Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22998 del 04/11/2011

Cassazione civile sez. I, 04/11/2011, (ud. 13/07/2011, dep. 04/11/2011), n.22998

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – rel. Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.L., D.G., Q.P.,

V.M.L., B.C., B.E., il

quinto e la sesta quali eredi di B.N., elettivamente

domiciliati in Roma, Piazza del Popolo 18, presso l’avv. Frisani

Pietro L., che li rappresenta e difende per procura in atti;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per

legge;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte di appello di Venezia in data 20

giugno 2008 nel procedimento n. 799/2007 V.G.;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza in data

13 luglio 2011 dal relatore, cons. Stefano Schirò;

udito il Pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore

generale, dott. PRATIS Pierfelice che ha chiesto l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A.L. e gli altri ricorrenti indicati in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione, sulla base di un motivo, nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze avverso il decreto in data 20 giugno 2008, con il quale la Corte di appello di Venezia ha rigettato la domanda di equa riparazione da loro proposta, della L. n. 89 del 2001, ex art. 2 per violazione del termine ragionevole di durata di un giudizio promosso davanti alla Corte dei conti con ricorso del 20 ottobre 1997 e conclusosi con sentenza di rigetto del 28 marzo 2007.

Il Ministero intimato ha resistito con controricorso.

Nell’odierna camera di consiglio il collegio ha deliberato che la motivazione della sentenza sia redatta in forma semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va disattesa l’eccezione sollevata al controricorrente in ordine alla nullità delle procure alla lite rilasciate dai ricorrenti, autenticate mediante l’apposizione di un timbro recante la dicitura “E’ autentica”, vergata da un tratto di penna non accompagnato dall’indicazione a stampa dell’autore della sottoscrizione, con conseguente incertezza sulla provenienza dell’autentica della sottoscrizione stessa dal legale che ha sottoscritto il ricorso per cassazione. Osserva il collegio che il segno grafico apposto in calce alle procure alla lite, sotto la dicitura “E’ autentica”, corrisponde pienamente alla sottoscrizione del ricorso per cassazione, apposta in corrispondenza del nome e cognome, scritti con caratteri a stampa, del difensore dei ricorrenti. A tale riguardo, deve ritenersi che l’identità del segno grafico, apposto come sottoscrizione del difensore al fine di autenticare la firma del ricorrente, rispetto a quello apposto in calce al ricorso (in corrispondenza del nome scritto a stampa del legale), comporta una presunzione di appartenenza della sottoscrizione al difensore medesimo, dovendo escludersi che tale firma possa attribuirsi a persona non identificabile (Cass. 2011/13630).

Con un unico motivo i ricorrenti si dolgono che la Corte di merito abbia rigettato la domanda, ritenendo che, per effetto della inequivoca normativa esistente e delle interpretazioni giurisprudenziali espresse al più alto livello, anche costituzionale, i ricorrenti non potevano non essere consapevoli dell’infondatezza delle proprie istanze, con la conseguenza che la certezza dell’esito infausto della causa escludeva l’esistenza del danno da patema d’animo per eccessiva durata del giudizio. Il ricorso è fondato.

Infatti, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio, a meno che l’esito del processo presupposto non abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, restando irrilevante l’asserita consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria.

Dell’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve dare prova puntuale l’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata (Cass. 2006/7139; 2008/24269;

2010/9938).

La Corte di appello di Venezia – nel rigettare il ricorso osservando che la palese infondatezza della domanda proposta davanti alla Corte dei conti e la certezza, da parte dei ricorrenti, dell’esito infausto della causa escludevano l’esistenza del danno da patema d’animo per eccessiva durata del giudizio – non si è uniformata all’orientamento sopra enunciato e il decreto impugnato deve essere conseguentemente annullato.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Si deve, in primo luogo, osservare che non si rinvengono in atti elementi che, alla stregua del principio in precedenza enunciato, consentano di ritenere che i ricorrenti, pur proponendo una domanda priva di fondamento, abbiano promosso una lite temeraria in difetto di una condizione soggettiva di incertezza e che pertanto non si sia nella specie verificato il pregiudizio morale conseguente all’eccessiva durata della causa, tenuto conto che questo si verifica di regola come effetto della violazione medesima e non abbisogna di essere provato sia pure attraverso elementi presuntivi (Cass. 2005/21088; 2006/7139).

Rilevato che il giudizio presupposto è stato promosso davanti alla Corte dei conti con ricorso 20 ottobre 1997 ed è stato definito con sentenza del 28 marzo 2007, la durata complessiva di tale giudizio va stabilita in nove anni e cinque mesi, con conseguente superamento nella misura di sei anni e cinque mesi del termine ragionevole di durata, determinato per il giudizio di primo grado in tre anni alla stregua dei parametri fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di cassazione.

Il parametro per indennizzare la parte del danno non patrimoniale subito va individuato nell’importo non inferiore ad Euro 750,00 per anno di ritardo, alla stregua degli argomenti svolti nella sentenza di questa Corte n. 16086 del 2009.

Secondo tale pronuncia, in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e in base alla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo (sentenze 29 marzo 2006, sui ricorsi n. 63261 del 2000 e nn. 64890 e 64705 del 2001), gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, “a condizione che le decisioni pertinenti” siano “coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato”, e purchè detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45 per cento del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito, con la conseguenza che, stante l’esigenza di offrire un’interpretazione della L. 24 marzo 2001, n. 89 idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l’art. 6 della CEDU (come interpretata dalla Corte di Strasburgo), la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata.

Tali principi vanno confermati in questa sede, con la precisazione che il suddetto parametro va osservato in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo invece aversi riguardo per quelli successivi, al parametro di Euro 1.000,00 per anno di ritardo, tenuto conto che l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno (Cass. 2009/16086;

2010/819). Nel caso di specie si deve, di conseguenza, riconoscere a ciascuno dei ricorrenti, in relazione ad una durata non ragionevole di sei anni e cinque mesi, l’indennizzo di Euro 5.700,00, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo, al cui pagamento deve essere condannato il Ministero soccombente. Le spese del giudizio di merito e quelle del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano con riferimento al giudizio di natura contenziosa (Cass. 2008/23397; 2008/25352).

PQM

La Corte accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore dei ricorrenti della somma di Euro 5.700,00 ciascuno, oltre agli interessi legali dalla domanda.

Condanna il Ministero soccombente al pagamento in favore dei ricorrenti delle spese del giudizio di merito, che si liquidano in Euro 2.500,00 di cui Euro 1.300,00 per competenze ed Euro 50,00 per esborsi, oltre a spese generali e accessori di legge.

Condanna inoltre il Ministero soccombente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in Euro 1.500,00, di cui Euro 1.400,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 13 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2011

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