Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22952 del 13/09/2019

Cassazione civile sez. II, 13/09/2019, (ud. 03/04/2019, dep. 13/09/2019), n.22952

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21984/2018 proposto da:

C.C., D.M., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA TORTONA, 4, presso lo studio dell’avvocato STEFANO LATELLA, che

li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

CE.AG., S.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 70/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 19/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/04/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato LATELLA Stefano, difensore dei ricorrenti che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Ce.Ag. e S.L. avevano citato in giudizio nel 2001 D.M. e C.C. al fine di ottenere declaratoria di nullità o inefficacia del fondo patrimoniale che i convenuti avevano costituito il 2/9/1996, o, in subordine la revocatoria del negozio in parola.

L’adito Tribunale di Pesaro, oltre a rigettare la domanda attorea, disattese la domanda di risarcimento dei danni, per responsabilità aggravata da lite temeraria, proposta dai convenuti (e ciò non ritenendo il comportamento, consistente nella instaurazione della lite, permeato da dolo o colpa grave) e compensò le spese di lite, in ragione del rigetto sia della domanda attorea che di quella per lite temeraria.

La Corte d’appello di Ancona confermò la sentenza di primo grado con la quale era stata disattesa la domanda di condanna per lite temeraria, che era stata avanzata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 1, dai convenuti D.M. e C.C., condannando costoro alla rifusione delle spese del grado in favore di Ce.Ag. e S.L..

La Corte territoriale rilevò:

– che, avendo i convenuti collegato la loro domanda risarcitoria alla instaurazione del giudizio, l’esistenza del richiesto atteggiamento psicologico, in termini di malafede o colpa grave, andava esclusa, alla luce della circostanza che, al momento della costituzione del fondo patrimoniale, sussisteva comunque una possibile ragione di credito per effetto della proposizione, da parte del Ce. e della S., della domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla esecuzione dei lavori, essendo il giudizio originato dalla stessa ancora pendente a quel momento, e prestandosi la costituzione del fondo patrimoniale, rientrante in una tipologia di atti normalmente utilizzati per neutralizzare pretese creditorie altrui, a giustificare sospetti circa l’intento dei suoi autori di sottrarre i beni alla garanzia dei creditori o, comunque, in ordine alla loro consapevolezza di ledere ragioni creditorie altrui;

– che la domanda di condanna per lite temeraria appariva carente anche in punto di prova del danno.

Avverso la statuizione d’appello ricorrono D.M. e C.C. sulla base di due motivi.

Ce.Ag. e S.L. sono rimasti intimati.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., in riferimento all’art. 96 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

– la disposizione di cui all’art. 96 c.p.c., comma 1, ha “carattere sanzionatorio” e, per contro, la sentenza impugnata ha avallato “la sostanziale impunità della proposizione di domande palesemente infondate, che però sconvolgono la vita di coloro costretti a difendersi da tali attacchi”;

– la decisione si caratterizza, a causa dell’errore interpretazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., per la sua anomala motivazione, tale da doversi giudicare “apparente” e “non condivisibile”;

– l’asserto secondo il quale gli appellanti avevano dedotto, ma non provato il danno non patrimoniale, è erroneo, stante che lo stato di sofferenza “psichica e morale” avrebbe dovuto ritenersi provato ex se.

1.1. La doglianza è destituita di giuridico fondamento.

A voler, per un attimo, glissare sull’insanabile contraddizione insita nella denunzia di motivazione “apparente” (cioè, graficamente insussistente o, comunque, tale da non rendere in alcun modo comprensibile l’asserto argomentativo) e, allo stesso tempo, non condivisibile, risulta evidente che la sentenza gravata ha esposto, e in forma pienamente comprensibile, le ragioni della decisione sul punto.

Spiega, infatti la Corte locale che: a) gli attori avevano fatto derivare il denunziato danno dall’instaurazione della lite e non già dalla trascrizione della domanda giudiziale; b) esso pregiudizio sarebbe consistito nel tempo “dedicato e da dedicare alla presente causa e sottratto alle ordinarie occupazioni”, nonchè nell’apprensione e nello stress derivatone, oltre al discredito presso i terzi.

Il Giudice di secondo grado, con apprezzamento in questa sede incensurabile, ha, in primo luogo, escluso che il Ce. e la S. fossero incorsi in malafede o anche solo in colpa grave; atteggiamento psicologico, che al momento dell’instaurazione del giudizio non sussisteva “alla luce della circostanza che, al momento della costituzione del fondo patrimoniale, sussisteva comunque una possibile ragione di credito in ragione della proposizione della domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla esecuzione dei lavori, essendo il giudizio originato dalla stessa ancora pendente a quel momento, e prestandosi la costituzione del fondo patrimoniale (…) a giustificare sospetti circa l’intento dei suoi autori di sottrarre i beni alla garanzia creditoria”.

La sentenza ha, poi, escluso che il danno fosse stato provato dagli appellanti, gravati dal relativo onere, sia pure con le attenuazioni illustrate nelle sentenze della Corte di cassazione n. 1140/2007 e 9080/2013. Per un verso, conclude la sentenza, il D. e la C. non avevano fatto accompagnare la pretesa da alcun concreto elemento tale da rendere attendibile l’asserto di danno patrimoniale e, per altro verso, appariva irriducibilmente generica “l’allegazione dello stato di stress e di apprensione”. La Corte d’appello di Ancona ha infatti precisato che “nella specie la deduzione del danno conseguito al fatto che i convenuti sarebbero stati costretti, per effetto del giudizio instaurato nei loro confronti, a sottrarre tempo, da dedicare alla causa, alle ordinarie occupazioni (in particolare il D. alla sua attività lavorativa di design nel settore dei mobili) non sono accompagnate da concreti elementi atti a consentire un’attendibile liquidazione del lamentato pregiudizio, così come del tutto generica è l’allegazione dello stato continuo di stress e di apprensione originato dalla pendenza della lite, e ciò anche alla luce delle numerose controversie intercorse tra le parti (aspetto questo desumibile dal contenuto delle difese svolte dagli stessi appellanti)”.

La statuizione della Corte d’appello di Ancora si sottrae alle censure dei ricorrenti.

Per un verso, infatti, in materia di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., ai fini della condanna al risarcimento dei danni, l’accertamento dei requisiti costituiti dall’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità (Cass., Sez. II, 12 gennaio 2010, n. 327; Cass., Sez. III, 29 settembre 2016, n. 19298).

Per l’altro verso, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, con riguardo alla condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 1, è onere della parte che richiede il risarcimento dedurre e dimostrare la concreta ed effettiva esistenza di un danno che sia conseguenza del comportamento processuale della controparte, sicchè il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad identificarne concretamente l’esistenza, desumibili anche da nozioni di comune esperienza e dal pregiudizio che la parte resistente abbia subito per essere stata costretta a contrastare un’iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario (Cass., Sez. I, 4 novembre 2005, n. 21393; Cass., Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902). Si è infatti chiarito che un tema di responsabilità aggravata per lite temeraria, che ha natura extracontrattuale, la domanda di cui all’art. 96 c.p.c., comma 1, richiede pur sempre la prova, incombente sulla parte istante, sia dell’an e sia del quantum debeatur, o comunque postula che, pur essendo la liquidazione effettuabile di ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa (Cass., Sez. Lav., 15 aprile 2013, n. 9080).

Non sussiste, pertanto, la dedotta violazione di legge, non potendosi condividere la ricostruzione in assorbente chiave sanzionatorio repressivo della disposizione in esame, alla quale i ricorrenti correlano una nozione di danno in re ipsa, non previsto dalla legge.

Non interferisce con la superiore osservazione la circostanza che la legge consente al giudice la liquidazione anche d’ufficio del quantum. La disposizione, infatti, diretta ad agevolare e semplificare la determinazione quantitativa del risarcimento, svincola la parte dal rigoroso rispetto dell’onere allegativo, ma non ne autorizza l’ingiusto arricchimento attraverso l’attribuzione di una somma di denaro alla quale non corrisponda alcun danno da risarcire.

2. Con il secondo motivo il ricorso prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92, in riferimento all’art. 96 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

– ingiusta appare agli occhi dei ricorrenti la decisione di compensare le spese a fronte della posizione totalmente vittoriosa dei convenuti, equiparandosi la domanda principale a quella accessoria di condanna per lite temeraria;

– una tale equiparazione trova smentita nella più recente giurisprudenza di legittimità.

2.1. Reputa il Collegio che la censura meriti di essere accolta.

Sulla questione sollevata con il motivo si confrontano due indirizzi.

Secondo un primo indirizzo, che ha trovato consacrazione in Cass., Sez. VI-2, 14 ottobre 2016, n. 20838, il rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c., malgrado l’accoglimento di quella principale proposta dalla stessa parte, configura un’ipotesi di soccombenza reciproca idonea a giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c., atteso che, in applicazione del principio di causalità, sono imputabili a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per aver resistito a pretese fondate o per aver avanzato istanze infondate.

Altro e successivo orientamento di legittimità ha espresso il principio secondo il quale il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, nè in primo grado nè in appello, sicchè non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c. (Cass., Sez. VI-3, 12 aprile 2017, n. 9532).

Questa seconda opzione interpretativa risulta essere stata condivisa, sulla base di un incisivo ordito motivazionale, da una successiva decisione (Cass., Sez. VI-3, 15 maggio 2018, n. 11792). La Corte, dopo aver dato atto di volersi confrontare con il primo orientamento, propende per la seconda opzione interpretativa, “stante la natura meramente accessoria della domanda ex art. 96 c.p.c., rispetto all’effettivo tema di lite cui va rapportata la verifica della soccombenza (domanda che presuppone, quale condizione necessaria – anche se non sufficiente – per il suo accoglimento, proprio il riconoscimento della soccombenza integrale della parte cui si attribuisce l’illecito processuale), nel caso – come quello all’esame – di rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c., proposta dagli appellati e di rigetto dell’appello (con conseguente conferma del rigetto della domanda proposta in primo grado dagli appellanti) non dà luogo ad una ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonea a determinare la soccombenza reciproca sulla quale il Tribunale ha fondato la compensazione delle spese di lite di secondo grado”.

Il Collegio reputa doversi dare continuità a questo secondo indirizzo, del quale condivide la struttura argomentativa portante.

A voler completare la delineazione del quadro pare utile precisare che il dato dirimente è rappresentato non tanto dalla natura dell’istanza, che si traduce, per forza di cose, in una domanda, pur indubbiamente accessoria, quanto nella testuale condizione necessaria della riconosciuta integrale soccombenza del preteso litigante temerario.

L’ostacolo alla tesi opposta non si rinviene nella dedotta mancanza di contrapposizione delle domande (tutte le domande che le parti si rivolgono contro sono contrapposte per forza di cose, non essendo richiesto che siano simmetriche), ma nell’accessorietà della domanda per lite temeraria, la quale, come puntualmente osservato, presuppone che la controparte risulti integralmente soccombente.

D’altra parte, non dovrebbero sorgere ostacoli ad una condanna ai sensi dell’art. 92, seconda parte, c.p.c., a carico dell’istante per responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., ove, a sua volta, abbia trasgredito al dovere di cui all’art. 88 c.p.c..

Ha pertanto errato la Corte d’appello a confermare la compensazione delle spese processuali disposta dal Tribunale, sul presupposto – qui disatteso – che il rigetto della domanda di condanna per lite temeraria proposta dai convenuti totalmente vittoriosi sul merito della lite determinasse una loro soccombenza reciproca.

3. In ragione di quanto esposto la sentenza deve essere cassata con rinvio in relazione all’accolto motivo, rimettendosi al Giudice del rinvio il regolamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

accoglie il secondo motivo, rigetta il primo; cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2019

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