Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22975 del 21/10/2020

Cassazione civile sez. I, 21/10/2020, (ud. 13/10/2020, dep. 21/10/2020), n.22975

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 10678/2019 proposto da:

M.N., elettivamente domiciliato in Terre Roveresche, via

Ville Fonti, n. 4 (PU), rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe

Briganti del Foro di Urbino, giusta procura speciale in calce al

ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato.

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di ANCONA n. 2177/2019 del 17

febbraio 2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/10/2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Con decreto del 17 febbraio 2019, il Tribunale di Ancona ha rigettato il ricorso proposto da M.N., cittadino proveniente dal (OMISSIS), avverso il provvedimento negativo della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Il Tribunale, ha ritenuto che, anche se il racconto del richiedente il quale aveva dichiarato di essere fuggito dal suo Paese in seguito ad un conflitto con i familiari per la divisione dell’eredità del defunto padre – fosse stato credibile, restava confinato nei limiti di una vicenda privata e di miglioramento socio-economico; che non erano emersi elementi da cui desumere la sussistenza di una grave ed individuale minaccia nei confronti del richiedente e che la sola presenza dei civili nell’area in provenienza non costituiva un pericolo per la vita e la loro incolumità; che non si ravvisavano condizioni individuali di elevata vulnerabilità, nè il richiedente aveva dato prova di avere seriamente intrapreso un percorso di integrazione sociale e lavorativa, nè poteva ritenersi sufficiente la prova di un rapporto di lavoro anche se piuttosto stabile.

3. M.N. ricorre per la cassazione del decreto con atto affidato a cinque motivi.

4. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la nullità del decreto impugnato, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 1 e 11, lett. a) e art. 13; artt. 737,135 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2 e dell’art. 111 Cost., comma 6, stante le lacune motivazionali in esso presenti.

In particolare, il Tribunale non avrebbe compiutamente argomentato in merito alle ragioni dell’asserita contraddittorietà delle dichiarazioni del richiedente, limitandosi al richiamo generico della decisione della Commissione, senza effettuare un compiuto ed autonomo vaglio critico, alla luce dei rilievi formulati e documentati in sede di ricorso e senza svolgere i necessari approfondimenti istruttori; la motivazione era apparente e contraddittoria laddove in alcune parti del provvedimento aveva ritenuto credibili le dichiarazioni del ricorrente (così con riferimento al “timore persecutorio dallo stesso rappresentato” e alla protezione umanitaria); mancava inoltre il riferimento alle fonti internazionali attuali indicate nel ricorso e alle condizioni socio-politiche generali del Paese di origine, nonchè alle ragioni che avevano indotto il Tribunale a ritenere esistente nel Bangladesh una adeguata ed effettiva tutela da parte delle autorità statali; quanto alla protezione umanitaria non era dato rinvenire le ragioni logico-giuridiche della valutazione comparativa e del perchè era stato ritenuto irrilevante il percorso migratorio del richiedente in rapporto al suo percorso di integrazione in Italia e alla sua vicenda personale, avuto riguardo alla vicenda narrata e alla situazione del Paese d’origine; il richiedente non era stato sentito collegialmente dal Tribunale, ma dal solo giudice relatore, e quindi non erano stati apprezzati anche i risvolti paraverbali e non verbali della narrazione.

1.1 Il motivo è inammissibile.

Ed invero, in base alla costante giurisprudenza di legittimità, la motivazione apparente ricorre quando la motivazione, pur essendo graficamente e, quindi, materialmente, esistente, come parte del documento in cui consiste la sentenza o altro provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perchè esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., Sez. U. 22 settembre 2014, n. 19881).

Con orientamento ormai consolidato e ribadito anche di recente, quindi, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall’art. 111 Cost., sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, nè alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819).

In particolare, in tema di valutazione delle prove, il giudice di merito è tenuto a dare conto, in modo comprensibile e coerente rispetto alle evidenze processuali, del percorso logico compiuto al fine di accogliere o rigettare la domanda proposta, dovendosi ritenere viziata per apparenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la motivazione assertiva o riferita solo complessivamente alle produzioni in atti (Cass., 30 maggio 2019, n. 14762).

1.2 Tanto premesso, nel caso in esame, non sussiste il vizio lamentato sia per quel che riguarda la domanda di protezione internazionale, sia per quanto concerne la domanda di protezione umanitaria perchè entrambe le statuizioni risultano sostenute da una chiara motivazione che delinea il percorso logico – argomentativo che ha portato il Tribunale a rigettare le tesi dell’odierno ricorrente.

1.3 Nel primo caso il Tribunale ha affermato che le dichiarazioni del richiedente, anche laddove credibili, restavano confinate nei limiti di una vicenda di vita privata e di miglioramento socio-economico, che non poteva essere addotta, di per sè, come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, in quanto le “vicende private” sono estranee al sistema della protezione internazionale, a meno che emergano atti persecutori o danno grave non imputabili da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b), anche indirettamente laddove non possano o non vogliano fornire la protezione adeguata (Cass., 1 aprile 2019, n. 9043).

1.4 Nel secondo caso è chiaro che il rigetto della protezione umanitaria è stato disposto per mancanza di elementi da cui desumere che l’interessato versi in una delle ipotesi di vulnerabilità rilevanti per la suddetta forma di protezione, non essendo stata neanche dimostrata in modo specifico l’avvenuta integrazione e stabilizzazione in Italia non essendo sufficiente la prova del rapporto di lavoro, piuttosto stabile, fornita dal richiedente.

Va, altresì, aggiunto, come affermato da questa Corte, che il fattore dell’integrazione sociale in Italia, peraltro genericamente allegato in ricorso, è recessivo, qualora difetti la vulnerabilità (Cass., 23 febbraio 2018, n. 4455).

1.5 Nella descritta situazione la motivazione esiste e non corrisponde affatto alla nozione di motivazione apparente, nozione alla quale il ricorrente fa riferimento nel tentativo di ottenere in questa sede una diversa valutazione delle risultanze processuali effettuata dal Tribunale sulla condizione personale del ricorrente, senza contestare in modo specifico le ragioni del decidere poste a fondamento della ritenuta carenza dei presupposti per la concessione della protezione internazionale e di quella umanitaria.

Non sussiste, pertanto, alcuna contraddizione, poichè il Tribunale ha operato una valutazione delle dichiarazioni del ricorrente, alla luce di fonti di informazioni indicate ed attuali e ha evidenziato la non credibilità del ricorrente, con la subordinata considerazione che anche se i fatti narrati fossero veri, comunque non ricorrerebbero i presupposti per il riconoscimento della protezione.

1.6 Risulta impropria anche l’invocazione dell’attivazione dei poteri istruttori officiosi, dato che è pacifico che la vicenda narrata sia di tipo privato e come tale estranea al sistema della protezione internazionale, atteso che i cosiddetti soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali, ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b), (Cass., 1 aprile 2019, n. 9043).

In ogni caso, la censura attinente alla mancata attivazione dei poteri officiosi del giudice investito della domanda di protezione risulta essere assolutamente generica e, per conseguenza, priva di decisività.

Il ricorrente non solo, non indica quali siano le informazioni che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso, ma fa riferimento, sempre generico, alla necessità di acquisire informazioni sulle condizioni socio politiche del paese di provenienza senza spiegare neppure l’incidenza di tali fatti nella fattispecie in esame.

1.7 Risultano parimenti irrilevanti le censure relative alla mancata audizione del richiedente da parte del Tribunale, che non tiene conto della giurisprudenza di questa Corte secondo cui nell’ipotesi di indisponibilità della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente fissare l’udienza per la comparizione delle parti, configurandosi, in difetto, la nullità del decreto con il quale viene deciso il ricorso, salvo che il ricorrente non abbia dichiarato di non volersi avvalere del supporto contenente la registrazione del colloquio, ma non comporta il dovere di disporre nuovamente l’audizione del ricorrente (Cass., 23 maggio 2019, n. 14148; Cass., 28 febbraio 2019, n. 5973).

Ciò fatte salve le ipotesi, nella specie non sussistenti, in cui nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; quest’ultimo nel ricorso non ne faccia istanza, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire i predetti chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile.

1.8 Anche la censura relativa alla comparizione del ricorrente dinanzi al solo giudice relatore e non all’intero collegio è inammissibile.

Nel caso di specie, il giudice delegato all’audizione del richiedente è stato anche il giudice relatore della causa dinanzi al collegio ed è stato anche il giudice estensore del successivo provvedimento di definizione del giudizio.

Tanto premesso, le controversie in esame sono regolate, a norma del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 1, dalle disposizioni di cui agli artt. 737 c.p.c. e segg., con il conseguente corollario che l’atto istruttorio può essere assunto anche da un giudice singolo, componente del collegio, senza che ciò violi il principio di immutabilità del collegio giudicante, volto ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla discussione.

Al riguardo, questa Corte ha affermato che il principio di immutabilità del collegio, che opera anche nei procedimenti in Camera di consiglio, trova applicazione soltanto una volta che sia iniziata la fase di discussione, perchè solo da questo momento è vietata la deliberazione da parte di un collegio composto diversamente da quello che ha assistito alla discussione (Cass., 21 febbraio 2020, n. 15325).

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che, in difetto di esplicite norme contrarie, il principio generale secondo cui un giudice può essere delegato dal collegio alla raccolta di elementi probatori da sottoporre successivamente alla piena valutazione dell’organo collegiale, trova applicazione anche nelle ipotesi di procedimento camerale applicato a diritti soggettivi per quelle ragioni di celerità e sommarietà delle indagini proprie di tale particolare tipo di procedimento (Cass., Sez. U., 19 giugno 1996, n. 5629).

2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, delle conseguenze della morte del padre, essendo lui all’epoca minorenne e nella necessità di fare fronte al mantenimento della famiglia, nel contesto dell’attuale situazione sociale, economica e politica del Bangladesh.

2.1 Il motivo è inammissibile.

2.2 Giova, invero, premettere che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Il mancato esame, dunque, deve riguardare un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (Cass., 8 settembre 2016, n. 17761; Cass. 13 dicembre 2017, n. 29883), e non, invece, le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., SU, 20 giugno 2018, n. 16303; Cass. 14 giugno 2017, n. 14802), oppure gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).

2.3 Il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere “decisivo”, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia, e deve, altresì, essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti.

2.4 E’ utile rammentare, poi, che Cass., Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053, ha chiarito che “la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti”.

2.5 Nella specie, il ricorrente non ha rispettato le descritte prescrizioni imposte dalle Sezioni Unite circa le modalità di deduzione del vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo dedotto l’omesso esame delle conseguenze della morte del padre, essendo lui all’epoca minorenne, e della necessità di fare fronte al mantenimento della famiglia, nel contesto dell’attuale situazione sociale, economica e politica del Bangladesh, nè, soprattutto, argomenta in ordine alla loro necessaria decisività.

2.6 Le doglianze, in verità, riguardano il complessivo ed intero governo del materiale istruttorio, totalmente obliterando che la valutazione delle risultanze istruttorie rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile nel giudizio di legittimità e la censura sopra descritta appare finalizzata a sollecitare una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito sulla base delle risultanze istruttorie acquisite al processo che è inammissibile in questa sede.

3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e specificamente dell’art. 2 Cost., art. 10 Cost., comma 3, art. 32 Cost.; L. n. 881 del 1997, art. 11; D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 10, 13, 27, 32, art. 35 bis, comma 11, lett. a) e dell’art. 16 della Direttiva Europea n. 2013/32, nonchè degli artt. 2, 3, anche in relazione all’art. 115 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5,6,7 e 14 e del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2.

Il ricorrente, oltre a ribadire profili di censura in precedenza illustrati, afferma che il Tribunale doveva prendere in considerazione tutte le dichiarazioni del ricorrente, anche alla luce della documentazione prodotta nel rispetto del dovere di cooperazione istruttoria.

3.1 Il motivo è inammissibile, poichè in esso vengono richiamate le norme menzionate in rubrica, ma non viene in alcun modo spiegato come il Tribunale le avrebbe violate, risolvendosi peraltro il motivo in un richiamo alle argomentazioni già svolte.

3.2 Nello specifico secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Suprema Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass., 26 giugno 2013, n. 16038).

3.3 Nel caso in esame, l’ampio ed articolato motivo presenta profili di inammissibilità in quanto viene dedotta la violazione di una pluralità di disposizioni normative, omettendo di precisare le affermazioni in diritto della sentenza che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie (o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità), genericamente richiamate nella intestazione del motivo, e senza ricondurre una specifica statuizione della sentenza alla violazione di una determinata norma, impedendo così alla Corte regolatrice di adempiere al suo compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Specificamente il ricorrente ribadisce le medesime censure sollevate dinanzi al Tribunale, sovrapponendo alle argomentazioni del Tribunale le proprie senza prospettare differenti profili argomentativi.

Ciò che sarebbe stato necessario a fronte delle specifiche motivazioni contenute nel decreto impugnato che, peraltro, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto all’uopo richiamati.

4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e, in particolare, degli artt. 6 e 13 della convenzione EDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 46 della direttiva Europea n. 2013/32.

In particolare il ricorrente afferma che non può ritenersi rispettato il principio di effettività del ricorso in presenza della denunciata violazione del dovere di cooperazione istruttoria.

4.1 Il motivo è inammissibile, perchè oltre a ribadire ancora una volta le argomentazioni già svolte, è irrilevante, laddove denuncia la violazione del principio di effettività del ricorso derivante dall’asserita mancata utilizzazione da parte del Giudice dei poteri istruttori officiosi.

Al riguardo, va ricordato che secondo la Corte di Strasburgo, requisito essenziale per il rispetto del diritto al ricorso effettivo al giudice è quello della garanzia in favore dell’interessato dell’effettiva conoscenza della facoltà di esercitare il proprio diritto a prendere parte al procedimento e, di conseguenza, ad un equo processo (Coerte EDU, 27 aprile 2017, Schmidt c. Lettonia; Cass., 4 febbraio 2020, n. 2555).

Nel caso in esame, il ricorrente non deduce di non avere potuto esercitare tale diritto, quanto piuttosto che il Giudice non abbia utilizzato i poteri istruttori officiosi di cui si è già detto.

5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la nullità del decreto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 1 e 13 e degli artt. 737,135 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6; in subordine omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; in ulteriore subordine violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,14; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2.

Ad avviso del ricorrente il Tribunale nulla motiva in merito al percorso migratorio e al periodo di permanenza in Libia.

5.1 Il motivo è inammissibile, poichè la censura cumula una denuncia di nullità del provvedimento impugnato, un omesso esame di un fatto decisivo e controverso e una violazione e/o falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 .

Al riguardo questa Corte ha affermato che, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi di fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (Cass., 31 marzo 2020, n. 7628; Cass., 9 maggio 2018, n. 11222; Cass., 20 novembre 2017, n. 27458; Cass., 28 settembre 2016, n. 19133).

Nel caso in esame, il ricorrente sottopone all’esame di questa Corte una serie di aspetti diversi, alcuni prospettati in diritto, altri in fatto, alcuni riguardanti la protezione sussidiaria, altri la protezione umanitaria con riguardo a profili differenti, con la conseguenza che viene riversato nel ricorso, l’intero contenuto delle fasi di merito devolvendo alla Corte di cassazione l’individuazione degli eventuali vizi invalidanti la decisione impugnata.

5.2 In ogni caso, con specifico riferimento al percorso migratorio e al periodo di permanenza in Libia, il motivo è inammissibile per difetto di specificità, difettando l’indicazione delle ragioni per le quali la valutazione dovesse estendersi anche alla condizione di tale Paese.

Al riguardo, va evidenziato che l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide, potendo il paese di transito rilevare, ai sensi dell’art. 3 della Direttiva UE n. 115/2008, solo nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass.,6 dicembre 2018, n. 31676).

6. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese poichè l’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020

 

 

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