Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23010 del 16/09/2019

Cassazione civile sez. VI, 16/09/2019, (ud. 28/06/2019, dep. 16/09/2019), n.23010

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6348-2018 proposto da:

P.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NIZZA 59,

presso lo studio dell’avvocato FAUSTO FIORAVANTI che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato FEDERICO IACOMELLI;

– ricorrente –

contro

L.S., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA ADRIANA

5, presso lo studio dell’avvocato MONICA ZAMBOTTI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALFREDO IOANNILLI;

– controricorrente –

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 28/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. EDUARDO

CAMPESE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 20 gennaio 2016, il Tribunale di Roma pronunciò la separazione personale dei coniugi P.R. e L.S., addebitandola alla prima e respingendo le sue richieste volte ad ottenere l’assegnazione della casa coniugale e la corresponsione di un assegno di mantenimento.

1.1. Il gravame della P. contro questa decisione è stato respinto dalla Corte di appello di Roma, la quale, con sentenza del 28 novembre 2017, n. 7487: i) ha ritenuto provata la condotta colposa, imputabile all’appellante, consistita nell’aver contratto altro matrimonio con un cittadino egiziano in costanza di quello con il L., considerando inverosimile la relativa giustificazione fornita dalla P.; ii) ha opinato che questa circostanza era di tale gravità da fondare, di per sè sola, la dichiarazione di addebitabilità della separazione, sussistendone il nesso di causalità con la crisi del rapporto coniugale; iii) ha disatteso le istanze della P. riguardanti la corresponsione di un assegno di mantenimento o, almeno, di carattere alimentare.

2. Avverso questa sentenza la P. ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380-bis c.p.c.. Resiste, con controricorso, il L..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

I) “Violazione ed errata applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa/insufficiente/illogica motivazione riguardo alla valutazione di circostanze rilevanti e determinati per la decisione, comprovate in giudizio e risultanti dagli atti di causa, con riferimento alle circostanze degli art. 151 c.c., comma 1”. Si ascrive alla corte distrettuale di aver “errato nella valutazione degli elementi indiziari acquisiti agli atti del processo”, rivelandosi la motivazione posta a fondamento della pronuncia di addebito “connotata da palese illogicità”;

“Violazione e falsa applicazione degli artt. 151,2697 e 2729 c.c., nonchè 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere ritenuto provato il comportamento assunto dalla P. contrario ai doveri assunti con il matrimonio, ai sensi dell’art. 143 c.c., ed in particolare con riferimento all’accertata violazione dei doveri di fedeltà, sulla base delle risultanze processuali”. Si assume che non sarebbe stata acquisita, nel corso del giudizio, alcuna prova diretta riguardo ai fatti costitutivi dell’addebito della separazione come richiesto dal L., sul quale, dunque, gravava l’onere di fornirne la dimostrazione. Al più, infatti, potevano ritenersi acquisite presunzioni semplici, liberamente valutabili dal giudice di merito, con riferimento alle quali, però, si imputa alla corte capitolina di aver fatto cattiva applicazione del disposto dell’art. 2729 c.c.;

III) “Violazione ed errata applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per illogica motivazione riguardo alla valutazione delle presunzioni semplici su cui è fondata la valutazione dei fatti processualmente acquisiti, per essere state le stesse desunte in base a regole di inferenza inaccettabili sul piano del collegamento probabilistico fra i fatti noti ed ignoti, con riferimento al valore attribuito alla scrittura privata di matrimonio prodotta in giudizio”. Si sostiene che “i giudici di merito non hanno fornito spiegazione sui criteri inferenziali che li hanno portati a preferire una ricostruzione dei fatti (la relazione sentimentale) piuttosto che l’altra (documentazione volta a precostituire una specie di salvacondotto necessario per viaggiare in sicurezza all’interno di Paesi per cui la sicurezza personale di una donna può essere ad alto rischio), essendosi limitati a valutare come inverosimile l’ipotesi alternativa, ma tale è una semplice valutazione che, senza l’accompagnamento del ragionamento logico che ha portato il giudicante ad aderire a detta conclusione, non può ritenersi corretta”. Si aggiunge, inoltre, che “il mancato disconoscimento della firma sulla scrittura privata autenticata in questione (quella documentante il contratto di matrimonio della ricorrente con il cittadino egiziano. Ndr) nemmeno poteva assumere valore quale fatto non contestato”, posto che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, l’onere di contestazione concerne le sole allegazioni in punto di fatto della controparte, non anche i documenti da essa prodotti, rispetto ai quali è possibile solo l’eventuale loro disconoscimento, nei casi e nei modi previsti dagli artt. 214 e ss. c.p.c., restando in ogni momento la loro significatività o valenza probatoria oggetto di discussione tra le parti e suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice;

IV) “Violazione ed errata applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, error in procedendo, per avere i giudici di secondo grado ritenuto provata una circostanza in fatto (la scoperta del “contratto di matrimonio”) perchè non specificamente contestata, atteso che tale onere non poteva gravare sulla parte stante la genericità della deduzione avversaria”. Si lamenta che la sentenza impugnata ha ritenuto dimostrato il nesso di causalità per la pronuncia dell’addebito “sul fatto della mancata specifica contestazione, da parte della P., della deduzione riportata nel ricorso introduttivo del L. in cui, genericamente, si riporta che lo stesso avrebbe appreso l’esistenza del contratto di matrimonio solo in epoca prossima al ricorso per separazione”. Si sostiene, invece, che attesa la genericità della riportata allegazione del L., nessun obbligo di specifica contestazione della relativa circostanza poteva gravare sulla odierna ricorrente, la quale aveva comunque contestato di aver intrattenuto una relazione extraconiugale con il cittadino egiziano firmatario del contratto suddetto.

2. Il primo ed il terzo motivo, prospettanti pretesi vizi motivazionali, sono esaminabili congiuntamente perchè entrambi accomunati dalla medesima ragione di inammissibilità.

2.1. Essi, infatti, fanno riferimento ad una nozione di vizio motivazionale (omessa/insufficiente/illogica motivazione) non riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dal codice di rito, ed in particolare non sussumibile nel vizio contemplato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella formulazione disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 28 novembre 2017), atteso che tale mezzo di impugnazione, oggi, lungi dal consentire di denunciare una motivazione insufficiente e/o contraddittoria e/o illogica, concerne esclusivamente l’omesso esame di “un fatto decisivo per il giudizio” che sia stato “oggetto di discussione tra le parti”.

2.1.1. In proposito, è utile ricordare, onde confutare le ulteriori osservazioni contenute, in relazione ai motivi in esame, nella memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c. depositata dalla ricorrente, che costituisce un “fatto”, agli effetti della menzionata norma, non una CG questione” o un “punto”, ma: i) un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); ii) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., SU, n. 5745 del 2015); iii) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

2.1.2. Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: i) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); ii) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014); iii) una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (cfr. Cass. n. 21439 del 2015); iv) le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali costituiscono i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame.

2.2. Il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere “decisivo”, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tale decisività, in quanto correlata all’interesse all’impugnazione, si addice innanzitutto a quel fatto che, se scrutinato, avrebbe condotto il giudice ad una decisione favorevole al ricorrente, rimasto soccombente nel giudizio di merito. Poichè l’attributo si riferisce al “fatto” in sè, la “decisività” asserisce, inoltre, al nesso di causalità tra la circostanza non esaminata e la decisione: essa deve, cioè, apparire tale che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad una diversa ricostruzione della fattispecie (non bastando, invece, la prognosi che il fatto non esaminato avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione diversa: si vedano già Cass. n. 22979 del 2004; Cass. n. 3668 del 2013; la prognosi in termini di “certezza” della decisione diversa è richiesta, ad esempio, da Cass., SU, n. 3670 del 2015).

2.2.1. Lo stesso deve, altresì, essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti, in continuità con la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, già voluta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, così da tenersi ben distinto un tale vizio dall’errore di fatto revocatorio ex art. 395 c.p.c., n. 4, il quale, al contrario, non deve aver costituito un “punto controverso su cui la sentenza ebbe a pronunciare”.

2.2.2. Deve rammentarsi, infine, che Cass., SU, n. 8053 del 2014, ha chiarito che “la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti “.

2.3. Alla stregua dei principi tutti fin qui esposti, i motivi in esame si rivelano inammissibili perchè le argomentazioni ivi esposte dalla ricorrente quanto alla valutazione, come effettuata dalla corte distrettuale, delle circostanze che avevano condotto quest’ultima (confermando, sul punto, la decisione di primo grado) ad addebitarle la separazione si risolvono, sostanzialmente, (piuttosto che nella specifica indicazione di fatti decisivi – nel rispetto, peraltro, dei descritti peculiari oneri di allegazione sanciti da Cass., SU, n. 8053 del 2014 – il cui esame sarebbe stato omesso dal giudice di merito) in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo, mirando, evidentemente, la P. ad opporre alla esaustiva valutazione fattuale contenuta nella sentenza impugnata una propria alternativa interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica del vizio motivazionale, volta ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un ulteriore grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex multis, Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

3. Parimenti inammissibile risulta il secondo motivo.

3.1. Costituisce, invero, principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Dott. Cass. n. 24298 del 2016; Cass. n. 5353 del 2007).

3.2. Gli assunti della P., invece, si risolvono chiaramente, anche in questo caso, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dalla corte capitolina, cui la prima intenderebbe inammissibilmente opporre, sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, una diversa valutazione, così pretendendo di trasformare surrettiziamente il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito.

3.2.1. Va solo rimarcato che nemmeno sussistono le prospettate violazioni dell’art. 2697 c.c. (che, notoriamente, si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni. Cfr., tra le più recenti, Cass. n. 26769 del 2018), dell’art. 115 c.p.c. (ipotizzabile quando il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli. Cfr. Cass. n. 26769 del 2018) e dell’art. 116 c.c. (rinvenibile, quando il giudice disattenda, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, prove legali, oppure consideri come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che, invece, siano soggetti a valutazione. Cfr. Cass. n. 2700 del 2016). Nella specie, infatti, la corte distrettuale, con una motivazione che non integra affatto violazione dei principi dettati in tema di onere della prova e di prova presuntiva (ricordandosi, in proposito che, come chiarito da Cass. n. 6387 del 2018, “in tema di prova per presunzioni, nel dedurre il fatto ignoto dal fatto noto, la valutazione del giudice del merito incontra il solo limite della probabilità, con la conseguenza che i fatti su cui la presunzione si fonda non devono essere tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati secondo un legame di necessità assoluta ed esclusiva, ma è sufficiente che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di ragionevole probabilità con riferimento alla connessione degli accadimenti, la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza, basate sull’id quod plerumque accidit”; e che Cass. n. 23153 del 2018 ha ribadito che “in tema di presunzioni semplici, gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d’uno, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su uno solo di essi, purchè grave e preciso, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi”), è giunta alla conclusione che il quadro indiziario (la cui valutazione fattuale è, qui, evidentemente insindacabile) desumibile dalle risultanze istruttorie, valutato in ciascun elemento e nel suo complesso, fosse idoneo a far ritenere raggiunta la prova dell’addebitabilità della separazione in capo alla P., nè potrebbe sostenersi, fondatamente, che l’argomentare del giudice d’appello abbia trascurato alcuni dati dedotti da quest’ultima per la semplice ragione di averli ritenuti, esplicitamente, o implicitamente, irrilevanti. Deve, peraltro, escludersi la invocata violazione del divieto di presunzione di secondo grado, tale non potendo considerarsi il giudizio conclusivo circa la sussistenza della prova predetta che altro non è che la risultante di un’unica presunzione, sia pure articolata su autonome circostanze di fatto (dì. Cass. n. 13040 del 2018; Cass. n. 10208 del 2007). Le odierne argomentazioni della ricorrente rappresentano, allora, il mero tentativo volto a giungere a conclusioni diverse da quelle esposte dalla corte capitolina, così procedendosi, però, a valutazioni che, impingendo nel merito, sono, come si è detto, inammissibili nel giudizio di legittimità.

4. Inammissibile, infine, è anche il quarto motivo.

4.1. Invero, la corte romana ha espressamente rilevato (Cfr. pag. 3 della sentenza impugnata) che “… il L., già nel ricorso per separazione” datava la scoperta del matrimonio contratto dalla moglie in Egitto ad un epoca prossima al deposito del ricorso per separazione, sostenendo che, “dopo la scoperta del ricorrente delle nozze di cui sopra, la resistente si è recata presso il commissariato di zona per denunciare maltrattamenti, a suo danno, da parte del marito. Per tale motivo il ricorrente, convocato in data 11.10.2012 dall’ispettrice R.P.,… al fine di tutelare la sua onorabilità è stato costretto a presentare contro la moglie denuncia-querela, presso la Procura della Repubblica di Roma, per i reati di calunnia, bigamia, estorsione e minacce”. Tali circostanze non sono state contestate ed in parte hanno trovato riscontro documentale. Dunque, il marito ha scoperto dopo tempo il tipo di vita che conduceva la moglie quando si recava in vacanza in Egitto, ed a quel punto è esplosa la crisi coniugale, costellata da reciproche denunce e culminata con l’instaurazione del giudizio di separazione..”.

4.1.1. E’ palese, pertanto, da un lato, che l’odierna doglianza della P., secondo cui la genericità dell’allegazione del L., quanto alla circostanza del matrimonio contratto dalla prima in Egitto, nessun obbligo di specifica contestazione, in proposito, poteva far sorgere su di lei, postula, quale suo evidente presupposto logico, il riesame in ordine alla valutazione circa la genericità, o meno, dell’allegazione predetta come apprezzata dalla corte distrettuale, la cui corrispondente richiesta deve, però, considerarsi affatto inammissibile in questa sede (Cfr. in motivazione, Cass. n. 22055 del 2017); dall’altro, che il tentativo della ricorrente, ribadito anche nella sua memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., di rimettere in discussione l’esistenza della sua relazione extraconiugale con il cittadino egiziano firmatario di quel “contratto di matrimonio” che la corte distrettuale ha giudicato essere circostanza di tale gravità da fondare, di per sè sola, la dichiarazione di addebitabilità della separazione, sussistendone il nesso di causalità con la crisi del rapporto coniugale, si rivela, ancora una volta, un inammissibile tentativo di chiedere a questa Corte un riesame della vicenda fattuale ad essa non consentito.

5. Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile, restando le spese di questo giudizio di legittimità regolate da principio di soccombenza, altresì rilevandosi che sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

6. Va, disposta, da ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la P. al pagamento, in favore del L., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della medesima ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis.

Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 28 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2019

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