Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 230 del 12/01/2021

Cassazione civile sez. trib., 12/01/2021, (ud. 10/09/2020, dep. 12/01/2021), n.230

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5658/2014 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12;

– ricorrente –

contro

Me. tecnoplastic s.p.a. con gli avv.ti Enrico Lambiase e Maurizio

Corain, nel domicilio eletto presso lo studio del secondo, in Roma,

alla via Emilia n. 86/90;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Lombardia n. 77/14/13 depositata in data 30/07/2013 e non

notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 settembre

2020 dal Co: Marcello M. Fracanzani.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La società contribuente opera nel settore delle tubazioni flessibili in plastica, con diverse controllate estere, cui fornisce il prodotto da rivendere ai clienti esteri ed operando essa stessa all’estero, vendendo il prodotto direttamente a clienti, anche in Stati esteri ove è presente una controllata. All’esito di pvc formato e consegnato il 26 ottobre 2009, era attinta il 25 giugno 2010 da avviso di accertamento per l’anno di imposta 2006 con diverse riprese a tassazione, ciascuna con diverso esito e di cui qui interessa la contestazione di aver tenuto in capo a sè (e dedotto) costi di marketing, partecipazione e fiere estere, promozione aziendale e pubblicità, sostenuti nell’interesse anche delle partecipate, senza ricaricarne la quota parte di quanto speso.

I gradi di merito, erano favorevoli alla contribuente, donde ricorre per cassazione l’Avvocatura generale dello Stato affidandosi a due motivi, cui replica con tempestivo controricorso la parte contribuente.

In prossimità dell’udienza, la parte contribuente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Vengono proposti due motivi di ricorso.

Con il primo motivo si profila censura ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 e 110, nella sostanza lamentando la CTR non abbia considerato che la norma in questione parla di cessione di beni, ma anche di servizi prestati, al fine di individuare l’imponibile da tassare in Italia, sicchè, se per i beni ceduti l’Ufficio è tenuto a provare uno scostamento dal valore “normale” per dedurre l’indebito vantaggio fiscale, per quanto riguarda i servizi, tale prova non sarebbe necessaria, bastevole restando la prova che servizi siano stati resi dalla capofila italiana e non ricaricati alle controllate estere, in questo modo consentendole una deduzione di costi sostenuti per soggetti terzi. Essendo pacifico in atti che l’attività fosse svolta a favore di terzi, anche i costi dovevano esservi trasferiti.

La questione attiene al c.d. transfer pricing, disciplinata dal D.P.R. n. 917 del 1986, citato art. 110, comma 7, che, nel testo vigente all’epoca dei fatti, dispone: “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale” – la cui definizione è fornita dall’art. 9 T.U.I.R. – “dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito;…”. Il requisito soggettivo per l’applicazione di tale regime si identifica nella circostanza che tra i due soggetti – la società estera e l’impresa residente – deve esistere un rapporto di controllo, diretto od indiretto, di cui, tuttavia, non viene fornita una definizione, ma nel caso che ci occupa tale rapporto di controllo non è in discussione. La definizione di valore normale è contenuta nell’art. 9 medesimo testo, ove al comma 3 si fa riferimento al prezzo praticato per analoghi beni o servizi, in regime di libera concorrenza e nel tempo e nel luogo – o in quello più prossimo – in cui i beni o servizi sono stati acquistati. Il riferimento al prezzo normale deve quindi riferirsi tanto ai beni che ai servizi, altresì tale scostamento dev’essere provato prima facie dall’Ufficio, sia che si tratti di elementi costitutivi l’obbligazione, sia che si tratti di profili esimenti o riduttivi, come nel caso dei costi portati in deduzione integralmente dalla capofila.

Secondo l’indirizzo che può dirsi ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in caso di operazioni infragruppo intercorse con società estere controllate o controllanti di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76 (ora 110, comma 7), l’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria si esaurisce nel fornire la prova della esistenza della operazione infragruppo e della pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore normale di mercato; il contribuente che intende contrastare la pretesa impositiva deve invece fornire la prova che il corrispettivo convenuto ovvero la mancanza di un corrispettivo per l’operazione infragruppo, corrisponde ai valori economici che il mercato attribuisce a tali operazioni. Non è invece necessario che l’Amministrazione finanziaria fornisca ulteriormente la prova che l’operazione infragruppo sia priva di una valida giustificazione economica ed abbia comportato un concreto risparmio di imposta, trattandosi di presupposti costitutivi della fattispecie generale di operazione antielusiva disciplinata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, presupposti non richiesti nel caso in cui venga contestata la violazione della regola del “valore normale” dei componenti reddituali prevista nella specifica fattispecie del transfer pricing internazionale di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 110, comma 7 (v. ex pluribus Cass. 15/12/2017, n. 30149; Cass. 15/09/2017, n. 21410; Cass. 06/09/2017, n. 20805; Cass. 30/06/2016, n. 13387; Cass. 15/04/2016, n. 7493; Cass. 18/09/2015, n. 18392). Anche in sede di ricorso per cassazione, la difesa erariale si limita ad affermare l’esistenza di costi in operazione infragruppo, che la contribuente giustifica aver centralizzato nel suo ruolo di capofila e di aver distribuito (spalmato) sul prezzo finale del prodotto, uguale sia per i clienti italiani, sia per i clienti eteri (diretti), sia per le controllate estere, cui in certe occasioni è stato applicato prezzo addirittura maggiore.

In difetto di prova – a carico dell’Ufficio – dello scostamento dalla normalità, non vi sono i presupposti del transfer pricing.

Il motivo è quindi infondato e dev’essere rigettato.

Con la seconda doglianza si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione degli art. 2697,2727 e 2729 c.c., laddove il trattamento delle controllate estere al pari dei clienti esteri non autorizza ad inferire che i costi di marketing, pubblicità etc. siano stati recuperati dall’omogeneità di prezzo, quando non addirittura dalle affermate (ma non quantificate o qualificate) occasioni in cui il prezzo alle controllate estere è stato addirittura maggiore di quello praticato ad altri clienti. La doglianza si riduce ad una richiesta di rivalutazione del merito, con un diverso apprezzamento dei diversi apporti probatori delle parti, sindacato inibito invero a questa Corte di legittimità.

Il motivo è inammissibile e tale va dichiarato.

In definitiva il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.

Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 – quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condanna l’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese di lite per il presente grado di giudizio che liquida in Euro cinquemila/00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, rimborso nella misura forfettaria del 15%, oltre ad Iva e cpa come per legge.

Così deciso in Roma, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2021

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