Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22878 del 29/09/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 29/09/2017, (ud. 02/05/2017, dep.29/09/2017),  n. 22878

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 25157/2013 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

I.B. s.r.l in liquidazione (già Automobili Mattarolo s.r.l.),

rappresentata e difesa dagli avv. Francesco Moschetti e Francesco

D’Ayala Valva, con domicilio eletto in Roma, Passeggiata del Carmine

2, presso lo studio dell’avv. Francesco d’Ayala Valva;

– controricorrente incidentale –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto

n. 48/18/12, depositata il 5 settembre 2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 2 maggio 2017

dal Consigliere Tedesco Giuseppe;

uditi l’avv. Caselli Giancarlo per l’Avvocatura generale dello Stato

e l’avv. Francesco Moschetti per la società.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Del Core Sergio che ha concluso per il rigetto dei primi

tre motivi del ricorso principale e accoglimento dei restanti

motivi; accoglimento dei motivi da quinto al settimo del ricorso

incidentale e rigetto dei restanti motivi.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Commissione tributaria regionale del Veneto (Ctr) ha riformato, previa riunione delle impugnazioni, tre sentenze di quella provinciale, che avevano accolto altrettanti ricorsi della contribuente contro avvisi di accertamento che, in relazione agli anni 2002, 2003 e 2004, contestavano l’emissione di fatture per la vendita di veicoli senza applicazione di imposta ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, in assenza dei presupposti di applicabilità della norma, in quanto gli acquirenti non erano esportatori, ma soggetti interposti, i quali rivendevano poi le vetture in normale regime di Iva, che però poi non versavano.

La Ctr decideva nei predetti termini, pur avendo ritenuto che i ricorsi contro gli avvisi fossero stati proposti tardivamente, in presenza tuttavia dei presupposti per la rimessione in termini.

Contro la sentenza l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi, cui la contribuente reagisce con ricorso incidentale, affidato a dieci motivi, illustrati con memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In primo luogo va rigettata l’istanza proposta dalla ricorrente principale di riunione del presente ricorso con altro ricorso instaurato dinanzi a questa Suprema corte (r.g. n. 19891/2010), riguardante avviso di accertamento Iva emesso in relazione a un anno di imposta diverso rispetto a quelli oggetto dei giudizi definiti con la sentenza impugnata.

2. In via prioritaria si giustifica l’esame del ricorso incidentale della contribuente, i cui primi sette motivi hanno carattere logicamente preliminare rispetto al ricorso principale dell’Agenzia delle entrate.

Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la nullità della sentenza d’appello per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, e art. 22, comma 1.

Con il secondo motivo si deduce il medesimo vizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 51, comma 1, 38,comma 3.

Con il quarto motivo si deduce la medesima violazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

2.1. I motivi pongono la questione dell’inammissibilità degli appelli proposti dall’Agenzia dell’entrate contro le sentenze di primo grado, appelli che furono notificati alla contribuente a mezzo del servizio postale.

Le ragioni di inammissibilità sono ravvisate nell’omesso deposito della ricevuta di spedizione delle raccomandate e nella tardiva proposizione delle impugnazioni.

Con riferimento ai motivi in esame, la contribuente, in relazione ad alcune affermazioni della sentenza impugnata, ha precisato di avere proposto querela di falso contro i documenti prodotti dall’Agenzia delle entrate riguardanti la tempestività dell’impugnazione.

Benchè la sospensione del presente giudizio non sia stata richiesta, la Corte ritiene di precisare ugualmente che di tale sospensione non vi sarebbero comunque i presupposti, appunto perchè la querela è stata proposta dopo la pronuncia della sentenza impugnata, il che impedisce “che la certificazione attestante la pendenza del procedimento di falso possa essere depositata, quale documento nuovo, in Cassazione e di conseguenza non trova applicazione la sospensione necessaria, ex art. 295 c.p.c., del giudizio di Cassazione (Cass. n. 629/1968)”.

Nel caso in esame, peraltro, è stata depositata, come da indice, solo la “querela di falso” e non anche l’attestazione della pendenza del relativo procedimento.

2.2. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati. E’ stata riprodotta nel controricorso la distinta relativa alla spedizione degli appelli che l’Agenzia delle entrate aveva prodotto nel giudizio di impugnazione. In tale distinta sono riportate, insieme ad altre, le tre raccomandate dirette alla contribuente con indicazione del destinatario, della data e delle spese; in pratica, come esattamente rilevato dalla sentenza impugnata, dal documento risultavano le medesime indicazioni che sono riportate sulle ricevute di spedizione singole, secondo il modello ordinariamente in uso presso le Poste.

In casi del genere non è ravvisabile alcuna irregolarità o violazione della norma per il solo fatto che quelle indicazioni si trovino in documento cumulativo invece che in una ricevuta per ogni singola spedizione. E’ stato infatti chiarito che “in tema di notificazione a mezzo posta, nella specie relativa ad appello dell’Agenzia delle entrate avverso sentenza della Commissione tributaria provinciale, quando debba accertarsene il perfezionamento nei confronti del destinatario, la prova della tempestività esige che, nel termine di cui all’art. 327 c.p.c., vi sia stata la presentazione dell’atto all’ufficio postale; ne consegue la tardività dell’appello se la data del relativo atto risulti da un mero elenco di trasmissione recante la data, la dicitura ed il timbro della sola Agenzia delle Entrate, richiedente la notifica e non una ricevuta delle Poste che, quale terzo addetto a tale adempimento, deve a sua volta certificare in modo incontrovertibile di aver ricevuto l’atto in questione in quella data (Cass. n. 18551/2010)”.

Ebbene, nella specie, sulla distinta compilata dall’Agenzia delle entrate c’è un timbro apposto dalle Poste recante la data 22 dicembre 2010. Secondo la controricorrente “alla mera apposizione del timbro postale, in mancanza di altre indicazioni, non può infatti attribuirsi uno specifico significato (come inequivocabilmente avviene nel caso di ricevuta vera e propria, la quale attesta l’accettazione della spedizione della raccomandata). Basti pensare, a conferma di quanto sopra detto, che chiunque, come è noto, può recarsi presso un Ufficio postale con qualsivoglia documento, previamente formato allo scopo di farsi apporre il timbro data certa. Senza beninteso, che l’impiegato debba o possa verificare o sindacare il contenuto del documento, e allo scopo di attestare la sola anteriorità della sua formazione (Cass. n. 10702/2003)”.

L’obiezione è priva di pregio. Infatti, una volta acclarato che il timbro compare su un documento con intestazione “Agenzia delle entrate”, denominato “Raccomandate assicurate del (…)” con la data del 22 ottobre 2010, con l’indicazione del numero identificativo di una di una pluralità di raccomandate e dell’importo da pagare per ciascuna di esse, occorre chiedersi quale altro possibile significato possa avere il timbro delle Poste se non quello di attestazione che la distinta fu consegnata in quella data. Il fatto che non compaia l’indicazione “accettate” non introduce alcun elemento di equivocità. E tanto basta per esaurire l’esame di tale aspetto, anche con riguardo all’eccezione relativa alla tempestività della impugnazione, negata dalla ricorrente sulla base della premessa che la data di accettazione delle raccomandate non sarebbe quella indicata sul timbro, ma quella risultante dalle interrogazioni sul sito delle Poste Italiane.

Al riguardo è infatti ineccepibile quanto rilevato dalla Ctr, e cioè che la verifica di contrasti fra la data risultante dal timbro postale e indicazioni desunte aliunde deve avvenire nell’ambito dell’apposito giudizio per querela di falso (cfr. Cass. n. 8500/2005).

3. Con il quinto motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs n. 918 del 1998, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dove la sentenza ha ritenuto inapplicabile al termine di sospensione relativo alla procedura di accertamento per adesione, qualora scadente in giorno festivo, il principio della proroga di diritto al successivo giorno non festivo di cui all’art. 155 c.p.c., comma 4.

Con il sesto motivo dello stesso ricorso incidentale si deduce la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, e dell’art. 155 c.c., comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Ctr ritenuto che il termine ultimo per l’impugnazione dell’avviso fosse il 12 febbraio 2008, laddove il corretto computo del termine identificava quale giorno di scadenza il successivo 13 gennaio 2008, sicchè l’impugnazione proposta in tale data era tempestiva.

Il settimo motivo del ricorso incidentale denuncia la medesima violazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.1. I motivi, che per la loro connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

In pendenza del termine per l’impugnativa degli avvisi di accertamento, la contribuente presentò, il 13 novembre 2007, istanza di accertamento per adesione; da tale giorno iniziò a decorrere il periodo di 90 giorni di sospensione del termine di impugnazione degli atti impositivi (D.Lgs n. 218 del 1997, art. 6, comma 3), il cui ulteriore decorso, secondo la Ctr, è ripreso l’11 febbraio 2008, essendo il 10 febbraio 2008 l’ultimo giorno del periodo di sospensione. Secondo la contribuente, essendo tale ultimo giorno festivo, la fine del periodo di sospensione doveva prorogarsi al giorno successivo non festivo ai sensi dell’art. 155 c.p.c., comma 4, con conseguente proroga della scadenza del termine per proporre l’impugnazione dal 12 febbraio 2008 al successivo giorno 13 febbraio 2008, quando infine i ricorsi furono proposti.

La tesi della contribuente non può condividersi. Non si tratta qui di disconoscere il (pacifico) carattere di principio generale della proroga della scadenza di un termine che cade in giorno festivo al successivo giorno non festivo, di cui all’art. 155 c.p.c., comma 4 e all’art. 2963 c.c., comma 3 (Cass. n. 23375/2016; Cass. n. 7601/2001), ma di circoscriverne l’applicabilità in termini coerenti con il contenuto e la ratio del principio, che attiene alla scadenza di un termine, mentre nel caso in esame il problema riguarda l’inizio del decorso del termine o dell’ulteriore decorso alla fine di un periodo di sospensione.

Il D.Lgs. n. 218 del 1997, Ex art. 6, comma 3: “il termine per l’impugnazione indicata al comma 2 e quello per il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto accertata, indicato nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 60, comma 1, sono sospesi per un periodo di novanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza del contribuente”. il D.L. n. 193 del 2016, Ex art. 7 – quater, comma 18, quale convertito dalla L. n. 225 del 2016: “i termini di sospensione relativi alla procedura di accertamento con adesione si intendono cumulabili con il periodo di sospensione feriale dell’attività giurisdizionale”.

3.2. Secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, “la presentazione dell’istanza di definizione non comporta l’inefficacia dell’avviso di accertamento, “ma solo la sospensione del termine di impugnazione per un periodo di novanta giorni (…) Spirato tale spatium deliberandi, senza che sia stata definita la composizione bonaria, esso diviene definitivo se non è impugnato nel residuo termine (…).Va ricordato, inoltre, che il termine di novanta giorni, durante il quale rimane sospeso l’onere d’impugnare in giudizio l’atto impositivo, non è dissimile da quello per il normale consolidamento del silenzio – rifiuto (L. n. 241 del 1990, art. 2; art. 21 proc. trib.), il che rende coerente con l’ordinamento generale considerare tacitamente rigettata l’istanza di accertamento con adesione, una volta che sia spirato quel termine dalla presentazione della istanza senza che l’Ufficio abbia riposto” (Cass. n. 993/2015; conf. Cass. n. 28051/2009; conf. Cass. n. 993/2015; Cass. n. 15401/2017).

Il fatto (su cui la controricorrente ha molto insistito) che la giurisprudenza di legittimità abbia talvolta affermato che “la sospensione del termine per l’impugnazione (…) è volta a garantire un concreto spatium deliberandi in vista dell’accertamento con adesione (cfr. Cass. n. 11632/2015)” non costituisce argomento a favore della tesi, sostenuta con i motivi ora in esame, che, se il novantesimo giorno cade in giorno festivo, la scadenza del periodo di sospensione è prorogata al primo giorno seguente non festivo. Infatti, tale finalità della sospensione non rende l’ultimo giorno dello spatium deliberandi un termine finale, la cui scadenza determini l’acquisto o la perdita di un diritto o la decadenza dall’esercizio di una facoltà (cfr. Cass. n. 1000/1993). Non ricorre quindi la ragione che giustifica l’applicazione dell’art. 155 c.p.c., comma 4, di consentire al titolare del diritto o della facoltà un estremo atto di esercizio che non sarebbe possibile se l’ultimo giorno cadesse in giorno festivo (cfr. Cass. n. 5864/1982; Cass. n. 6242/1981).

Torna utile richiamare l’orientamento consolidato di questa Suprema Corte in materia di sospensione dei termini durante il periodo feriale: “L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1, (il quale stabilisce che, se il decorso del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo) va inteso nel senso che il giorno 16 settembre (oggi 1 settembre n.d.r.) deve essere compreso nel novero dei giorni concessi dal termine, atteso che esso segna non già l’inizio di quest’ultimo bensì del suo decorso, in relazione al quale il dies a quo non è, in applicazione del principio fissato dall’art. 155 c.p.c., comma 1, da computarsi. Nè tale regola subisce deroga nel caso in cui il detto giorno 16 cada in giorno festivo (nel caso, domenica), in quanto la proroga di diritto al primo giorno successivo non festivo costituisce eccezione al principio generale secondo cui i termini si calcolano secondo il calendario comune non computando il giorno iniziale ma quello finale, la cui previsione peraltro nel caso non risulta da norma alcuna, non soccorrendo al riguardo il terzo comma del medesimo art. 155, che concerne la scadenza, e non già l’inizio, del decorso del termine (Cass. n. 6679/2005; 688/2006; n. 19874/2012)”.

La Ctr ha ritenuto tardivo il ricorso, ma non ne ha tratto la conseguenza della decadenza dalla impugnazione, avendo ritenuto che vi fossero i presupposti della rimessione in termini.

4. Si inserisce qui il primo motivo del ricorso principale dell’Agenzia delle entrate, con il quale, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si deduce violazione dell’art. 155 c.p.c. e art. 184 bis (ora 153, comma 2), la L. 7 ottobre 1969, n. 742, comma 2, il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 19 e 21 e il D.Lgs. n. 281 del 1997, art. 6,comma 3.

L’Amministrazione si duole che la contribuente sia stata rimessa in termini nonostante che la relativa istanza fosse stata proposta dopo oltre un anno dall’eccezione di tardività delle impugnazioni e in ogni caso per carenza dei presupposti. In particolare la società aveva motivato l’istanza di rimessione in termini esclusivamente sulla base di una propria interpretazione della norma, in carenza della dimostrazione del fatto che aveva determinato la decadenza e della sua non imputabilità.

4.1. Il motivo è fondato. La rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall’art. 184 – bis c.p.c. che in quella di più ampia portata contenuta nell’art. 153 c.p.c., comma 2, come novellato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perchè cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà (Cass. n. 21794/2015; Cass. n. 19836/2011). Di contro, nella specie l’inerzia è dipesa dalla convinzione soggettiva della parte circa l’applicabilità alla sospensione del termine il D.Lgs n. 218 del 1997, ex art. 6, comma 3, di una norma (l’art. 155 c.p.c., comma 4) dettata per disciplinare situazioni del tutto diverse (v. supra).

E’ anche fondato l’ulteriore profilo di censura avanzato con il motivo in esame. Costituisce infatti principio acquisito nella giurisprudenza di questa Suprema Corte quello secondo cui “la rimessione in termini prevista dall’art. 153 c.p.c., comma 2, (ovvero, in precedenza, dall’art. 184 bis dello stesso codice) deve essere domandata dalla parte interessata senza ritardo e non appena essa abbia acquisito la consapevolezza di avere violato il termine stabilito dalla legge o dal giudice per il compimento dell’atto (Cass. n. 4841/2012; conf. Cass. n. 23561/2011)”.

La Ctr non si è attenuta a tale principio, perchè ha disposto la rimessione in termini nonostante la contribuente avesse formulato la relativa istanza soltanto con la memoria depositata il 22 luglio 2009, in vista dell’udienza del 22 settembre 2009, mentre l’Agenzia delle entrate aveva eccepito la tardività dei ricorsi con memoria del 18 aprile 2008. Alla contribuente non giova replicare che si trattava comunque della prima difesa successiva all’eccezione, perchè nulla impediva di avanzare la richiesta in precedenza.

5. L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, in connessione con il rigetto dei motivi pregiudiziali del ricorso incidentale, comporta l’assorbimento di tutti gli altri motivi del ricorso principale (del secondo motivo, con il quale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la medesima violazione dedotta con il primo motivo; del terzo motivo, con il quale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’insufficienza della motivazione sui presupposti della rimessione in termini; del quarto motivo, riguardante, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il contenuto della prova posta a carico dell’Amministrazione finanziaria che contesti l’effettuazione di operazioni soggettivamente inesistenti; del quinto motivo, con il quale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, motivazione insufficiente e contraddittoria per avere la Ctr ritenuto che gli elementi apportati dall’Amministrazione finanziaria non bastassero a dare la prova della consapevolezza della frode da parte della cedente).

Ugualmente assorbiti gli altri motivi del ricorso incidentale (ottavo, nono e decimo motivo), i quali, sotto diversi profili, censurano la sentenza per avere riconosciuto l’inesistenza soggettiva delle cessioni poste in essere dalla contribuente.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti, la Corte può decidere nel merito, dichiarando inammissibili i ricorsi contri gli avvisi di accertamento, con compensazione delle spese del giudizio di merito.

6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

 

rigetta l’istanza di riunione proposta dalla ricorrente principale; rigetta i primi sette motivi del ricorso incidentale; accoglie il primo motivo del ricorso principale; dichiara assorbiti tutti gli altri motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale; cassa la sentenza, e decidendo nel merito, dichiara inammissibili i ricorsi proposti della contribuente contro gli avvisi di accertamento; dichiara interamente compensate le spese del giudizio di merito; condanna la controricorrente al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 23.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2000, art. 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del controricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis.

Così deciso in Roma, il 2 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2017

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