Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22950 del 21/10/2020

Cassazione civile sez. I, 21/10/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 21/10/2020), n.22950

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9592/2019 proposto da:

C.B., difeso e rappresentato dall’avv. Tartini Francesco,

elettivamente domiciliato in Roma Via Del Casale Strozzi, 32, presso

lo studio dell’avvocato Barberio;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, depositato il

21/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/06/2020 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Venezia, con decreto depositato in data 21.2.2019, ha rigettato la domanda di C.B., cittadino del (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.

E’ stato, in primo luogo, ritenuto che difettassero in capo al ricorrente i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, essendo le sue dichiarazioni state ritenute non credibili (il ricorrente aveva riferito di essersi allontanato dal paese d’origine per il timore di essere ucciso dal gruppo religioso (OMISSIS) che, in sua presenza, aveva già assassinato il proprio padre a causa della richiesta di quest’ultimo di restituzione di una somma che aveva prestato allo stesso gruppo).

Inoltre, con riferimento alla richiesta di protezione sussidiaria, il giudice di merito ha evidenziato l’insussistenza del pericolo per il ricorrente di essere esposto a grave danno in caso di ritorno nel suo paese di provenienza.

Infine, il ricorrente non è stato comunque ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari, non essendo stata allegata una sua specifica situazione di vulnerabilità personale.

Ha proposto ricorso per cassazione C.B. affidandolo a sette motivi.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente ha preliminarmente sollevato l’eccezione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, comma 13, come modificato dal D.L. n. 13 del 2017, art. 6, in relazione all’art. 14 CEDU, art. 21 della Carta di Nizza e all’art. 117 Cost. (che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali) con riferimento alla soppressione come mezzo di impugnazione dell’appello. Ha, inoltre, lamentato la violazione da parte dell’art. 35 bis, comma 13 cit., dell’art. 77 Cost., per difetto dei requisiti della straordinaria necessità ed urgenza.

2. La sollevata questione di legittimità costituzionale è infondata sotto entrambi i profili.

Quanto alla soppressione del grado d’appello, va preliminarmente osservato che questa Corte, con ordinanza n. 27700 del 30/10/2018 (conf. ord. n. 28119 del 05/11/2018) – la cui esaustiva motivazione deve essere richiamata integralmente – ha già statuito che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, che è stata sollevata per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, artt. 24 e 111 Cost.. E’ stata evidenziata, sul punto, la necessità di soddisfare esigenze di celerità, che non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado e che il procedimento giurisdizionale è preceduto da una fase amministrativa che si svolge davanti alle commissioni territoriali deputate ad acquisire, attraverso il colloquio con l’istante, l’elemento istruttorio centrale ai fini della valutazione della domanda di protezione.

Parimenti infondata è la dedotta violazione, in questa sede, dell’art. 14 CEDU, dell’art. 21 della Carta di Nizza e dell’art. 117 Cost..

In proposito, va preliminarmente osservato che il richiamo del ricorrente all’art. 14 CEDU (come del resto all’art. 21 della Corta di Nizza) è verosimilmente il frutto di un errore materiale, atteso che le norme in oggetto sanciscono il divieto di discriminazione (tema estraneo a quello oggetto della doglianza). Verosimilmente, il ricorrente intendeva far riferimento, quantomeno con riferimento alla CEDU, agli artt. 6 e 13, che disciplinano l’accesso alla giustizia, sancendo rispettivamente il diritto all’equo processo e ad un ricorso effettivo.

Orbene, va osservato che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, con riferimento al procedimento civile, ha sempre negato che l’art. 6 o l’art. 13 CEDU possano essere considerati come parametri per invocare un secondo grado di giurisdizione (vedi sul punto, Corte EDU 17.1.1970, Delcourt c. Belgio, Recueil Serie A,11 S25 e Corte EDU, 5 luglio 2016, A.M. c Paesi Bassi, CE:ECHR:2016:0705JUD002909409, punto 70).

A diverse conclusioni si deve, invece, pervenire allorquando la procedura assuma il carattere “penale”, atteso che in questo caso il diritto all’appello, ovvero ad un secondo grado di giurisdizione, trova la propria fonte nell’art. 2 del Protocollo n. 7 CEDU, che accorda al condannato il “diritto ad un doppio grado del giudizio in materia penale”.

Infine, manifestamente infondata è la dedotta violazione dell’art. 117 Cost., atteso che sia la legislazione comunitaria, sia l’interpretazione che di essa ha fatto la Corte di Giustizia UE (vedi recentemente sentenze CJEU del 26 settembre 2018 nei procedimenti C-175/17 e C-180/17) non hanno affatto riconosciuto il diritto del richiedente la protezione ad un secondo grado di giudizio.

In proposito, nell’ultima sentenza sopra citata, ai punti 24 e 25, la Corte di Giustizia EU ha evidenziato che dalle direttive 2013/32 e 2008/115 (e, segnatamente, dai loro “considerando”) non è dato evincere un obbligo degli Stati membri di istituire il grado d’appello. In particolare, per quanto riguarda la direttiva 2013/32, è stato osservato che “l’obbligo di effettività del ricorso si riferisce espressamente, come risulta dall’art. 46, paragrafo 3, ai “procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado”. Tale obbligo, richiedendo l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, si riferisce unicamente allo svolgimento del procedimento giurisdizionale di primo grado. Di conseguenza, tale obbligo non può, alla luce dell’obiettivo di detta direttiva, essere interpretato nel senso che impone agli Stati membri di istituire un secondo grado di giudizio, nè di prevedere una determina modalità di svolgimento del medesimo”.

L’eccezione di illegittimità costituzionale è manifestamente infondata anche con riferimento al dedotto difetto dei requisiti della necessità ed urgenza. In proposito, questa Corte ha già statuito che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, conv. con modifiche in L. n. 46 del 2017, poichè la disposizione transitoria – che differisce di 180 giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito – è connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale per consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime. (Cass. n. 17717 del 05/07/2018).

3. Con il primo motivo è stata censurata la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Lamenta il ricorrente la natura meramente apparente della motivazione con cui il Tribunale di Venezia ha valutato il suo racconto non credibile, non essendo stata la sua vicenda personale considerata nella sua interezza anche alla luce delle spiegazioni e precisazioni dallo stesso fornite in sede di audizione innanzi alla Commissione Territoriale.

Il primo motivo è inammissibile.

Va, in primo luogo, osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. n. 3340 del 05/02/2019).

Nel caso di specie, la motivazione del Tribunale soddisfa il requisito del “minimo costituzionale”, secondo i principi di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 8053/2014), essendo state indicate in modo dettagliato le ragioni per le quali il richiedente non è stato ritenuto credibile (contraddittorietà tra le informazioni fornite dal richiedente nel modulo C 3 e le dichiarazioni rese innanzi alla Commissione Territoriale in ordine al periodo in cui ha vissuto in Senegal e poi è tornato in Mali; la circostanza che la moglie ed il figlio del ricorrente, rimasti nel proprio villaggio in (OMISSIS), non abbiano ricevuto alcuna minaccia; la non plausibilità delle finalità e modalità del suo sequestro da parte del gruppo religioso e delle stesse modalità della sua fuga; le risposte evasive fornite sul gruppo religioso dei (OMISSIS) nonostante che, a suo dire, avesse frequentato la scuola coranica fino a vent’anni).

Il ricorrente si è limitato a contestare nel merito i summenzionati rilievi del giudice di merito, invocando la verosimiglianza dei suo racconto, senza neppure allegare la eventuale grave anomalia motivazionale del decreto impugnato, come detto, unico vizio attualmente censurabile in Cassazione.

4. Con il secondo ed il terzo motivo, illustrati unitariamente, il ricorrente ha rispettivamente dedotto la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonchè la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27, comma 1 bis.

Lamenta il ricorrente, in primo luogo, che il Tribunale di Venezia ha omesso l’esame di un fatto decisivo, quale la presenza di un gruppo di guerriglieri islamici nei pressi del suo villaggio e la loro pretesa di imporre i propri usi e costumi alla popolazione locale.

Si duole, inoltre, che il giudice di merito è venuto meno al proprio dovere di collaborazione nell’accertamento dei fatti dallo stesso allegati.

5. I suesposti motivi presentano profili di inammissibilità ed infondatezza.

Va, in primo luogo, osservato l’evidente difetto di decisività del fatto di cui il ricorrente lamenta l’omessa valutazione. In primo luogo, il Tribunale di Venezia non ha affatto affermato di ritenere non credibile la stessa esistenza di un gruppo dei guerriglieri (OMISSIS) nei pressi del villaggio del ricorrente, ma solo che quest’ultimo sarebbe stato minacciato e addirittura sequestrato da tali guerriglieri. In ogni caso, anche ammettendo che il giudice di merito avesse messo in dubbio la stessa esistenza del gruppo religioso in questione, l’eventuale positiva valutazione, o comunque il successivo accertamento di tale circostanza fattuale non sarebbe stata comunque idonea ad invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia degli altri elementi (sopra evidenziati) che hanno determinato il convincimento del giudice di merito in ordine al giudizio di non credibilità del ricorrente.

6. Con il quarto ed il quinto motivo, parimenti illustrati unitariamente, il ricorrente ha censurato rispettivamente la mera apparenza della motivazione del provvedimento impugnato e l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), nella parte in cui è stata rigettata la domanda di concessione di tale fattispecie di protezione sussidiaria.

Evidenzia il ricorrente che il Tribunale, nonostante abbia dato atto della sussistenza di una situazione di pericolo generalizzato in Mali, ha erroneamente argomentato il rigetto della richiesta di protezione ex art. 14, lett. c) legge cit., in ragione dell’asserita non credibilità del suo racconto e del difetto del profilo individualizzante del pericolo, requisito quest’ultimo non richiesto per tale tipologia di protezione sussidiaria.

7. I suesposti motivi sono inammissibili.

Va preliminarmente osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, deve essere interpretata, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), nel senso che il grado di violenza indiscriminata deve avere raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 13858 del 31/05/2018, Rv. 648790).

Nel caso di specie, il giudice di merito ha accertato, alla luce di una fonte internazionale qualificata (Human Rights, World Report 2017), l’insussistenza di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato nella regione meridionale del Mali ove risiedeva il ricorrente. In particolare, con riferimento a questa zona, ha evidenziato che la stessa è stata caratterizzata soltanto da attacchi asimmetrici e rapimenti sporadici che hanno come destinatari non un qualunque civile cittadino del Mali, ma forze di difesa nazionali ed internazionali e cittadini occidentali.

L’esposto accertamento del Tribunale di Venezia costituisce apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità, se non a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. del 12/12/2018 n. 32064).

Ne consegue che le censure del ricorrente sul punto si configurino come di merito, e, come tali inammissibili in sede di legittimità, essendo finalizzate a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio già esaminato dal Tribunale di Venezia e ad accreditare una diversa ricostruzione dei fatti.

Nè rileva la circostanza che il Tribunale di Venezia, nel proprio percorso motivazionale, per negare la protezione sussidiaria in relazione alla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), abbia fatto erroneamente riferimento alla genericità e non credibilità delle dichiarazioni del ricorrente ed al difetto della minaccia di un pericolo individuale – elementi che rilevano effettivamente solo per le diverse fattispecie di cui all’art. 14, lett. a) e b) – atteso che, alla luce di quanto già sopra evidenziato, lo stesso giudice di merito ha comunque effettuato l’accertamento concernente la situazione generale del paese, verificando in concreto l’insussistenza di una situazione di violenza generalizzata derivante da conflitto armato, secondo i parametri sopra indicati della giurisprudenza comunitaria.

8. Con il sesto ed il settimo motivo, parimenti illustrati unitariamente, il ricorrente ha censurato rispettivamente l’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti e l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria.

Lamenta il ricorrente che la motivazione impugnata ha omesso di esaminare i singoli presupposti di vulnerabilità indicati in ricorso, e, segnatamente, quello relativo alla leva obbligatoria ed alla dedotta possibilità di essere spedito al fronte, lo stato di insicurezza interna in cui versa il Mali, oltre all’omessa valutazione dell’integrazione sociale del ricorrente nel paese di accoglienza.

9. I predetti motivi sono inammissibili.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha già affermato che pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità del richiedente, dalla situazione oggettiva del paese d’origine, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale, atteso che, diversamente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini sez. 1 n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, il ricorrente ha genericamente fatto riferimento alla situazione di insicurezza interna del paese d’origine senza correlare tale affermazione alla propria condizione personale, se non con riferimento alla vicenda, riguardante le minacce ed il sequestro di persona subiti dal gruppo religioso (OMISSIS), ritenuta non credibile dal Tribunale di Venezia.

Inoltre, il richiedente si duole che non si è tenuto conto del suo percorso di integrazione, non considerando che tale elemento, secondo il costante insegnamento di questa Corte, può essere sì considerato in una valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza della situazione di vulnerabilità, ma non può, tuttavia, da solo esaurirne il contenuto (vedi Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Infine, posto che nel provvedimento impugnato non vi è traccia della questione relativa alla leva obbligatoria ed al pericolo di essere inviato al fronte, è principio consolidato di questa Corte che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado del giudizio, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., 17/01/2018, n. 907; Cass., 09/07/2013, n. 17041). Ne consegue che, ove nel ricorso per cassazione siano prospettate questioni non esaminate dal giudice di merito, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, nonchè il luogo e modo di deduzione, onde consentire alla S.C. di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass., 13/06/2018, n. 15430).

Nel caso di specie, il ricorrente non ha adempiuto a tale onere di allegazione, non avendo neppure dedotto di aver prospettato tale tema d’indagine innanzi al Tribunale di Venezia.

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non essendosi il Ministero dell’Interno costituito in giudizio.

PQM

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020

 

 

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