Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22987 del 11/11/2016


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Cassazione civile sez. VI, 11/11/2016, (ud. 13/07/2016, dep. 11/11/2016), n.22987

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16002-2015 proposto da:

R.M., G.U., C.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA BUCCARI 3, presso lo studio dell’avvocato

FABRIZIO PROIETTI, che li rappresenta e difende giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

MINISTERO ECONOMIA FINANZE (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso il decreto n. 956/2014 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA del

17/02/2014, depositata il 01/07/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/07/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FELICE MANNA.

Fatto

IN FATTO

Con decreto del 1.7.2014 la Corte d’appello di Perugia rigettava la domanda di equa riparazione proposta dagli odierni ricorrenti con ricorso del 24.2.2011, in relazione alla durata irragionevole di un giudizio che essi, quali dipendenti pubblici, avevano instaurato innanzi al TAR Lazio nel 1997. Riteneva la Corte territoriale che tale vertenza, avente ad oggetto il diritto al computo, ai fini dell’indennità di buonuscita, dell’indennità integrativa speciale, non aveva dato luogo in concreto ad alcun paterna d’animo, in considerazione del fatto che la questione era stata già risolta dalla L. n. 87 del 1994 (emanata a seguito di Corte cost. n. 243/93), e che l’esclusione di coloro che erano cessati dal servizio dopo il 30.11.1984, era già stata ritenuta costituzionalmente legittima da ben nove sentenze della Corte costituzionale (a partire dalla n. 103/95 fino a quella n. 175/97, di appena due mesi successiva all’inizio del giudizio presupposto). Pertanto, l’esito reiettivo dell’iniziativa giudiziaria, verosimilmente di carattere sindacale o parasindacale, era scontato e rendeva evanescente ogni possibilità di eventuale accoglimento della domanda.

La cassazione di tale decreto è chiesta dagli odierni ricorrenti in base a un unico motivo.

Resiste con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Il Collegio ha disposto che la motivazione della sentenza sia redatta in forma semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con l’unico motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 2, dell’art. 6, par. 1, artt. 3 e 53 CEDU e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. La costante ed univoca giurisprudenza della Corte EDU, sostengono i ricorrenti, ritiene ragionevole una durata infratriennale del processo amministrativo, salvo l’espletamento di attività istruttoria. Pertanto, il processo presupposto in esame, avente ad oggetto una pura questione di diritto, sarebbe dovuto durare uno o al massimo due anni.

Ciò posto, i ricorrenti deducono che in base alle norme sopra indicate il diritto all’indennizzo dipende dalla sola eccessiva durata del processo, a prescindere dal suo esito, e salvo il solo caso di lite temeraria.

2. – Il motivo è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di affermare che “(s)ebbene sia consolidato il principio secondo cui il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, compete a tutte le parti del processo, indipendentemente dall’esito del giudizio presupposto, deve tuttavia osservarsi che il paterna da ritardo nella definizione del processo è da escludersi allorchè la parte rimasta soccombente, consapevole dell’inconsistenza delle proprie istanze, abbia proposto una lite temeraria, difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza e, dunque, elidendosi il presupposto dello stato di disagio e sofferenza (cfr. Cass. nn. 10500/11,25595/08 e 17650/02). Una situazione soggettiva scevra da ogni ansia derivante dall’incertezza dell’esito della lite può essere originaria o sopravvenuta, secondo che la consapevolezza del proprio torto da parte dell’attore preesista alla causa ovvero intervenga nel corso di questa, per effetto di circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio. In quest’ultimo caso, pur non potendosi configurare una fattispecie di lite propriamente temeraria, per l’iniziale buona fede della parte attrice, la reazione ansiogena su cui si fonda il diritto all’equa riparazione ai sensi della Legge c.d. Pinto è da escludersi a decorrere dal momento in cui la parte stessa acquisisce tale consapevolezza, facendo venir meno da allora in poi il diritto all’indennizzo per la successiva irragionevole durata della causa. E’ stato di recente osservato da questa Corte, infatti, che non può reputarsi ab origine pretestuoso il ricorso introduttivo di un giudizio amministrativo, che solo a far data da un certo momento, per effetto di una sopravvenuta pronuncia della Corte costituzionale, abbia perso ogni possibilità di successo, con la correlata cessazione del paterna d’animo derivante dalla situazione d’incertezza per l’esito della causa (cfr. Cass. n. 18654/14, non massimata)” (così, Cass. n. 4890/15).

2.1. – Nel caso di specie la Corte territoriale ha accertato, con motivazione logicamente corretta, non contestata e del resto neppure più contestabile nella sua sufficienza (in considerazione del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), che sin dai primi due mesi successivi alla proposizione della domanda era definitivamente tramontata, per effetto di Corte cost. n. 175/97, ogni plausibile speranza di accoglimento della domanda. Con la conseguenza che da quel momento in poi, e dunque ben prima che la durata del processo di riferimento potesse divenire irragionevole, doveva escludersi qualsivoglia paterna d’animo derivante dalla pendenza della lite.

3. – Il ricorso va dunque respinto.

4. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo, a carico dei ricorrenti in solido tra loro.

5. – Rilevato che dagli atti il processo risulta esente dal pagamento del contributo unificato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, alle spese, che liquida in Euro 500,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione sesta civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 13 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2016

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