Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22864 del 29/09/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 29/09/2017, (ud. 20/01/2017, dep.29/09/2017),  n. 22864

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11551-2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

GESTIONI PATRIMONIALI SRL IN LIQUIDAZIONE in persona del liquidatore

e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA VIA SAN TOMMASO D’AQUINO 116, presso lo studio dell’avvocato

ANTONINO DIERNA, rappresentato e difesa dall’avvocato GIUSEPPE

VACCARO giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 163/2011 della COMM. TRIB. REG. della SICILIA

SEZ. DIST. di SIRACUSA, depositata il 10/05/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/01/2017 dal Consigliere Dott. GRECO ANTONIO;

udito per il ricorrente l’Avvocato GAROFOLI che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato VACCARO che ha chiesto il

rigetto o inammissibilità;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO FEDERICO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione con quattro motivi nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia che, accogliendone parzialmente l’appello, nel giudizio introdotto dalla srl in liquidazione Gestioni Patrimoniali con l’impugnazione dell’avviso di accertamento ai fini dell’IVA, dell’IRPEG e dell’IRAP per il 2003, con riguardo alla ripresa per omessa contabilizzazione di ricavi, ha ritenuto inapplicabile, per determinare quelli fondatamente attribuibili alla verificata, il metodo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), non avendo i verificatori fatto preliminarmente alcun rilievo sulla tenuta della contabilità obbligatoria; ed ha inoltre ritenuto che l’applicazione della percentuale di ricarico sul costo del venduto nella misura del 20% rappresentava un parametro solo ipotizzato dai verificatori, i quali non avevano motivato nell’accertamento impugnato la fonte dalla quale esso era stato desunto, se non in modo del tutto acritico nei seguenti termini: “in una normale gestione l’utile dell’impresa si aggira intorno al 20%…”; ed ha quindi escluso ricorressero presunzioni con i prescritti caratteri per supportare il tipo di accertamento condotto al fine di ricostruire i nuovi ricarichi della verificata.

Il giudice d’appello, accogliendo il gravame, ha ritenuto invece legittima la ripresa relativa alla contabilizzazione dei canoni di leasing e quella per costi non documentati, riprese recanti nello svolgimento del processo i numeri 3 e 5 – il rilievo concernente la duplicazione di costi relativi ad utenze telefoniche, recante il numero 4, era stato ritenuto legittimo dal giudice di primo grado, e quindi non oggetto di appello.

La società contribuente resiste con controricorso illustrato con successiva memoria.

Diritto

RAGIONI DELLE DECISIONE

Col primo motivo l’amministrazione ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), riferendola all’esistenza di perdite e di utili irrisori, che, venendo a mancare lo scopo di lucro, non giustificherebbero l’esercizio di attività imprenditoriale, ed integrerebbero gli indizi idonei a sostenere la rettifica della dichiarazione.

Con il secondo motivo denuncia omessa ed insufficiente motivazione in relazione ad un punto controverso decisivo per il giudizio: a fronte della contestazione di un comportamento antieconomico risulterebbe dal verbale di constatazione che la contribuente avrebbe fornito “giustificazioni generiche” e non avrebbe saputo “giustificare in alcun modo”.

I due motivi, da trattare congiuntamente in quanto legati, sono infondati.

La sentenza impugnata non incorre infatti nell’errore ad essa addebitato con la prima censura, avendo osservato il giudice d’appello in primo luogo che la disposizione applicata dall’ufficio per determinare i ricavi fondatamente attribuibili alla verificata non torna applicabile, “non avendo i verificatori fatto alcun rilievo sulla tenuta della contabilità obbligatoria da parte della società”: e ciò in difetto, nel motivo di ricorso, di un quadro delle contestazioni con l’avviso, aldilà del generico riferimento all’antieconomicità dell’attività della contribuente; ed in secondo luogo che “l’applicazione della percentuale di ricarico applicata al costo del venduto nella misura del 20% rappresenta un parametro solo ipotizzato dai verificatori, che non hanno motivato nell’avviso di accertamento impugnato la fonte dalla quale è stata desunta, se non in modo del tutto acritico nei seguenti termini: “in una normale gestione l’utile dell’impresa si aggira intorno al 20%”.

Nè del resto con il secondo motivo viene indicato, come prescritto, il fatto controverso decisivo per il giudizio, sicchè rimane priva di un’apprezzabile censura l’affermazione del giudice d’appello secondo cui “inoltre nella fattispecie in causa non ricorrono le presunzioni fornite dei requisiti della gravità, precisione e concordanza per supportare il tipo di accertamento condotto dall’ufficio al fine di ricostruire i nuovi ricavi della verificata”.

E’ altresì inammissibile il terzo motivo, con il quale si denuncia la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ravvisandosi un contrasto fra motivazione e dispositivo con riguardo alla ritenuta legittimità del rilievo concernente la ripresa numero 4: la relativa censura della contribuente era stata infatti espressamente disattesa già in primo grado, sicchè, essendo evidente nella motivazione della sentenza d’appello che veniva ritenuto fondato “il rilievo di Euro 1.000 per costi non documentati”, quanto si legge nel dispositivo circa la legittimità dei soli rilievi di cui ai numeri… e 4″ va correttamente riferito al rilievo numero 5 (definito in sentenza “costi non documentati pari ad Euro 1.000).

La censura costituisce quindi piuttosto materia di correzione di errore materiale.

E’ infine inammissibile il quarto motivo, col quale ci si duole che regolando le spese non sia stata “pronunziata la compensazione delle stesse”, considerato che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte “in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi” (Cass. n. 15387 del 2013 e n. 8431 del 2017).

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 5.000 per compensi di avvocato oltre alle spese generali determinate nella misura forfetario, del 15%, con distrazione a favore del difensore della contro ricorrente dichiaratosi antistatario.

Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2017

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