori del territorio nazionale, prima di esservi ammesso in qualità di richiedente, un reato grave. Analoga norma (art. 10, comma 2, lett. b)) è prevista quanto allo status di rifugiato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria non può essere concesso, rispettivamente ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b) e art. 16, comma 1, lett. b), come modificati dal D.Lgs. n. 18 del 2014, art. 1, comma 1, lett. h) e I), n. 1, a chi abbia commesso un reato grave al di fuori dal territorio nazionale, anche se con un dichiarato obiettivo politico, così come, per identità di ratio, non può essere riconosciuta la protezione per motivi umanitari. Tale causa ostativa, in quanto condizione dell’azione, deve essere accertata alla data della decisione e, involgendo la mancanza dell’elemento costitutivo previsto dalla suddetta legge, può essere rilevata d’ufficio dal giudice (Sez. 6 – 1, n. 27504 del 30/10/2018, Rv. 651149 – 01; Sez. 6 – 1, n. 14028 del 06/06/2017, Rv. 644611 – 01).

Secondo un orientamento, la predetta esclusione richiede l’accertamento dell’avvenuta commissione di reati fuori del territorio italiano, da qualificarsi gravi alla luce del parametro della pena edittale prevista dalla legge italiana per quel medesimo illecito, non essendo sufficiente il solo mandato di cattura (Sez. 6 – 1, n. 25073 del 23/10/2017, Rv. 646244 – 01).

Al contrario, secondo Cass. n. 5358/2018, sono sufficienti i gravi sospetti della commissione del reato, a fronte dei quali non sussiste una facoltà di apprezzamento discrezionale circa la concessione della protezione internazionale. Anche a voler condividere detta interpretazione, il richiedente asilo avrebbe comunque la possibilità di richiedere la protezione umanitaria; il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari (secondo la normativa vigente “ratione temporis”) presuppone, difatti, l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali. Ne consegue che anche laddove il richiedente abbia commesso (o vi siano sospetti che abbia commesso) fuori del territorio nazionale un reato grave (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b e art. 16, comma 1, lett. b) e, tuttavia, venga accertato il rischio, in caso di rientro nel Paese di origine, di sottoposizione a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, secondo i principi affermati dall’art. 3 della CEDU, tale evenienza va presa in considerazione dal giudice della protezione internazionale, con l’ausilio dei poteri ufficiosi che gli competono, anche nelle fattispecie antecedenti all’entrata in vigore della L. n. 110 del 2017 che prevede che, in nessun caso, possa disporsi l’espulsione dello straniero qualora esistano fondati motivi di ritenere che esso rischi di essere sottoposto a tortura (D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19) (Cass. n. 4455 del 2018; n. 2830 del 2015).

Occorre ricordare che la qualifica di rifugiato politico, riconducibile alla categoria degli status e dei diritti soggettivi, ai sensi della Convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951 (ratificata in Italia con L. 24 luglio 1954, n. 722), e ora della direttiva 2005/85/CE, attuata col cit. D.Lgs. n. 25 del 2008, si caratterizza per la circostanza che il richiedente non può o non vuole fare ritorno nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per il fondato timore di una persecuzione personale e diretta (per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze o stili di vita). Ne consegue – come spiega Sez. 1, n. 30105/2018, Rv. 653226-01 – che la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza è rilevante, ai fini del riconoscimento dello status, solo se si correla alla specifica posizione del richiedente e, più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica. Gli atti di persecuzione devono alternativamente: a) essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa, ai sensi dell’art. 15, paragrafo 2, della CEDU; b) costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lett. a). Essi possono, tra l’altro, assumere la forma di: – atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; – provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; – azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; – rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria.

Ciò premesso, secondo un recente indirizzo di legittimità, inaugurato da Cass. 2954/2020 e seguito da Cass.8810/2020 e da Cass. 11925 del 19/06/2020, cui il collegio presta convinta adesione, il dovere di cooperazione istruttoria, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorge ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in un rapporto di stretta connessione logica (anche se non in una relazione di stretta e indefettibile subordinazione) rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile. Il principio che le inattendibili dichiarazioni del richiedente non richiedono approfondimento istruttorio officioso rileva ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Difatti è in relazione alla massima protezione ed ai casi disciplinati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) di “condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte” o “tortura o altra forma di pena o trattamento inumano e degradante ai danni del richiedente”, che la valutazione di credibilità soggettiva (all’esito di una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda; Cass. n. 21142/2019), costituisce una premessa indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento; sicchè le dichiarazioni che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non richiedono alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. n. 5224 del 2013; n. 16925 del 2018) dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass. (ord.) 20.12.2018, n. 33096; Cass. 12.6.2019, n. 15794). A meno che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri probatori, incombendo al giudice l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, al fine di accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Cass. n. 871 del 2017; Cass. n. 19716/2018). Invece, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Sez.1, 31/1/2019 n. 3016; Cass. n.. 15794 del 2019; n. 10286/2020). Occorre precisare che solo a condizione che la suddetta valutazione – di credibilità soggettiva o meno – risulti essere stata effettuata con il metodo indicato dalla specifica normativa attuativa di quella di origine UE e, quindi, in conformità della legge, essa può dare luogo ad un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, come tale censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 – come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (tra le tante: Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340, n. 13944/2020; n. 11925/2020).

Il che significa che se tale valutazione non deriva da un esame effettuato in conformità con i criteri stabiliti dalla legge è denunciabile in cassazione – con riguardo all’esame medesimo – la violazione delle relative disposizioni – la cui sussistenza viene ad incidere “a monte” sulle premesse della valutazione di non credibilità, travolgendola non per ragioni di fatto ma di diritto – salva restando l’impugnabilità della valutazione in oggetto per uno dei vizi previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5.

4. Nel caso all’esame, il Tribunale ha errato nella enunciazione di una regola che non trova riscontro nel disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 avendo affermato che non era verosimile che nonostante il mandato di arresto (documentato dal richiedente sia pure in fotocopia), egli fosse rimasto nel suo villaggio dal 9 settembre 2014 al primo gennaio 2015, procedendo ad una valutazione atomistica degli eventi raccontati e omettendo di specificare quale altra prova il soggetto avrebbe dovuto offrire. Al contrario, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice, ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi di quanto narrato dal richiedente, ma secondo la griglia predeterminata di criteri offerta del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (v. già Sez. 6-1, n. 8282/2013, Rv. 625812-01; Sez. 6-1, n. 24064/2013, Rv. 628478- 01; Sez. 6-1, n. 16202/2012, Rv. 623728-01), secondo cui, qualora gli elementi della dichiarazione non sono suffragati da prove sono comunque considerati veritieri se l’autorità giudiziaria ritiene che: “a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”; dovendosi interpretare l’attendibilità della narrazione nel senso di ritenere sufficiente che il racconto sia credibile “nell’insieme” o “in generale”(Cass. n. 21142/2019).

La norma riproduce il testo dell’art. 4, comma 5 della Direttiva 2004/83/CE, sulla quale la CGUE così si è espressa: “quando taluni aspetti delle dichiarazioni di un richiedente asilo non sono suffragati da prove documentali o di altro tipo, tali aspetti non necessitano di una conferma purchè siano soddisfatte le condizioni cumulative stabilite dall’art. 4, paragrafo 5, lettere da a) a c) della medesima direttiva” (CGUE, grande sezione, 2.12.2014, cause riunite C-148/13 a C-150/13). Ciò significa che il giudice è tenuto ad operare un accurato esame delle dichiarazioni del richiedente asilo, al fine di valutarne la completezza, la tempestività e la attendibilità secondo i criteri procedimentali posti dall’art. 3 e quindi assumere informazioni sul paese di origine (in acronimo COI) aggiornate e pertinenti, alla luce della quali valutare le dichiarazioni; le quali così valutate ed analizzate possono anche -di per sè sole – costituire prova dei fatti in deroga all’ordinario principio dispositivo (Cass. nn. 9815/2020; n. 7438/2020; Cass. 29056/2019; Cass. 29056/2019; Cass. Cass. 28990/2018; Cass. 26921/2017; Cass.; Cass. Cass. n. 16201/2015).

5. Per quanto riguarda in particolare la condizione del ricorrente, esso risulta destinatario di un mandato di cattura per l’accusa di omicidio di un avversario politico, avvenuto durante una manifestazione, emesso, secondo le dichiarazioni del richiedente solo perchè appartenente al partito di opposizione. Deve qui ricordarsi che la credibilità delle dichiarazioni rese non può essere esclusa sulla base di mere discordanze o contraddizioni nell’esposizione dei fatti su aspetti secondari o isolati, quando sia mancato un preliminare scrutinio dei menzionati criteri legali previsti per la valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni (Cass. n. 8282/2013; n. 26921/2017.).

Il decreto impugnato ha, invero, rilevato lacune riguardanti aspetti secondari del racconto del richiedente la protezione, senza tuttavia valutare le difficili condizioni personali in cui egli si trovava al momento della narrazione ovvero delle difficoltà a rivelare come si fosse sottratto al mandato per alcuni mesi; escludendo poi la sostanziale verità del fatto consistente nell’essere destinatario di un mandato di cattura per omicidio di un avversario politico, sulla base del fatto che la documentazione comprovante le sue dichiarazioni (mandato di cattura) era stata prodotta in fotocopia (in quanto inviata via e-mail dalla madre), In tal modo i giudici di merito non hanno valutato la sostanziale “coerenza” e “plausibilità” del racconto coerente con le informazioni assunte relative ad una forte contrapposizione tra il partito di maggioranza e il (OMISSIS), peraltro confermato dalla documentazione prodotta (ed alle fonti informative) – che dimostra gli sforzi compiuti dal dichiarante per dimostrare la veridicità della narrazione – nè hanno valutato che il predetto aveva prodotto tutto ciò che era in suo possesso per provare la fondatezza del racconto. La suddetta valutazione di non credibilità soggettiva del ricorrente risulta quindi fondata su un esame delle sue dichiarazioni effettuato in modo difforme da come previsto dalla legge e, in particolare, dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

Il tribunale, inoltre, pur esaminando i documenti prodotti dal richiedente asilo (sebbene in copia) non solo non ne riferisce il contenuto impedendo di comprenderne la decisività; ma incorre soprattutto, in una violazione di legge (sotto forma di violazione dei principi relativi alla protezione internazionale dello straniero), laddove afferma l’irrilevanza di un tale supporto probatorio (riguardante la dimostrazione della persecuzione in Patria) perchè “la documentazione è in copia”. Invero, la documentazione offerta anche solo in copia dal ricorrente a suffragio delle proprie ragioni non può essere apoditticamente ritenuta non genuina perchè prodotta in copia o perchè apparentemente falsa ma dev’essere sottoposta ad indagine (anche attraverso i canali diplomatici e gli strumenti rogatoriali) onde verificarne l’autenticità(Cass. n. 11097/2019).

Lo scopo dell’esame di un’istanza di protezione internazionale non è solo quello di verificare se la denunciata lesione dei propri diritti umani avvenga in forma diretta e brutale ma anche quello di accertare se la contestata violazione di norme di legge nel Paese di provenienza sia opera degli organi costituzionalmente preposti a quel controllo e se essa costituisca una corretta attività degli organi istituzionali ovvero una surrettizia e palese violazione dei diritti umani (che, secondo le Carte internazionali, devono essere garantite a tutti gli uomini, indipendentemente dalla propria appartenenza ad una “razza”, ad un genere e ad una fede (religiosa o politica)), cosicchè la violazione di norme penali, ascritta (come nella specie) al richiedente asilo deve consistere in una legittima reazione dell’ordinamento all’infrazione commessa e non costituire una forma (indiretta e, perciò, più insidiosa) di persecuzione razziale o di genere, politica o religiosa verso il denunciante la violazione dei diritti umani, in proprio danno (v. Cass. n. 2863/2018; 25073 del 2017). Inoltre, il Collegio avrebbe dovuto accertare le condizioni carcerarie del (OMISSIS) e se la legislazione vigente preveda la pena di morte per chi è accusato di omicidio, circostanze che se verificate porrebbero il richiedente in una situazione oggettiva di pericolo tale da giustificare la concessione quanto meno della protezione umanitaria (v. Cass. n. 5358/2018 cit.).

6. La terza censura è infondata.

Ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) la “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” è il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

Come affermato da questa Corte la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass.Sez.6-1, 17/04/2018, n. 9427; sez. I n. 2954/2020; n. 18306 e 9090 del 2019).

Nella specie, il collegio giudicante, dopo aver attivato il potere officioso di informarsi sulla situazione del paese di origine del ricorrente, ha scongiurato l’eventualità di rischi per i diritti fondamentali del predetto, per aver accertato l’assenza di una situazione di violenza generalizzata nel Paese di origine e dunque dell’esposizione a pericolo per la sua incolumità fisica.

Con riferimento alla critica che attinge la valutazione operata dal primo collegio avente ad oggetto la situazione di pericolo in cui verserebbe il richiedente in caso di reimpatrio, vale osservare che lo stabilire in punto di fatto se in un determinato paese esista o non esista una condizione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato che generi un grave pericolo per il ricorrente è un accertamento di fatto, non sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’omesso esame di fatti, profilo nel caso di specie non prospettato. Il risultato di tale indagine può essere censurato, quindi, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018; Cass. n. 11936/2020).

7. In conclusione, il decreto impugnato va cassato, con riferimento alle prime due censure, assorbito il quarto mezzo; la causa va rinviata al Tribunale di Napoli, che, in diversa composizione, riesaminerà le questioni sottoposte e provvederà anche in ordine alle spese di questa fase.

P.Q.M.

La Corte,

Accoglie i primi due motivi, respinto il terzo ed assorbito il quarto; cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, al tribunale di Napoli, in diversa composizione.

Così deciso in Roma,nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020

 

 

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