Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22862 del 13/09/2019

Cassazione civile sez. III, 13/09/2019, (ud. 31/01/2019, dep. 13/09/2019), n.22862

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12900-2017 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA NAVONA 49,

presso lo studio dell’avvocato FABIO ROSCIOLI, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

F.E., Procuratore della Repubblica presso il Tribunale

di Castrovillari, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA

133, presso lo studio dell’avvocato OSVALDO LOMBARDI, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 702/2016 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 06/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

31/01/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.M. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 702/16, del 9 dicembre 2016, della Corte di Appello di Salerno, che – accogliendo il gravame esperito F.E. contro la sentenza 2300/13, del 12 settembre 2013, del Tribunale di Salerno – ha rigettato la domanda di risarcimento danni proposta dall’odierna ricorrente nei confronti del F..

2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di aver adito il Tribunale salernitano assumendo di essere stata diffamata dal Dott. F.E., appartenente, al suo pari, all’ordine giudiziario. In particolare, il F., sentito – il 18 maggio 2005 – nell’ambito di una ispezione disposta dal Ministero della Giustizia e volta ad accertare l’esistenza di situazioni di incompatibilità a suo carico, a fronte della domanda se fosse a conoscenza di possibili situazioni di incompatibilità di altri magistrati degli uffici giudiziari di Catanzaro e di Cosenza, derivanti da rapporti con avvocati, dichiarava quanto segue. “Voglio finalmente aggiungere che un’ulteriore situazione di rapporti suscettibili di valutazione ai fini della incompatibilità è quella che lega la Dott.ssa M., giudice del Tribunale penale di Cosenza, con il Dott. D., marito della stessa e capo della Squadra Mobile di (OMISSIS)”, soggiungendo che la stessa è “figlia di M.E., imprenditore e politico, attualmente assessore al personale della Giunta regionale calabrese. In forza di questi legami familiari la Dott.ssa M. è attratta nella sfera di influenza dell’Avv. C., il che è ancora più preoccupante laddove si consideri che M.E. è a sua volta imputato o indagato in due procedimenti per reati legati alla sua attività di amministratore ed è difeso dallo stesso C., dall’Avv. S. e da altri avvocati della summenzionata conventicola”.

La Dott.ssa M. riteneva tali affermazioni lesive della propria reputazione, e ciò pure in ragione del fatto di aver tempestivamente segnalato al Presidente del Tribunale di Cosenza, allorchè fu assegnata in prima nomina a tale ufficio, l’inopportunità del conferimento di funzioni giudicanti in materia penale, in ragione del rapporto di coniugio con il Dott. D., essendo, pertanto, destinata – anche all’esito di tale sua iniziativa – al settore civile.

Accolta dal primo giudice la domanda risarcitoria – sul presupposto che quelle affermazioni si risolvevano in un apprezzamento negativo sull’imparzialità del magistrato – e, dunque, condannato il F. al pagamento di Euro 13.000,00, su gravame di quest’ultimo la Corte di Appello riformava integralmente la sentenza impugnata, ponendo le spese del doppio grado di giudizio a carico della M..

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione la M., sulla base di due motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si deduce “nullità della sentenza per violazione degli artt. 82 e 115 disp. att. c.p.c.”, oltre che degli artt. 101 e 293 c.p.c. e degli artt. 3,24 e 111 Cost., “sub specie” di violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa.

La censura è basata sulla circostanza che, nel giudizio di appello, in data 4 luglio 2016, venne disposta, ad istanza dell’appellante, l’anticipazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, tenutasi il 24 novembre 2016, senza previa notificazione dell’anticipazione all’appellato contumace, in aperto contrasto con il combinato disposto degli artt. 82 e 115 disp. att. c.p.c. e dei principi sopra richiamati.

Si assume, infatti, che alle disposizioni che impongono comunicazione alle parti, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale, deve riconoscersi natura e funzione integrativa rispetto alla previsione contenuta nell’art. 292 c.p.c. (viene citata, in particolare, Corte Cost., sent. n. 276 del 2009).

3.2. Il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – ipotizza violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2043,2059 c.c. e art. 595 c.p.c. (” recte”: c.p.), alla luce dell’art. 2 Cost.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che un’affermazione non possa integrare “ex se” l’illecito diffamatorio, ma debba essere necessariamente contestualizzata, ciò che, viceversa, dovrebbe escludersi in un caso, come quello presente, in cui essa si riveli oggettivamente pregiudizievole per l’altrui onorabilità e/o reputazione.

Si sarebbe, in questo modo, contravvenuto a quanto affermato da questa Corte, avendo essa riconosciuto l’intrinseca e oggettiva valenza diffamatoria dell’affermazione di parzialità e di dipendenza riferita ad un giudice (sono citate Cass. Sez. 1, sent. 14 gennaio 1999, n. 334, Rv. 522283-01; Cass. Sez. 3, sent. 6 aprile 2001, n. 5146, Rv. 545681-01). Senza, poi, tacere del fatto che la necessità della contestualizzazione delle affermazioni diffamatorie porterebbe a negare la sufficienza del “dolo generico”, ai fini della integrazione dell’elemento soggettivo dell’illecito, avendo come corollario l’esclusione che il dolo possa di per sè ricavarsi dalla consistenza diffamatoria intrinseca delle espressioni adoperate.

4. Il F. ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

In particolare, quanto al primo motivo di ricorso, il controricorrente evidenzia come l’ordinanza di anticipazione dell’udienza non rientri tra gli atti tassativamente indicati, dall’art. 292 c.p.c., che devono essere notificati al contumace. In ogni caso, la giurisprudenza citata nel ricorso non sarebbe conferente (riferendosi al differimento della prima udienza) ed essendo, comunque, contraddetta da altra di segno contrario.

Non fondato, inoltre, sarebbe pure il secondo motivo di ricorso, avendo la Corte territoriale escluso l’intrinseca ed oggettiva valenza diffamatoria delle affermazioni di esso F., non limitandosi all’analisi della sola frase su cui la ricorrente ha appuntato la propria attenzione, ma contestualizzando nell’ambito dell’indagine ministeriale in cui il F. fu chiamato a riferire, indagine intesa, in particolare, a verificare eventuali situazioni di incompatibilità dei magistrati del distretto catanzarese di Corte di Appello.

5. Hanno presentato memoria entrambe le parti, insistendo nelle rispettive argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. Il primo motivo non è fondato.

6.1.1. Come rileva – correttamente – il controricorrente, nessuna nullità di ordine processuale è ipotizzabile nel caso di specie, giacchè “qualora venga disposto un rinvio d’ufficio, nella specie dell’udienza di discussione in appello, di esso non deve essere data comunicazione al convenuto contumace, poichè la relativa ordinanza non rientra tra i provvedimenti tassativamente indicati, all’art. 292 c.p.c., come quelli oggetto di necessaria notificazione personale alla parte non costituita; ne consegue che la mancata notizia di detto rinvio non determina alcuna violazione del principio del contraddittorio” (così Cass. Sez. 1, sent. 7 aprile 2011, n. 7983, Rv. 617209-01).

Nè in senso contrario può invocarsi la pronuncia della Corte costituzionale richiamata dal ricorrente (Corte Cost. n. 276 del 2009), non tanto perchè essa stessa ribadisce il carattere tassativo dell’elencazione di cui all’art. 292 c.p.c. (sulla quale, da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 16 settembre 2015, n. 18147, Rv. 63673301) bensì in quanto essa risulta “ritagliata” su una fattispecie specifica, non omogenea a quella che viene qui in rilievo.

Essa, infatti, predica la necessità di un’interpretazione dell’art. 300 c.p.c., comma 4, che, nell’ambito dei giudizi di scioglimento delle comunioni, preveda “la dichiarazione d’interruzione del processo nel caso di morte del contumace certificata dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione relativa al decreto di fissazione dell’udienza di discussione del progetto di divisione” ex art. 789 c.p.c.; e ciò sul rilievo che una simile interpretazione trova “conferma sia nel dettato testuale della norma”, ovvero dell’art. 789 c.p.c. (il quale, “imponendo la comunicazione del decreto alle parti, senza distinguere tra quelle costituite o non costituite, comprende anche le parti contumaci”) – sia, soprattutto, “sul piano sistematico”, visto che “la mancanza della predetta comunicazione preclude alle parti (costituite o meno) la possibilità di comparire all’udienza di discussione e, quindi, di sollevare contestazioni”, presentandosi, così, l’adempimento “essenziale per consentire al procedimento di divisione di avanzare”.

Si tratta, dunque, di affermazioni da circoscrivere a quel caso specifico e non estensibili ad altri.

6.2. Il secondo motivo, del pari, non è fondato.

6.2.1. Il motivo, come visto, si basa sul rilievo che talune affermazioni possano “ex se” integrare la diffamazione e, dunque, nella censura di quel metodo di valutazione “contestualizzante” che la giurisprudenza di questa Corte esige, invece, per valutare la sussistenza dell’illecito “de quo”.

Essa, per vero, raccomanda che il giudice di merito abbia riguardo, oltre che al contenuto della frase adoperata, al “contesto, in cui la stessa è pronunciata”, data la sua possibile attitudine a determinare “un mutamento del significato apparente della frase altrimenti non diffamatoria, dandole quanto meno un contenuto allusivo, percepibile dall’uomo medio”, richiedendo di “valutare le parole nel momento dinamico in cui, sposandosi col contesto della funzione semantica di tutti gli altri segnali, le stesse possono dar luogo alla proliferazione di ulteriori significati, in modo che ricostruire il dato materiale dell’illecito vuol dire risalire alla significazione assunta come risultato finale” (così, icasticamente, Cass. Sez. 3, sent. 13 gennaio 2009, n. 482, Rv. 606146-01).

Ancora di recente, sempre con riferimento alla valutazione della ricorrenza della diffamazione, si è ribadita la necessità che il giudice eserciti “la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento”, precisandosi che esso “è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi” (Cass. Sez. 3, ord. 12 aprile 2018, n. 9059, Rv. 648589-01).

A questo metodo – che il motivo, invece, pretende di mettere in discussione, ipotizzando una sorta di “isola” all’interno del sistema della responsabilità per condotte diffamatorie, sostenendo il carattere intrinsecamente diffamatorio di affermazioni che pongano in dubbio l’imparzialità di un magistrato – si è attenuta la sentenza impugnata, sicchè essa (al di là dei risultati cui è pervenuta, non sindacabili in questa sede, perchè involgenti apprezzamenti di fatto) risulta esente dai vizi denunciati.

7. L’alterno esito dei giudizi di merito costituisce “giusto motivo”, ex art. 92 c.p.c., comma 2, (nel testo di cui alla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), applicabile “ratione temporis” al presente giudizio, visto che l’atto di citazione risulta notificato il 26 luglio 2007) per l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese del presente giudizio.

8. A carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 31 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2019

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