Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2288 del 03/02/2014


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Civile Ord. Sez. U Num. 2288 Anno 2014
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: NOBILE VITTORIO

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 15044-2012 proposto da:
VARANO

SANDRO, DALMEEE ROBERTO, /ACOVELLA MARIO, VALERT

ANNA MARIA, VALERI IVANA, PIAZZA GIOVANNI,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DORA 1, presso
2013

lo studio dell’avvocato CERULLI IRELLI VINCENZO, che li

669

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROSARIO
SICILIANO, per delega a margine del ricorso;
– ricorrenti contro

Data pubblicazione: 03/02/2014

SEGRETARIATO

GENERALE

DELLA

PRESIDENZA

DELLA

REPUBBLICA, in persona del legale rappresentante protempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

avverso la decisione n. 2/2012 del COLLEGIO DI APPELLO
istituito con Decreto presidenziale 30/12/2008 n. 34/N
di ROMA, depositata il 17/04/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 17/12/2013 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
uditi gli avvocati Vincenzo CERULLI IRELLI, Filippo
BUCALO dell’Avvocatura Generale dello Stato;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott.
UMBERTO APICE, che ha concluso per l’inammissibilità
del ricorso.

– controricorrente

R.G. 15044/2012
ORDINANZA

9Au

Con ricorso del 26-11-2010 gli odierni ricorrenti, in epigrafe indicati
unitamente ad altri 55 dipendenti del Segretariato generale della Presidenza

delle somme maturate a titolo di indennità perequativa e di indennità di
comando, non più corrisposte dal Segretariato a far data dal loro
inquadramento nei ruoli, avvenuto in data 1-12-2005 (ai sensi del d.P.R. n.
74/N del 18-10-2005, al livello iniziale delle rispettive carriere di appartenenza,
senza il riconoscimento dell’anzianità già maturata e con la soppressione delle
dette indennità), con la condanna dell’amministrazione al pagamento delle
somme quantificate in ricorso per il periodo dal 1-12-2005 al 1-12-2010, oltre
rivalutazione e interessi.
Il Collegio Giudicante di primo grado, con decisione n. 3/2011, respingeva
il ricorso.
Gli odierni ricorrenti proponevano appello avverso la detta decisione
deducendo, tra l’altro, la violazione dei principi costituzionali di uguaglianza,
imparzialità, buon andamento e parità di trattamento economico dei pubblici
dipendenti, non essendo stata calcolata, al momento dell’inquadramento,
l’anzianità maturata, con irrazionale disparità nei confronti dei colleghi già
inquadrati in ruolo, nonché la violazione, nel contempo, dell’art. 20 della Carta
dei diritti fondamentali della UE (chiedendo a tale ultimo proposito la
sospensione del giudizio con la rimessione degli atti alla Corte di Giustizia
UE).
Il Segretariato generale resisteva al gravame chiedendone il rigetto.
1

della Repubblica, chiedevano il riconoscimento del diritto alla corresponsione

Il Collegio d’Appello, con decisione depositata il 17-4-2012, ha rigettato
l’appello e compensato le spese.
In particolare, il detto Collegio ha affermato la piena applicabilità nella
fattispecie della norma speciale di cui all’art. 28, comma 2, del Regolamento

retribuzione principale percepita dal dipendente prima del passaggio in ruolo,
con esclusione, quindi, delle indennità accessorie.
“In ogni caso” il Collegio ha altresì rilevato che “anche qualora si volesse
ritenere applicabile la normativa generale sugli impiegati civili dello Stato non
potrebbe pervenirsi a diversa soluzione”.
Il Collegio ha poi escluso che nella specie possa parlarsi di ingiusta
sperequazione sia con riferimento al precedente trattamento goduto nel periodo
di comando, sia con riferimento ai colleghi già in ruolo di pari qualifica e,
parimenti per la inesistenza di situazioni oggettivamente discriminatorie, ha
affermato che non ricorrono i presupposti per l’accoglimento della richiesta di
sospensione del giudizio con rimessione degli atti alla Corte di Giustizia UE.
Per la cassazione di tale decisione i dipendenti in epigrafe indicati hanno
proposto ricorso con due motivi (violazione degli artt. 202 d.P.R. 3/57 e 28 del
Regolamento sullo stato giuridico e sul trattamento economico del personale
del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica; violazione dei
principi costituzionali di cui agli artt. 3, 36, 97 Cost. e del principio di parità di
trattamento economico nelle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 45 d.lgs.
n. 165/2001) preceduti da un premessa sulla ammissibilità del ricorso.
Il Segretariato generale ha resistito con controricorso, deducendo la
inammissibilità e, comunque, la infondatezza del ricorso.
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del personale del Segretariato generale che prevede la salvaguardia della sola

Infine sia i ricorrenti sia il Segretariato generale hanno depositato memoria
ex art. 378 c.p.c..
Preliminarmente va rilevato che, con la citata premessa, partendo dal

mal

principio affermato da queste Sezioni Unite con la ordinanza del 17-3-2010 n.

mediante regolamento, alla propria cognizione interna le controversie in
materia di impiego del personale ha fondamento costituzionale indiretto, ed è
stato esercitato – mediante i regolamenti emanati con i d.P.R. 24 luglio e 9
ottobre del 1996 – in modo da assicurare la precostituzione, l’imparzialità e
l’indipendenza dei collegi, previsti per la risoluzione delle suddette
controversie, quali condizioni che presidiano l’esercizio della giurisdizione
ordinaria, secondo i principi fissati dalla Costituzione e dalla Convenzione
Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
fondamentali”), i ricorrenti – richiamata anche la giurisprudenza della Corte di
Giustizia sui requisiti che gli organi nazionali devono possedere per poter
essere considerati quali “giurisdizione” ai fini del rinvio pregiudiziale alla
stessa Corte – rilevano che i Collegi giudicanti della Presidenza della
Repubblica sono senz’altro ascrivibili alla nozione comunitaria di
“giurisdizione”, presentando tutti i caratteri all’uopo necessari.
Alla luce, quindi, di tale configurazione i ricorrenti sostengono che diventa
ormai “ineludibile la ricorribilità in Cassazione contro le decisioni definitive di
detti organi, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost”, in base ad una
interpretazione “sostanzialistica” della detta norma costituzionale.
Al riguardo, pur non ignorando l’indirizzo contrario di questo Supremo
Collegio (che con la citata ordinanza n. 6529/2010, in sede di regolamento
3

6529 (in base al quale “il potere della Presidenza della Repubblica di riservare,

preventivo di giurisdizione proposto nel corso di un giudizio innanzi al TAR,
ha riconosciuto la “effettività e congruità dell’autodichia della Presidenza della
Repubblica” dichiarando sulla controversia in esame la “carenza assoluta di
giurisdizione”, e con altre sentenze, relative ad analoghi organi di tutela

11-2002 n. 16267 e S.U. 10-6-2004 n. 11019 , ha negato la ricorribilità in
Cassazione avverso le pronunce di detti organi, rilevando tra l’altro che detto
rimedio “è precluso dal sistema stesso dell’autodichia” e precisando altresì che
tale sistema non “ha subito effetti innovativi ad opera del nuovo testo dell’art.
111 Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, che – pur senza
estromettere la autodichia dall’area della giurisdizione – non ha comunque
scalfito le garanzie di indipendenza del Parlamento, mantenendo pur sempre
alcune aree di esenzione o di delimitazione del sindacato di legittimità proprio
della Corte di cassazione”, v. Cass. S.U. n. 11019/2004 cit.), i ricorrenti
rilevano che tale posizione giurisprudenziale “necessita di revisione alla luce
dei principi generali, di rango costituzionale (segnatamente, di cui all’art. 24
Cost.), alla luce dei principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo
(art. 6), come affermati dalla giurisprudenza di quella Corte, nonché alla luce
dei principi del diritto comunitario”.
Ciò posto, osserva il Collegio che nel frattempo, con riferimento
all’istituto dell’autodichia del Senato e alle controversie dei suoi dipendenti,
queste Sezioni Unite, con l’ordinanza depositata il 6-5-2013 n. 10400, hanno
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 del Regolamento
del Senato della Repubblica 17-2-1971 e succ. mod., per contrasto con gli

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previsti dall’ordinamento del Senato e della Camera dei Deputati – v. S.U. 19-

articoli 3, 24, 102 secondo comma, 111 commi primo, secondo e settimo, e 113
della Costituzione.
La detta ordinanza, nel ritenere non manifestamente infondate le questioni
sollevate, non ignorando le pronunce della Corte Costituzionale n. 154 del

regolamenti parlamentari) ed auspicando “la riconsiderazione di tali
conclusioni”, ha affermato che “una cosa è l’esercizio delle funzioni legislative
o politiche delle Camere, altra cosa gli atti con cui le Camere provvedono alla
loro organizzazione. Se è assunto di tutta evidenza che alle Camere ed agli
altri organi costituzionali debba essere garantita una posizione di indipendenza
sicché essi, nell’esercizio delle loro attribuzioni, siano liberi da vincoli esterni
suscettibili di condizionarne l’azione, cosa del tutto diversa è dire che
l’autodichia sui propri dipendenti sia una prerogativa necessaria a garantire
l’indipendenza delle Camere affinché non siano condizionate da altri poteri
nell’esercizio delle loro funzioni. Come si è rilevato in dottrina, l’autodichia
non è coessenziale alla natura costituzionale degli organi supremi, perché la
Costituzione non tollera la esclusione della tutela giurisdizionale di una
categoria di cittadini, e l’autonomia spettante al Parlamento non è affatto
comprensiva del potere di stabilire norme contrarie alla Costituzione”.
Sulla base di tali considerazioni generali, la citata ordinanza, in
particolare, circa la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, ha
rilevato:
che “l’autodichia del Senato – prevista da un regolamento minore —appare
in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto una categoria di cittadini è esclusa

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1985 e successive (circa la insindacabilità da parte della stessa Corte dei

dalla tutela giurisdizionale in ragione di un elemento (l’essere dipendenti del
Senato) non significativo ai fini del loro trattamento differenziato;”
che “vi è conseguentemente violazione dell’art. 24 Cost., secondo cui
“tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti”, che definisce, al

che “deve poi evidenziarsi la violazione dell’art. 102, secondo comma,
Cost., essendo gli stessi soggetti sottoposti ad un giudice speciale, quanto alle
loro cause di lavoro, istituito dopo l’entrata in vigore della Costituzione”;
che “vi è anche violazione dell’art. 111 Cost., recentemente novellato,
quanto al principio del giusto processo (primo comma, non potendo definirsi
“giusto” un processo che si svolge dinanzi ad una delle parti, alla necessità che
il contraddittorio si svolga davanti ad un giudice terzo e imparziale (secondo
comma), il che evidentemente non è nell’autodichia, ed al fatto che contro le
sentenze è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge
(settimo comma)”;
che “è infine violato anche l’art. 113 Cost., secondo cui, contro gli atti
della pubblica amministrazione (e tale è, per quanto sin qui detto,
l’Amministrazione del Senato rispetto agli atti di gestione del personale) è
sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi
dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa, in quanto
l’autodichia preclude l’accesso agli organi di tutela giurisdizionale”.
Orbene, osserva il Collegio che, a parte le considerazioni connesse alla
diversità delle fonti delle autodichie (per le Camere v. art. 64 della Costituzione
ed i relativi regolamenti; per la Corte Costituzionale v. art. 14, 3 0 comma, della
legge n. 87/1953, come modificato dall’art. 4 della legge n. 265 del 1958, e
6

secondo comma, la difesa “diritto inviolabile”;

relativo regolamento; per la Presidenza della Repubblica v. decreti
Presidenziali n.ri 81 e 89 del 1996 emanati ai sensi dell’ art. 4 della legge 1077
del 1948) nonché dei rispettivi organi giudicanti previsti dalle specifiche
normative (sulla precostituzione, imparzialità e indipendenza degli organi

sulla violazione, invece, dell’art. 6.1 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo in relazione alla Sezione giurisdizionale della Camera dei Deputati
Italiana v. sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 28-4-2009 in
causa Savino ed altri c. Italia; sulla non manifesta infondatezza della questione
della violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost. per difetto di
terzietà dell’organo giudicante del Senato v. Cass. n. 10400/2013 cit.), la
soluzione delle questioni rimesse alla Corte Costituzionale potrebbe investire
direttamente l’intero quadro sistematico delle autodichie, con conseguente
rilevanza anche nella controversia in esame.
E’ indubbio, infatti, che, a prescindere dalle diversità evidenziate, la gran
parte degli argomenti relativi alle questioni sollevate con la citata ordinanza (in
specie relative alla violazione degli articoli 3, 24, 102, 111 comma settimo, e
113), in effetti, potrebbe riguardare tutte le autodichie ed anche quella della
Presidenza della Repubblica, ma soprattutto potrebbe assumere rilevanza
significativa una eventuale rimeditazione generale, da parte del Giudice delle
leggi, del sistema delle autodichie, alla luce dei principi costituzionali e dei
principi della CEDU (ai sensi dell’art. 117, comma primo, della Costituzione).
D’altra parte è possibile che la Corte Costituzionale, al riguardo investita,
ritenga di affrontare alcuni nodi fondamentali ormai ineludibili e comuni a tutte
le autodichie, a cominciare dalla stessa configurabilità di una “giurisdizione
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giudicanti presso la Presidenza della Repubblica v. Cass. S.U. 6529/2010 cit.;

domestica” degli organi costituzionali sui propri dipendenti, a fronte del
sistema delle “norme sulla giurisdizione” delineato dalla Sezione II del Titolo
IV della Costituzione (e dalla VI disposizione transitoria).
Del resto è evidente che dallo scioglimento, in tutto o in parte, di tali nodi

Costituzione, contro le decisioni degli organi giudicanti dei detti organi
costituzionali ed anche, nella specie, della decisione impugnata.
Per tali motivi il Collegio ritiene che debba attendersi la pronuncia della
Corte Costituzionale sull’ordinanza n. 10400/2013, per cui la causa va rinviata
a nuovo ruolo.
P.Q.M.
La Corte rinvia la causa a nuovo ruolo.

dipende la ricorribilità in cassazione ex art. 111, comma settimo, della

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