Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22906 del 04/11/2011

Cassazione civile sez. I, 04/11/2011, (ud. 12/07/2011, dep. 04/11/2011), n.22906

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

PROVINCIA DI VITERBO (c.f. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA C.

FRACASSINI 18, presso l’avvocato VENETTONI ROBERTO, rappresentata e

difesa dall’avvocato STRINGOLA MARIA TERESA, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

CO.SE.PO. SOC. COOP. A R.L. IN LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA

(c.f. (OMISSIS)), in persona del Commissario Liquidatore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, C.NE CLODIA 169, presso

l’avvocato BENIGNI PIER GIORGIO, che la rappresenta e difende, giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2938/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 21/06/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/07/2011 dal Consigliere Dott. MAGDA CRISTIANO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

per quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Provincia di Viterbo propose opposizione al decreto ingiuntivo 3.7.97 emesso dal Pretore, con il quale la CO. SE. PO. soc. coop. a r.l. le aveva intimato) il pagamento della somma di L. 14.125.300 a titolo di corrispettivo di servizi di pulizia eseguiti nei locali di una scuola. Il giudice adito, rilevato che difettava la richiesta forma scritta ad substantiam del contratto, revocò il decreto, ma, in accoglimento della domanda svolta in via riconvenzionale dalla CO.SE.PO. nella comparsa di costituzione e risposta, condannò la Provincia al pagamento della somma ingiunta a titolo di indebito arricchimento, mentre rigettò la domanda di garanzia svolta dalla creditrice nei confronti del Presidente della giunta provinciale, chiamato in causa ai sensi del D.L. n. 66 del 1989, art. 23 convertito nella L. n. 144 del 1989.

L’appello proposto dalla Provincia contro la decisione fu respinto dalla Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 21.6.04. A sostegno della pronuncia la Corte di merito rilevò: che l’errato nomen iuris attribuito alla domanda riconvenzionale svolta in via subordinata dalla CO.SE.PO. (a cui conforto la società, nel frattempo posta in liquidazione coatta amministrativa, aveva invocato l’art. 2033 anzichè l’art. 2041 c.c.) – non impediva al giudice di darvi esatta qualificazione; che la richiesta di ottenere il pagamento della somma ingiunta a titolo di indebito arricchimento, senza imputazione o alterazione del fatto costitutivo del diritto, non integrava una mutatio libelli, ma una semplice emendatio, come tale pienamente ammissibile; che le risultanze istruttorie, e le stesse argomentazioni difensive dell’amministrazione provinciale, provavano incontestabilmente l’avvenuta prestazione dei servizi di pulizia e di disinfestazione dei locali della scuola, dei quali l’appellante aveva implicitamente riconosciuto l’utilità, per non aver ordinato analoghi servizi in data successiva, e si era pertanto avvantaggiata;

che, infine, non ricorreva violazione del disposto della L. n. 144 del 1989, in quanto la Provincia non aveva individuato, secondo quanto imposto dal dettato normativo, l’amministratore o il funzionario che aveva consentito l’effettuazione della prestazione.

La Provincia di Viterbo ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a sei motivi. La CO.SE.PO. coop. a r.l. in liquidazione coatta amministrativa ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo di ricorso, la Provincia di Viterbo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Rileva che il giudice, nell’esercitare il proprio potere/dovere di qualificazione dei fatti, non può sostituire d’ufficio l’azione espressamente proposta con altra fondata su diversa causa petendi e che la peculiarità dell’azione di cui all’art. 2041 c.c. esclude che la stessa possa ritenersi implicitamente formulata in una domanda fondata su un titolo diverso, come quella di ripetizione di indebito avanzata in via riconvenzionale dalla CO.SE.PO. Il motivo va dichiarato inammissibile.

In sede di legittimità occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su una domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa: solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un “error in procedendo”, in relazione al quale la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini delle pronuncia richiestale;

nel caso in cui venga invece in considerazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tale attività implica un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice del merito, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (fra molte, Cass. nn. 3349/010, 20373/09, 24742/07).

Nel caso di specie, il giudice dell’appello ha chiaramente affermato che la domanda svolta dalla cooperativa, ad onta dell’errato nomen iuris attribuitole dalla parte, andava interpretata e qualificata come domanda di indebito arricchimento.

Ne consegue che la ricorrente avrebbe dovuto censurare la decisione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Nè la doglianza, ancorchè erroneamente prospettata in relazione al n. 4 dell’articolo appena citato, può essere apprezzata sotto tale diverso profilo, posto che la ricorrente non solo non ha trascritto nel motivo, così come avrebbe dovuto in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, l’esatto tenore della domanda formulata dalla CO.SE.PO. in via riconvenzionale e le argomentazioni difensive che la sorreggono, ma neppure ha indicato quali sarebbero i vizi che inficiano l’accertamento di merito compiuto dalla Corte territoriale in ordine al suo effettivo contenuto.

2) Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, sotto il profilo dell’error in procedendo, violazione degli artt. 645, 167, 183 e 184 c.p.c. nonchè del principio del contraddittorio. Osserva che nell’ordinario giudizio di cognizione introdotto dall’opposizione a decreto ingiuntivo è solo l’opponente, nella sua sostanziale posizione di convenuto, che può proporre domande riconvenzionali e non anche l’opposto, che diversamente incorrerebbe nel divieto di proporre domande nuove, salvo il caso, non ricorrente nella specie, in cui quest’ultimo, per effetto di una riconvenzionale della controparte, non venga a trovarsi nella posizione processuale di convenuto. La censura è fondata.

La questione prospettata dalla ricorrente è stata infatti di recente affrontata e risolta con la sentenza n. 26128/010 delle Sezioni Unite di questa Corte, che – dopo aver evidenziato che le domande di adempimento contrattuale e di arricchimento senza causa, quali azioni che riguardano entrambe diritti eterodeterminati, si differenziano, strutturalmente e tipologicamente, sia quanto alla “causa petendi” (esclusivamente nella seconda rilevando, come fatti costitutivi, la presenza e l’entità del proprio impoverimento e dell’altrui locupletazione, nonchè, ove l’arricchito sia una p.a., il riconoscimento dell’utilitas da parte dell’ente), sia quanto al “petitum” (pagamento del corrispettivo pattuito o indennizzo) hanno affermato il principio che, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo – al quale si devono applicare le norme del rito ordinario, ai sensi dell’art. 645 c.p.c., comma 2, e, dunque, anche l’art. 183 c.p.c., comma 5, come sostituito dalla L n. 80 del 2005, art. 2, lett. c. (il cui testo coincide col precedente comma 4 del medesimo articolo, applicabile ratione temporis al caso di specie) – la domanda di cui all’art. 2041 c.c. avanzata con la comparsa di costituzione e risposta dall’opposto, che riveste la posizione sostanziale di attore, è ammissibile solo qualora l’opponente abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione, un ulteriore tema di indagine, tale da poter giustificare l’esame di una situazione di arricchimento senza causa, e non quando, come è accaduto nel caso di specie, l’amministrazione ingiunta si sia limitata a negare l’esistenza o la validità del titolo contrattuale sul quale si fonda la domanda monitoria.

La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, questa Corte può decidere nel merito ed, in accoglimento dell’appello, dichiarare inammissibile la domanda di arricchimento senza causa svolta dalla CO.SE.PO. in l.c.a. Restano assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso. Le spese dei tre gradi del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte: accoglie il secondo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie l’appello e dichiara inammissibile la domanda di arricchimento senza causa proposta da CO.SE.PO. soc. coop. a r.l. in LCA nei confronti della Provincia di Viterbo; condanna la CO.SE.PO. soc. coop. a r.l. in LCA al pagamento in favore della ricorrente delle spese dei tre gradi del giudizio, che liquida: per il primo grado, in Euro 500,00 per onorari, Euro 250,00 per diritti ed Euro 50,00 per esborsi; per il secondo grado in Euro 800,00 per onorari, Euro 500,00 per diritti ed Euro 100,00 per esborsi; per il presente grado, in Euro 650,00 per onorari ed Euro 100,00 per esborsi; oltre, per tutti i gradi, spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 13 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2011

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