Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22986 del 21/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 21/10/2020, (ud. 08/07/2020, dep. 21/10/2020), n.22986

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3667-2015 proposto da:

F.C., in proprio e nella qualità di legale

rappresentante della s.a.s. di F. & C., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA PAOLO DE DONO 3/A, presso lo studio

dell’avvocato PAOLO DE BERARDINIS, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato LUCA D’ANDREA;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e

quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. Società di Cartolarizzazione

dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE

BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto,

rappresentati e difesi dagli avvocati ANTONINO SGROI, ESTER ADA

SCIPLINO, GIUSEPPE MATANO, LELIO MARITATO, CARLA D’ALOISIO, EMANUELE

DE ROSE;

– resistenti con mandato –

avverso la sentenza n. 617/2014 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 04/11/2014 R.G.N. 374/2014.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza n. 617 del 2014, la Corte d’appello di Ancona, riformando la sentenza di primo grado ed accogliendo l’impugnazione proposta dall’Inps, ha rigettato l’opposizione avverso l’avviso di addebito, seguito a verbale di accertamento ispettivo, proposta da F.C., in proprio e quale legale rappresentante della s.a.s. F.C. & C.;

la questione controversa riguardava la legittimità del recupero di contribuzione eseguito dall’Inps per le ore non lavorate, ma ricadenti nell’orario di lavoro contrattuale, per le quali la società datrice di lavoro non aveva versato la contribuzione previdenziale ritenendo decisivo che i dipendenti avessero lavorato in misura inferiore all’orario di lavoro contrattuale;

ad avviso della Corte, superati i rilievi di genericità dell’appello e di legittimità dell’azione esecutiva intrapresa con l’emissione dell’avviso di addebito, la pretesa dell’Istituto (relativa anche alla illegittima fiscalizzazione di oneri sociali non dovuti) doveva ritenersi fondata in ragione delle risultanze dell’accertamento ispettivo che aveva riscontrato che la s.a.s. di F.C. & C., nel periodo interessato dal recupero a contribuzione (da dicembre 2007 a dicembre 2011), aveva annotato nei fogli paga/presenze, nelle registrazioni obbligatorie e infine nel libro unico del lavoro, per una parte dei dipendenti, un orario di lavoro inferiore a quello contrattuale nonchè assenze ingiustificate, permessi non retribuiti e periodi di aspettativa non giustificati dalle previsioni della contrattazione collettiva;

da tale situazione emergeva, dunque, l’illegittimità della riduzione dell’obbligo contributivo in quanto l’accordo delle parti, inteso a sospendere l’operatività del contratto di lavoro e delle rispettive obbligazioni per un certo lasso di tempo, non era opponibile all’INPS ed una diversa ricostruzione avrebbe violato il principio dell’autonomia del rapporto previdenziale e, quindi, contributivo rispetto al rapporto di lavoro ed il principio della nullità dei patti diretti ad eludere gli obblighi previdenziali, fissato dall’art. 2115 c.c., comma 3;

la giurisprudenza di legittimità, inoltre, aveva affermato, nell’interpretare il D.L. n. 338 del 1989, art. 1, comma 1, parte prima, il principio secondo il quale l’imponibile contributivo deve essere individuato sulla base di quanto contrattualmente dovuto ai dipendenti, ancorchè costoro avessero di fatto percepito somme inferiori a quelle spettanti in forza del contratto individuale di lavoro, avendo osservato un orario di lavoro inferiore o essendo posti in temporanea sospensione dal lavoro e dalla retribuzione;

avverso tale sentenza ricorre per cassazione F.C., in proprio e quale legale rappresentante della s.a.s. di F.C. & C., sulla base di sette motivi, successivamente illustrati da memoria: 1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione alla circostanza che la sentenza impugnata non aveva indicato quali fossero le previsioni contrattuali collettive in tema di permessi, aspettative ed orari, ritenute inadempiute dalla datrice di lavoro, previsioni i cui testi contrattuali non erano mai stati prodotti; 2) violazione della L. n. 389 del 1989, art. 1, della L. n. 153 del 1969, art. 12 degli artt. 2094 e 2098 c.c., in ragione del fatto che la datrice di lavoro non aveva posto in essere alcun inadempimento contrattuale, posto che all’interno del rapporto di lavoro vige il principio di corrispettività secondo il quale, nell’ipotesi di sospensione rapporto, non è dovuta alcuna retribuzione; 3) violazione della L. n. 389 del 1989, art. 1 che, se interpretato secondo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, comporta che nessuna valenza, ai fini dell’individuazione del minimale contributivo previsto dalla contrattazione collettiva, debba riconoscersi agli istituti contrattuali di natura normativa, quali i permessi e le sospensioni; 4) violazione dell’art. 2115 c.c., comma 3, per avervi ricondotto la concreta fattispecie dedotta in causa, posto che la stessa non integra alcun patto elusivo degli obblighi contributivi; 5) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che ha formato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 costituito dalla circostanza, dedotta e documentata dalla datrice di lavoro, che il contratto collettivo applicato prevedeva vicende sospensive della prestazione e del correlativo obbligo retributivo, come l’art. 34 del c.c.n. l 3.6.2010 per le aziende artigiane metalmeccaniche; 6) violazione del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 4, anche in relazione all’abrogazione del medesimo D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 25, comma 2, e falsa applicazione del comma 1 cit. articolo, in relazione alla mancata rilevazione del difetto del potere di iscrizione a ruolo in pendenza di ricorso amministrativo avverso il verbale di accertamento;7) formulato in via subordinata, violazione – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – dell’art. 418 c.p.c. in quanto la sentenza impugnata non aveva dichiarato inammissibile la domanda riconvenzionale proposta dall’INPS, formulata senza la previa richiesta di fissazione di nuova udienza;

l’INPS si è limitato a depositare procura speciale in calce alla copia notificata del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

i motivi sesto e settimo, da trattare congiuntamente in quanto entrambi riferiti a questioni procedimentali e processuali, sono infondati;

viene proposta la tesi dell’illegittimità della procedura esattoriale in ragione di vizi della procedura antecedenti alla notifica dell’avviso di addebito, ma tale tesi è in contrasto evidente con i principi che questa Corte di legittimità ha più volte affermato in materia di riscossione dei contributi previdenziali, materia disciplinata dal D.Lgs. n. 46 del 1999, e per l’INPS, dal 1 gennaio 2011, dal D.L. n. 78 del 2010, art. 30 conv., con modif., dalla L. n. 122 del 2010, che, sinteticamente, si riassumono nei seguenti punti:

– non ostano all’esame, in sede di opposizione alla cartella, della fondatezza della pretesa impositiva eventuali vizi della procedura verificatisi anteriormente alla notifica della cartella (o in questo caso dell’avviso di addebito), considerato che questa Corte ha ribadito in plurimi arresti che la controversia in opposizione a cartella esattoriale avente ad oggetto crediti degli enti previdenziali non si risolve nella mera verifica della regolarità del titolo, ma comporta la valutazione di merito nel rapporto debito-credito fra datore di lavoro ed ente previdenziale e senza che occorra alcuna domanda riconvenzionale dell’Istituto, essendo stato precisato (v. ex aliis Cass. n. 26395 del 26/11/2013, n. 16675 del 06/07/2017, n. 12025 del 07/05/2019).

che “in tema di riscossione di contributi e premi assicurativi, il giudice dell’opposizione alla cartella esattoriale che ritenga illegittima l’iscrizione a ruolo non può limitarsi a dichiarare tale illegittimità, ma deve esaminare nel merito la fondatezza della domanda di pagamento dell’istituto previdenziale, valendo gli stessi principi che governano l’opposizione a decreto ingiuntivo, con la conseguenza che gli eventuali vizi formali della cartella esattoriale opposta comportano soltanto l’impossibilità, per l’Istituto, di avvalersi del titolo esecutivo (nel caso di specie le stesse parti ricorrenti hanno affermato che l’INPS dispose sin dal 25 gennaio 2013 la sospensione dell’esecuzione), ma non lo fanno decadere dal diritto di chiedere l’accertamento in sede giudiziaria dell’esistenza e dell’ammontare del proprio credito”;

dopo l’iscrizione a ruolo, fase peraltro neanche più prevista dal D.L. n. 79 del 2010, art. 30 sopra cit., neppure potrebbero incidere sulla procedura di riscossione vizi propri dell’accertamento ispettivo, considerato che nel procedimento di riscossione a mezzo ruolo dei contributi previdenziali, come regolato dal D.Lgs. n. 46 del 1999, artt. 24 e ss. in difetto di espresse previsioni normative che condizionino la validità della riscossione ad atti prodromici, a differenza di quanto avviene in materia di applicazione di sanzioni amministrative in forza di quanto previsto, segnatamente, dalla L. n. 689 del 1981, art. 14 la notifica al debitore di un avviso di accertamento non costituisce atto presupposto necessario del procedimento, la cui omissione invalidi il successivo atto di riscossione, ben potendo l’iscrizione a ruolo avvenire pur in assenza di un atto di accertamento da parte dell’istituto (Cass. n. 4225 del 21/02/2018, Cass. n. 3269 del 10/02/2009) o, si aggiunge, pur in presenza di un accertamento comunque viziato (seppur dovendosi valutare il valore del relativo verbale a fini di prova);

ciò non comporta dubbi di legittimità costituzionale per asserito contrasto con l’art. 24 Cost. della ricostruzione del sistema di impugnazione del ruolo esattoriale in materia di crediti previdenziali nei sensi appena precisati, poichè il diritto di difesa del debitore è previsto e tutelato dalle norme di legge in esame, mentre rientra nelle facoltà discrezionali del legislatore la previsione dei termini di esercizio del diritto di impugnazione (v. Cass. n. 14692 del 2007, Cass. n. 9174 del 2010). Del resto, la stessa Corte Costituzionale, con ordinanza n. 111 del 2007 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 46 del 1999 cit., art. 24, proposta con riferimento all’art. 111 Cost. là dove attribuisce agli enti previdenziali il potere di riscuotere i propri crediti attraverso un titolo (il ruolo esattoriale, da cui scaturisce la cartella di pagamento) che si forma prima e al di fuori del giudizio e in forza del quale l’ente può conseguire il soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della sua fondatezza, osservando, da un lato, che non è irragionevole la scelta del legislatore di consentire ad un creditore, attesa la sua natura pubblicistica e l’affidabilità derivante dal procedimento che ne governa l’attività, di formare unilateralmente un titolo esecutivo, e, dall’altro lato, che è rispettosa del diritto di difesa e dei principi del giusto processo la possibilità, concessa al preteso debitore, di promuovere, entro un termine perentorio ma adeguato, un giudizio ordinario di cognizione nel quale far efficacemente valere le proprie ragioni, sia grazie alla possibilità di ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo e/o dell’esecuzione, sia grazie alla ripartizione dell’onere della prova in base alla posizione sostanziale (e non già formale) assunta dalle parti nel giudizio di opposizione;

gli ulteriori motivi del ricorso, da trattare congiuntamente in quanto connessi, sono pure infondati;

si lamenta, con una certa contraddittorietà, che la sentenza impugnata abbia fatto uso scorretto dei principi che regolano la materia dell’imponibile contributivo, disciplinata dalla L. n. 389 del 1989, art. 1 per aver affermato un inadempimento contrattuale tra le parti del rapporto di lavoro senza esaminare ed indicare quali siano le disposizioni del contratto collettivo violate e dimenticando che la nozione di minimale imponibile contributivo non fa riferimento alle disposizioni contrattuali collettive di tipo normativo; per altro verso, la sentenza avrebbe dato per assodato che gli accordi intercorsi con taluni dipendenti, aventi ad oggetto la temporanea sospensione dei rapporti di lavoro con effetti sulla stessa esistenza dell’obbligo retributivo nei loro confronti, fossero illegittimi laddove, invece, tali accordi erano previsti dall’art. 34 del c.c.n.l. aziende artigiane metalmeccaniche (documento prodotto dagli stessi ricorrenti) e, dunque, erano stati realizzati in modo del tutto legittimo;

la tesi prospettata in ricorso non è coerente con la ricostruzione della nozione di minimale contributivo emergente dalla L. n. 389 del 1989, art. 1 nonchè dei suoi rapporti con le obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, che questa Corte di cassazione ha elaborato;

in particolare, secondo la giurisprudenza di questa Corte (da ultimo Cass. n. 15120 del 2019) che si è consolidata dopo l’arresto delle Sezioni Unite n. 11199 del 29/07/2002, l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (c.d. “minimale contributivo”), secondo il riferimento ad essi fatto – con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale – dal D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1 (convertito in L. 7 dicembre 1989, n. 389), senza le limitazioni derivanti dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 36 Cost. (c.d. “minimo retributivo costituzionale”), che sono rilevanti solo quando a detti contratti si ricorre – con incidenza sul distinto rapporto di lavoro – ai fini della determinazione della giusta retribuzione (v. ex aliis Cass. n. 801 del 20/01/2012). La regola del minimale contributivo deriva dal principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell’obbligazione retributiva, ben potendo l’obbligo contributivo essere parametrato ad importo superiore a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro;

tale principio opera, contrariamente a quanto sostenuto dalle parti ricorrenti, sia con riferimento all’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, sia con riferimento all’orario di lavoro da prendere a parametro, che dev’essere l’orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale se superiore;

difatti, è evidente che se ai lavoratori vengono retribuite meno ore di quelle previste dal normale orario di lavoro e su tale retribuzione viene calcolata la contribuzione, non vi può essere il rispetto del minimo contributivo nei termini sopra rappresentati;

vale infatti anche con riferimento all’orario il principio stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 20 luglio 1992, n. 342, secondo il quale “una retribuzione (…) imponibile non inferiore a quella minima (è) necessaria per l’assolvimento degli oneri contributivi e per la realizzazione delle finalità assicurative e previdenziali, (in quanto), se si dovesse prendere in considerazione una retribuzione imponibile inferiore, i contributi determinati in base ad essa risulterebbero tali da non poter in alcun modo soddisfare le suddette esigenze”;

nel settore dell’edilizia, il D.L. n. 244 del 1995, art. 29 conv. in L. n. 341 del 1995, individua le ipotesi di esenzione dall’obbligo del minimale contributivo – inteso anche come obbligo di commisurare la contribuzione ad un numero di ore settimanali non inferiore all’orario di lavoro normale stabilito dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale e dai relativi contratti integrativi territoriali di attuazione – con disposizione, avente chiara finalità antielusiva, che è stata ritenuta da questa Corte di stretta interpretazione, analogamente alle fonti normative cui essa rinvia (Cass. n. 9805 del 04/05/2011, Cass. n. 10134 del 26/04/2018, e ancora, da ultimo, Cass. n. 4690 del 18/2/2019). in proposito, è stato dunque escluso che una sospensione consensuale della prestazione che derivi da una libera scelta del datore di lavoro e costituisca il risultato di un accordo tra le parti possa determinare la sospensione dell’obbligazione contributiva (v. Cass. n. 21700 del 13/10/2009, Cass. n. 9805 del 04/05/2011 e successive conformi, che hanno superato la diversa soluzione adottata dal Cass. n. 1301 del 24/01/2006);

la necessità di tipizzare le suddette ipotesi eccettive è sorta nel settore edile proprio perchè ivi la possibilità di rendere la prestazione lavorativa è normalmente condizionata da eventi esterni che sfuggono al controllo delle parti;

il fatto che per gli altri settori merceologici non vi sia analoga previsione non significa che sussista una generale libertà delle parti di modulare l’orario di lavoro e la stessa presenza al lavoro così rimodulando anche l’obbligazione contributiva, considerato che questa seconda è svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e dev’essere connotata dai caratteri di predeterminabilità, oggettività e possibilità di controllo;

anche nei settori diversi da quello edile, la contribuzione è dunque dovuta nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione stessa che costituiscano il risultato di un accordo tra le parti derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo (quali malattia, maternità, infortunio, aspettativa, permessi, cassa integrazione);

in tal senso, e considerata l’autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello retributivo, è stato appunto rimodulato il principio affermato nel recente arresto n. 24109 del 03/10/2018;

ove dunque gli enti previdenziali e assistenziali pretendano da un’impresa differenze contributive sulla retribuzione virtuale determinata ai sensi del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1, comma 1 anche con riferimento all’orario di lavoro, incombe al datore di lavoro allegare e provare la ricorrenza di un’ipotesi eccettuativa dell’obbligo, nel senso sopra individuato;

la soluzione adottata nel caso dalla Corte territoriale è dunque conforme a diritto, considerato che l’esenzione dall’obbligo contributivo era nel caso sostenuta dal datore di lavoro sulla base della necessità di adeguare la contribuzione alla prestazione effettivamente resa, nella ritenuta legittimità delle sospensioni concordate ma senza alcuna specificazione della derivazione delle assenze da ipotesi legali o contrattuali di sospensione della prestazione;

i ricorrenti, del resto, insistono nel ritenere che spetti all’Inps provare quale sia l’inadempimento contrattuale dal quale ipotizzano che derivi anche l’inadempimento dell’obbligo contributivo e si limitano a citare, solo ad esempio di sospensione prevista dalla contrattazione collettiva, l’art. 34 del c.c.n.l. delle aziende artigiane metalmeccaniche del 2010, quando il periodo interessato va dal 2007 al 2011;

in definitiva, il ricorso va rigettato;

non si provvedere sulle spese atteso che l’INPS non ha svolto attività difensiva, limitandosi a depositare procura speciale.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove previsto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020

 

 

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