Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22966 del 29/09/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 29/09/2017, (ud. 05/10/2016, dep.29/09/2017),  n. 22966

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2434-2015 proposto da:

P.G., + ALTRI OMESSI

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per

legge;

– resistente –

avverso il decreto della Corte d’appello di Lecce, depositato il 26

giugno 2014;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 5

ottobre 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti.

Fatto

RITENUTO

che, con ricorsi depositati presso la Corte d’appello di Bari il 2 aprile 2012, P.G., + ALTRI OMESSI

che, avendo la Corte d’appello di Bari dichiarato la propria incompetenza per territorio, i ricorrenti indicati riassumevano il giudizio dinnanzi alla Corte d’appello di Lecce;

che con comparsa di costituzione del 25 febbraio 2014 si costituivano gli eredi di C.S., deceduto il (OMISSIS); che la Corte d’appello di Lecce, con riferimento alla domanda del C., dichiarava estinto il giudizio, atteso che il ricorso in riassunzione era stato depositato quando l’originario ricorrente era già deceduto, con conseguente estinzione del mandato a suo tempo conferito, mentre la costituzione degli eredi era avvenuta ben oltre il termine di tre mesi di cui all’art. 50 c.p.c.; che la Corte rigettava invece la domanda degli altri ricorrenti, atteso che la pretesa dagli stessi azionata nel giudizio presupposto doveva ritenersi manifestamente infondata, e tale era stata ritenuta dalla Corte dei conti;

che, quindi, la domanda proposta nel giudizio presupposto doveva essere qualificata come temeraria, con conseguente esclusione del diritto dei ricorrenti all’indennizzo;

che per la cassazione di questo decreto i ricorrenti in epigrafe indicati hanno proposto ricorso affidato a quattro motivi;

che il Ministero intimato non ha resistito con controricorso ma ha depositato atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO

che con il primo motivo, proposto nell’interesse degli eredi C., si denuncia violazione ed errata applicazione degli artt. 50 e 300 c.p.c. e art. 307 c.p.c., u.c., in quanto la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto che l’evento interruttivo non era mai stato dichiarato e che la comparsa di costituzione degli eredi era il primo atto dichiarativo dell’evento suscettibile di provocare l’interruzione, superata, peraltro, proprio dalla costituzione degli aventi diritto;

che, con altra censura, si deduce la violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, per non essere stata la questione sottoposta al contraddittorio delle parti;

che con il secondo motivo, comune a tutti i ricorrenti, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 6 CEDU e della L. n. 89 del 2001, art. 2 nonchè dell’art. 111 Cost., rilevandosi non solo che il rigetto della domanda per temerarietà della pretesa azionata nel giudizio presupposto non era stata eccepita dal Ministero, ma anche che la valutazione di temerarietà è stata dalla Corte d’appello ancorata alle valutazioni espresse dalla Corte dei conti nella sentenza che ha definito il giudizio presupposto, dalla quale tuttavia non emergeva affatto un simile apprezzamento;

che in proposito i ricorrenti rilevano che il diritto all’equa riparazione spetta alle parti del giudizio presupposto indipendentemente dalla fondatezza o no della pretesa, potendosi escludere il diritto solo in caso di abuso del processo, nella specie non sussistente;

che, d’altra parte, la pretesa della Corte d’appello di attribuire la qualificazione di temerarietà ad una domanda oggetto di giudizio da parte della Corte dei conti violerebbe l’art. 37 c.p.c., art. 2909 c.c. e artt. 96 e 112 c.p.c., atteso che nessuna valutazione di temerarietà era stata espressa dalla Corte dei conti, senza che sul punto fosse stata proposta alcuna impugnazione;

che, ancora, si denuncia la irragionevolezza manifesta del decreto impugnato, per non essersi la Corte d’appello avveduta che le considerazioni svolte dalla Corte dei conti in ordine alla infondatezza della pretesa erano ancorate ad indirizzi giurisprudenziali del Consiglio di Stato espressi nel 2008, come tali inidonei a connotare in termini di temerarietà una domanda proposta nel 2000;

che con un ulteriore motivo, riferibile ai ricorrenti diversi dagli eredi C., si deduce violazione dell’art. 24 Cost., artt. 91 e 100 c.p.c., per avere la Corte d’appello pronunciato una condanna alle spese pur in presenza di una richiesta della difesa erariale di compensazione totale o parziale delle spese;

che, da ultimo, i ricorrenti precisano che i motivi di ricorso prima esposti si devono intendere come proposti anche ai sensi dell’art. 111 Cost.;

che i motivi comuni a tutte le parti, all’esame dei quali può procedersi in via preliminare e congiuntamente per ragioni di ordine logico, sono infondati;

che questa Corte ha affermato il principio per cui “in tema d’irragionevole durata del processo, l’elenco di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, non è tassativo, sicchè l’indennizzo può essere negato a chi abbia agito o resistito temerariamente nel giudizio presupposto, anche in assenza della condanna per responsabilità aggravata, a cui si riferisce la lett. a), potendo il giudice del procedimento di equa riparazione, già prima delle modifiche di cui alla L. n. 208 del 2015, autonomamente valutare la temerarietà della lite, come si desume, peraltro, dalla lett. f), che attribuisce carattere ostativo ad ogni altra ipotesi di abuso dei poteri processuali” (Cass. n. 9100 del 2016);

che, pertanto, il giudice del procedimento ex lege n. 89 del 2001 può valutare – e poteva farlo anche nella previgente disciplina applicabile catione temporis – anche ipotesi di temerarietà che per qualunque ragione nel processo presupposto non abbiano condotto ad una pronuncia di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c.;

che, d’altra parte, il richiamato orientamento giurisprudenziale è stato sostanzialmente recepito dal legislatore il quale, con la L. n. 208 del 2015, ha modificato della L. n. 89 del 2001, l’art. 2, comma 2-quinquies prevedendo che “non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all’articolo 96 del codice di procedura civile; (…)”;

che il richiamato principio vale ad escludere la fondatezza della censura prospettata con riferimento all’art. 37 c.p.c. e art. 2909 c.c., nonchè artt. 96 e 112 c.p.c., non dando luogo l’autonomo esercizio, da parte del giudice dell’equa riparazione, del potere di valutare la temerarietà della domanda svolta nel giudizio presupposto ad un’indebita attività giurisdizionale;

che, nel caso di specie, la Corte d’appello, prendendo in esame la sentenza della Corte dei conti che ha definito il giudizio presupposto, ha autonomamente apprezzato profili di temerarietà nella proposizione della domanda; apprezzamento, questo, che, come rilevato, non è certamente precluso dal fatto che nel giudizio presupposto non vi è stata condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c. e che costituisce accertamento di fatto, non sindacabile in sede di legittimità, se non attraverso il limitato spettro costituito dall’omesso esame di un fatto storico decisivo, che è stato oggetto di discussione tra le parti;

che tale evenienza non ricorre nella specie, atteso che Cass., S.U., n. 8053 del 2014 ha affermato il principio per cui “l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”;

che, del resto, questa Corte ha chiarito che “in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la circostanza che la causa di merito sia configurabile come lite temeraria o che la parte abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il diritto all’equa riparazione, costituendo circostanze di abuso del processo e derogando alla regola secondo cui il diritto all’indennizzo è indipendente dall’esito del processo presupposto (L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2), deve essere provata dall’Amministrazione resistente, anche con presunzioni, in modo che possa ritenersi accertata la assoluta consapevolezza dell’infondatezza della pretesa; l’Amministrazione non è tuttavia tenuta a dedurre formalmente le predette circostanze, non trattandosi di eccezione in senso stretto, per la quale la legge richiede espressamente che sia soltanto la parte a rilevare i fatti impeditivi; conseguentemente, se gli elementi rilevanti ai fini della prova di tali circostanze sono stati comunque ritualmente acquisiti al processo o attengono al notorio, gli stessi entrano a far parte del materiale probatorio che il giudice può liberamente valutare” (Cass. n. 8513 del 2010);

che non può neanche ritenersi che sussista un obbligo per il giudice di sottoporre alle parti, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 2, la questione della temerarietà, concorrendo la mancanza di temerarietà a consentire il riconoscimento del diritto all’equa riparazione e quindi essendo liberamente valutabile dal giudice dell’equa riparazione sulla base degli elementi probatori acquisiti al giudizio;

che, per effetto della reiezione del secondo motivo – che in ricorso viene definito comune a tutti i ricorrenti, compresi gli eredi Capozzello -, il primo motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse, in quanto, stante la identità delle posizioni dei ricorrenti in proprio e di C.S., la reiezione del motivo inerente alla pretesa sostanziale estende il suo effetto anche agli credi di quest’ultimo, i quali, dall’accoglimento del primo motivo, non potrebbero ricevere alcun vantaggio, risultando la loro pretesa sostanziale infondata, in quanto identica a quella fatta valere dagli altri ricorrenti;

che priva di fondamento è anche la censura relativa alla condanna alle spese, formulata dai ricorrenti diversi dagli eredi di C.S., atteso che le conclusioni del Ministero dell’economia e delle finanze di totale o parziale compensazione delle spese è chiaramente riferita alla eventualità di mancato accoglimento delle conclusioni formulate in via principale nel senso della reiezione della domanda per la temerarietà del giudizio presupposto: conclusioni che invece, come si è visto, sono state accolte dalla Corte d’appello;

che, in conclusione, il ricorso va rigettato;

che non vi è luogo a provvedere in ordine alle spese del giudizio di cassazione, non avendo la difesa erariale svolto attività difensiva dopo il deposito dell’atto di costituzione;

che, risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Sesta civile – 2 della Corte suprema di cassazione, il 5 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2017

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