Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22967 del 21/10/2020

Cassazione civile sez. I, 21/10/2020, (ud. 13/10/2020, dep. 21/10/2020), n.22967

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 9766/2019 proposto da:

O.E., elettivamente domiciliato in Strada dei Canneti, n.

4/1, Pesaro, rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Briganti, del

Foro di Urbino, giusta procura speciale in calce al ricorso per

cassazione.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato.

– resistente –

avverso il decreto del Tribunale di ANCONA n. 1840/2019 del 9

febbraio 2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/10/2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Con decreto del 9 febbraio 2019, il Tribunale di Ancona ha rigettato il ricorso proposto da O.E., cittadino proveniente dalla (OMISSIS), avverso il provvedimento negativo della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Il Tribunale, ha ritenuto che: non era credibile il racconto del richiedente, il quale aveva dichiarato di essere fuggito dopo essere stato testimone dell’assassinio del padre, portavoce del partito (OMISSIS) della città di (OMISSIS), ucciso perchè aveva preso soldi sia dal partito di cui faceva parte, sia dal partito avversario e che l’assassinio di suo padre aveva minacciato di sterminare tutta la famiglia; non erano emersi elementi da cui desumere la sussistenza di una grave ed individuale minaccia nei confronti del richiedente e che la sola presenza dei civili nell’area di provenienza non costituiva un pericolo per la vita e la loro incolumità; non si ravvisavano condizioni individuali di elevata vulnerabilità, nè il richiedente aveva dato prova di avere seriamente intrapreso un percorso di integrazione sociale e lavorativa.

3. O.E. ricorre per la cassazione del decreto con atto affidato a quattro motivi.

4. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la nullità del decreto impugnato, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 1 e 11, lett. a) e art. 13; artt. 737,135 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2 e dell’art. 111 Cost., comma 6, stante le lacune motivazionali in esso presenti.

In particolare, il Tribunale non avrebbe compiutamente argomentato in merito alle ragioni dell’asserita contraddittorietà delle dichiarazioni del richiedente, limitandosi al richiamo generico della decisione della Commissione, senza effettuare un compiuto ed autonomo vaglio critico a fronte dei documenti depositati nel giudizio, quali il suo certificato di nascita e il certificato di morte del padre; senza considerare i rilievi formulati e documentati in sede di ricorso e senza svolgere i necessari approfondimenti istruttori; la motivazione era apparente e contraddittoria laddove in alcune parti del provvedimento aveva ritenuto credibili le dichiarazioni del ricorrente (così con riferimento al “timore persecutorio dallo stesso rappresentato” e alla protezione umanitaria); mancava inoltre il riferimento alle fonti attuali, che erano state indicate nel ricorso, e alle condizioni sociali e politiche generali del Paese di origine e le ragioni che avevano indotto il Tribunale a ritenere esistente in Nigeria un’adeguata ed effettiva tutela da parte delle autorità statali; quanto alla protezione umanitaria non era dato rinvenire le ragioni logico-giuridiche della valutazione comparativa e del perchè era stato ritenuto irrilevante il percorso migratorio del richiedente in rapporto al suo percorso di integrazione in Italia e alla sua vicenda personale, avuto riguardo alla vicenda narrata e alla situazione del Paese d’origine; il richiedente non era stato sentito collegialmente dal Tribunale, ma solo dal giudice relatore, e quindi non erano stati apprezzati anche i risvolti paraverbali e non verbali della narrazione.

1.1 Il motivo è inammissibile.

Ed invero, in base alla costante giurisprudenza di legittimità, la motivazione apparente ricorre quando la motivazione, pur essendo graficamente e, quindi, materialmente, esistente, come parte del documento in cui consiste la sentenza o altro provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perchè esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., Sez. U. 22 settembre 2014, n. 19881).

Con orientamento ormai consolidato e ribadito anche di recente, quindi, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall’art. 111 Cost., sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, nè alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819).

In particolare, in tema di valutazione delle prove, il giudice di merito è tenuto a dare conto, in modo comprensibile e coerente rispetto alle evidenze processuali, del percorso logico compiuto al fine di accogliere o rigettare la domanda proposta, dovendosi ritenere viziata per apparenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la motivazione assertiva o riferita solo complessivamente alle produzioni in atti (Cass., 30 maggio 2019, n. 14762).

1.2 Tanto premesso, nel caso in esame, non sussiste il vizio lamentato sia per quel che riguarda la domanda di protezione internazionale, sia per quanto concerne la domanda di protezione umanitaria perchè entrambe le statuizioni risultano sostenute da una chiara motivazione che delinea il percorso logico – argomentativo che ha portato il Tribunale a rigettare le tesi dell’odierno ricorrente.

1.3 Nel primo caso il Tribunale ha valutato il racconto del richiedente e ha ritenuto le dichiarazioni del ricorrente poco circostanziate, peraltro su fatti essenziali e determinanti l’espatrio e ha, poi, evidenziato che il racconto narrato in sede di audizione e confermato in udienza era del tutto diverso da quello esposto nella memoria prodotta in sede di redazione del modello C3 presso la Questura di Pesaro, dove il richiedente aveva narrato fatti relativi ad un danno che si sarebbe verificato durante l’attività lavorativa e che lui non avrebbe potuto risarcire.

Inoltre, ha precisato che non erano stati rinvenuti dati sul padre, definito come importante esponente politico del partito (OMISSIS) a (OMISSIS) e che il certificato di nascita del richiedente e quello di morte del padre non erano risolutivi perchè non confermavano la storia narrata.

1.4 Nel secondo caso è chiaro che il rigetto della protezione umanitaria è stato disposto per mancanza di elementi da cui desumere che l’interessato versava in una delle ipotesi di vulnerabilità rilevanti per la suddetta forma di protezione, non essendo stata neanche dimostrata in modo specifico l’avvenuta integrazione e stabilizzazione in Italia.

1.5 Nella descritta situazione la motivazione esiste e non corrisponde affatto alla nozione di motivazione apparente, nozione alla quale il ricorrente fa riferimento nel tentativo di ottenere in questa sede una diversa valutazione delle risultanze processuali effettuata dal Tribunale sulla condizione personale del ricorrente, senza contestare in modo specifico le ragioni del decidere poste a fondamento della ritenuta carenza dei presupposti per la concessione della protezione internazionale e di quella umanitaria.

Non sussiste, pertanto, alcuna contraddizione, poichè il Tribunale ha operato una valutazione delle dichiarazioni del ricorrente, alla luce di fonti di informazioni indicate e attuali, e ha evidenziato la non credibilità del ricorrente, con la subordinata considerazione che anche se i fatti narrati fossero veri, comunque non ricorrerebbero i presupposti per il riconoscimento della protezione.

1.6 Risulta impropria anche l’invocazione dell’attivazione dei poteri istruttori officiosi, dato che il richiedente, in materia di protezione internazionale, è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass., 12 giugno 2019, n. 15794). In ogni caso, la censura attinente alla mancata attivazione dei poteri officiosi del giudice investito della domanda di protezione risulta essere assolutamente generica e, per conseguenza, priva di decisività.

Il ricorrente non solo, non indica quali siano le informazioni che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso, ma fa riferimento, sempre generico, alla necessità di acquisire informazioni sulle condizioni sociali e politiche del paese di provenienza senza spiegare neppure l’incidenza di tali fatti nella fattispecie in esame.

1.7 Risultano parimenti irrilevanti le censure relative alla mancata audizione del richiedente da parte del Tribunale, che non tiene conto della giurisprudenza di questa Corte secondo cui nell’ipotesi di indisponibilità della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente fissare l’udienza per la comparizione delle parti, configurandosi, in difetto, la nullità del decreto con il quale viene deciso il ricorso, salvo che il ricorrente non abbia dichiarato di non volersi avvalere del supporto contenente la registrazione del colloquio, ma non comporta il dovere di disporre nuovamente l’audizione del ricorrente (Cass., 23 maggio 2019, n. 14148; Cass., 28 febbraio 2019, n. 5973).

Ciò fatte salve le ipotesi, nella specie non sussistenti, in cui nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; quest’ultimo nel ricorso non ne faccia istanza, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire i predetti chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile.

1.8 Anche la censura relativa alla comparizione del ricorrente dinanzi al solo giudice relatore e non all’intero collegio è inammissibile.

Nel caso di specie, il giudice delegato all’audizione del richiedente è stato anche il giudice relatore della causa dinanzi al collegio ed è stato anche il giudice estensore del successivo provvedimento di definizione del giudizio.

Tanto premesso, le controversie in esame sono regolate, a norma del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 1, dalle disposizioni di cui agli artt. 737 c.p.c. e segg., con il conseguente corollario che l’atto istruttorio può essere assunto anche da un giudice singolo, componente del collegio, senza che ciò violi il principio di immutabilità del collegio giudicante, volto ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla discussione.

Al riguardo, questa Corte ha affermato che il principio di immutabilità del collegio, che opera anche nei procedimenti in Camera di consiglio, trova applicazione soltanto una volta che sia iniziata la fase di discussione, perchè solo da questo momento è vietata la deliberazione da parte di un collegio composto diversamente da quello che ha assistito alla discussione (Cass., 21 febbraio 2020, n. 15325).

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, altresì, precisato che, in difetto di esplicite norme contrarie, il principio generale secondo cui un giudice può essere delegato dal collegio alla raccolta di elementi probatori da sottoporre successivamente alla piena valutazione dell’organo collegiale, trova applicazione anche nelle ipotesi di procedimento camerale applicato a diritti soggettivi per quelle ragioni di celerità e sommarietà delle indagini proprie di tale particolare tipo di procedimento (Cass., Sez. U., 19 giugno 1996, n. 5629).

2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dei fatti rappresentati dal certificato di morte del padre prodotto in primo grado e dall’attuale situazione sociale, economica e politica del Paese di provenienza alla luce delle fonti internazionali allegate al ricorso di primo grado.

2.1 Il motivo è inammissibile.

2.2 Giova, invero, premettere che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Il mancato esame, dunque, deve riguardare un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (Cass., 8 settembre 2016, n. 17761; Cass. 13 dicembre 2017, n. 29883), e non, invece, le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., SU, 20 giugno 2018, n. 16303; Cass. 14 giugno 2017, n. 14802), oppure gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).

2.3 Il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere “decisivo”, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia, e deve, altresì, essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti.

2.4 E’ utile rammentare, poi, che Cass., Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053, ha chiarito che “la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti”.

2.5 Nella specie, il ricorrente non ha rispettato le descritte prescrizioni imposte dalle Sezioni Unite sulle modalità di deduzione del vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo dedotto l’omesso esame del certificato di morte del padre e dell’attuale situazione sociale, economica e politica del Paese di provenienza, senza argomentare in ordine alla loro necessaria decisività.

2.6 Le doglianze, in verità, riguardano il complessivo ed intero governo del materiale istruttorio, totalmente obliterando che la valutazione delle risultanze istruttorie rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile nel giudizio di legittimità.

3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e specificamente dell’art. 2 Cost., art. 10 Cost., comma 3, art. 32 Cost.; L. n. 881 del 1997, art. 11; D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 10, 13, 27, 32, art. 35 bis, comma 11, lett. a) e dell’art. 16 della Direttiva Europea n. 2013/32, nonchè degli artt. 2, 3, anche in relazione all’art. 115 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5,6,7 e 14 e del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2.

Il ricorrente, oltre a ribadire profili di censura in precedenza illustrati, afferma che il Tribunale doveva prendere in considerazione tutte le dichiarazioni del ricorrente, anche alla luce della documentazione prodotta nel rispetto del dovere di cooperazione istruttoria.

3.1 Il motivo è inammissibile, poichè in esso vengono richiamate le norme menzionate in rubrica, ma non viene in alcun modo spiegato come il Tribunale le avrebbe violate, risolvendosi peraltro il motivo in un richiamo alle argomentazioni già svolte.

3.2 Nello specifico secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Suprema Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass., 26 giugno 2013, n. 16038).

3.3 Nel caso in esame, l’ampio ed articolato motivo presenta profili di inammissibilità in quanto viene dedotta la violazione di una pluralità di disposizioni normative, omettendo di precisare le affermazioni in diritto della sentenza che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie (o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità), genericamente richiamate nella intestazione del motivo, e senza ricondurre una specifica statuizione della sentenza alla violazione di una determinata norma, impedendo così alla Corte regolatrice di adempiere al suo compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Specificamente il ricorrente ribadisce le medesime censure sollevate dinanzi al Tribunale, sovrapponendo alle argomentazioni del Tribunale le proprie senza prospettare differenti profili argomentativi.

Ciò che sarebbe stato necessario a fronte delle specifiche motivazioni contenute nel decreto impugnato che, peraltro, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto all’uopo richiamati.

4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e, in particolare, degli artt. 6 e 13 della convenzione EDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 46 della direttiva Europea n. 2013/32.

In particolare il ricorrente, richiamando le argomentazioni già svolte afferma che non può ritenersi rispettato il principio di effettività del ricorso in presenza della denunciata violazione del dovere di cooperazione istruttoria.

4.1 Il motivo è inammissibile, perchè oltre a ribadire ancora una volta le argomentazioni già svolte, è irrilevante, laddove denuncia la violazione del principio di effettività del ricorso derivante dall’asserita mancata utilizzazione da parte del Giudice dei poteri istruttori officiosi.

Al riguardo, va ricordato che secondo la Corte di Strasburgo, requisito essenziale per il rispetto del diritto al ricorso effettivo al giudice è quello della garanzia in favore dell’interessato dell’effettiva conoscenza della facoltà di esercitare il proprio diritto a prendere parte al procedimento e, di conseguenza, ad un equo processo (Coerte EDU, 27 aprile 2017, Schmidt c. Lettonia; Cass., 4 febbraio 2020, n. 2555).

Nel caso in esame, il ricorrente non deduce di non avere potuto esercitare tale diritto, quanto piuttosto che il Giudice non abbia utilizzato i poteri istruttori officiosi di cui si è già detto.

5. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese poichè l’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020

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