Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22882 del 10/11/2016


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Cassazione civile sez. III, 10/11/2016, (ud. 12/04/2016, dep. 10/11/2016), n.22882

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24930/2013 proposto da:

CASA DI CURA MARIA BEATRICE HOSPITAL SRL (OMISSIS), in persona del

Rag. S.E., elettivamente domiciliata in ROMA,

CIRCONVALLAZIONE CLODIA 86 PIANO 1 INT 5, presso lo studio

dell’avvocato ROBERTO MARTIRE, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato UMBERTO ICOLARI giusta procura speciale in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

T.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO

FELICE, 89, presso lo studio dell’avvocato TIZIANO MARIANI,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO PANNI giusta procura

speciale in calce al controricorso;

F.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO FELICE,

89, presso lo studio dell’avvocato TIZIANO MARIANI, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIANPIERO SAMORI’ giusta procura speciale in

calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3028/2012 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata

il 18/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/04/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato ROBERTO MARTIRE;

udito l’Avvocato MASSIMILIANO CARBONE per delega;

udito l’Avvocato LEONARDO BRASCA per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

TOMMASO BASILE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI

Nell’agosto del 2012 il Tribunale di Firenze dichiarò l’infondatezza dell’azione di responsabilità proposta dalla Casa di cura Maria Beatrice Hospital nei confronti degli avvocati F. e T., ritenendoli non imputabili della pur lamentata illegittimità degli atti di una procedura di licenziamento collettivo adottata dall’attrice su loro suggerimento, in mancanza di prova della attribuibilità ai predetti convenuti della condotta generatrice del lamentato evento di danno.

La corte di appello di Firenze, investita dell’impugnazione proposta dalla Casa di cura, la ritenne inammissibile ex art. 348 ter c.p.c..

Per la cassazione della sentenza del Tribunale l’appellante ha proposto ricorso sulla base di 3 motivi di censura illustrati da memoria.

Resistono con controricorso entrambi i professionisti.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

La decisione ordinatoria della Corte di appello fiorentina appare correttamente adottata.

Il ricorso risulta, difatti, manifestamente infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c., art. 2909 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Il motivo è privo di pregio.

Parte ricorrente impugna il capo di sentenza di primo grado nel quale viene accertata e affermata, con apprezzamento di fatto esente da vizi logico-giuridici, la sostanziale estraneità dei professionisti convenuti alla gestione della fase amministrativa e sindacale che fu premessa della successiva collocazione in mobilità dei lavoratori, individuando nella (successiva) epoca della predisposizione delle lettere di licenziamento l’intervento dell’avv. F., ed alla (ancora successiva) epoca della predisposizione di una missiva integrativa quello dell’avv. T..

In disparte la assai poco comprensibile (e nella specie del tutto impredicabile) doglianza di violazione di un giudicato costituito dalla pronuncia resa dal giudice del lavoro nell’ambito del giudizio sui licenziamenti, la censura si infrange sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto:

da un canto, che la datrice di lavoro fosse stata assistita da altri professionisti, e che l’intervento degli odierni intimati, alla luce di una complessiva valutazione delle emergenze probatorie, fosse stato soltanto funzionale a rendere compatibile il licenziamento con i criteri di scelta determinati ex lege (in sede di esame del complesso coacervo probatorio, viene, in proposito, argomentatamente ritenuta non attendibile la deposizione, dissonante rispetto alle conclusioni raggiunte in sentenza, del teste R., legale rappresentante della Casa di cura);

dall’altro, che, pur “ammessa contro ogni evidenza” la predicabilità di un concorso morale o materiale dei due professionisti nella determinazione del lamentato evento di danno, sarebbe comunque stata da escludere la configurabilità di un inadempimento colpevole, volta che la procedura di licenziamento collettivo venne ritenuta legittima addirittura in una duplice sede giudiziaria (tanto primo quanto secondo grado del giudizio), prima dell’intervento correttivo della Corte di legittimità – giunta, peraltro, all’esito di una elaborazione giurisprudenziale assai controversa, a fronte di una novella normativa a sua volta pregna di innegabile ambiguità.

La motivazione, caratterizzata da completezza e condivisa logicità, si sottrae tout court alle critiche ad essa mosse dalla ricorrente.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1176 e 2236 c.c., L. n. 223 del 1991, artt. 4, 5, 24; artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Il motivo è infondato.

Appare del tutto impredicabile la pretesa violazione da omissione di pronuncia in cui sarebbe incorso il Tribunale toscano, che, diversamente da quanto opinato dall’odierna ricorrente, non ha omesso tout court di considerare che le lettere di licenziamento erano state ritenute invalide, nel relativo giudizio lavoristico, per ragioni non soltanto formali (i.e. il mancato rispetto del principio di contestualità nell’individuazione dei criteri di scelta dei licenziandi) ma anche sostanziali (inadeguatezza in fatto dei criteri in concreto suggeriti e adottati): ma ha di converso osservato, con motivazione scevra da vizi logico-giuridici, come l’attrice non avesse mosso specifiche censure all’operato dei convenuti, nè si fosse data pena di indicare specificamente la condotta (in ipotesi corretta) dovuta al fine di conformare la scelta dei licenziandi al dettato normativo.

La motivazione del giudice fiorentino il cui compito di interpretare e valutare quoad effecta la domanda giudiziale resta a lui demandato in via esclusiva, non è in alcun modo censurabile in questa sede è del tutto conforme alla costante giurisprudenza di questa Corte in ordine al riparto degli oneri probatori nelle vicende di responsabilità professionale giurisprudenza che appare correttamente e condivisibilmente applicata nella sentenza impugnata.

Costituisce, difatti, ius receptum presso questa Corte regolatrice il principio secondo il quale la responsabilità dell’avvocato non può dirsi esistente, e conseguentemente affermarsi, in presenza di un semplice errore (od omissione), stante la necessità di dimostrare, da parte del cliente, la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza di quella condotta asseritamente colpevole: la sentenza impugnata, sia pur implicitamente, appare perfettamente orientata da tali principi, avendo correttamente valutato, altrettanto correttamente giudicando, in ordine agli oneri di allegazione e prova gravanti sull’attrice.

Anche il motivo in esame risulta, pertanto, irrimediabilmente destinato ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice toscano dianzi descritto, dacchè esso, pur formalmente abbigliato in veste di denuncia di una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e di una (affatto impredicabile) omissione di pronuncia, si risolve, nella sostanza, nella (sicuramente inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito, volgendo piuttosto il reale intento della ricorrente all’invocazione di una diversa lettura delle risultanze procedimentali, onde sollecitare dinanzi a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso del giudizio di merito. E così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, nuovo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai accertato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di merito – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili in sede di giudizio di legittimità.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.

Il motivo è del tutto inammissibile, impinguendo in valutazioni relative ai mezzi di prova riservate istituzionalmente al giudice di merito, che, nella specie, ha fatto buon governo dei relativi principi.

Il ricorso è pertanto rigettato.

Le spese del giudizio di Cassazione seguono il principio della soccombenza.

Liquidazione come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 15.200, di cui 200 per spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il controricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2016

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