Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22861 del 13/09/2019

Cassazione civile sez. III, 13/09/2019, (ud. 31/01/2019, dep. 13/09/2019), n.22861

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26804-2016 proposto da:

ISTITUTO L.V., in persona e legale rappresentante pro

tempore, domiciliato in ROMA, VIA DELLE QUATTRO FONTANE 10, presso

lo studio dell’avvocato ANDREA PIVANTI, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

RCS MEDIAGROUP SPA, in persona del suo procuratore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DELLE QUATTRO FONTANE 161, presso lo studio

dell’avvocato SANTE RICCI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

B.P.V.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5780/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

31/01/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Istituto L.V. ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 5780/16, del 30 settembre 2016, della Corte di Appello di Roma, che – accogliendo il gravame principale esperito dalla società RCS Mediagroup S.p.a. (già RCS Quotidiani S.p.a., d’ora in poi, “RCS”) e da S.E. contro la sentenza n. 8610/12, del 4 ottobre 2012, del Tribunale di Roma – ha riformato parzialmente la decisione del giudice di prime cure, ponendo esclusivamente a carico di B.P.V. l’obbligo di risarcire il danno non patrimoniale cagionato all’odierna ricorrente, già liquidato in Euro 30.000,00, oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza di primo grado al saldo.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di aver adito il Tribunale capitolino lamentando la presenza di frasi lesive della propria reputazione, nell’articolo pubblicato dal quotidiano “(OMISSIS)” il (OMISSIS), a firma della giornalista S.E., recante il titolo “I disabili e le barriere. Senza lavoro 7 su 10”, ed un successivo occhiello, “Diritti negati, dai viaggi allo studio”. Nello scritto, infatti, l’articolista, nel descrivere la situazione dei disabili in Italia, affermava, tra l’altro, essere gli stessi “figli di un Dio minore nascosti fino a pochi anni fa dietro le mura domestiche. Segregati. Per vergogna, ignoranza, cattiveria. Per paura di vedere in loro lo specchio di noi stessi”. L’articolista, inoltre, dopo aver affermato che nel nostro Paese, pur in presenza di leggi avanzate, le stesse non vengono rispettate, riportava le dichiarazioni di B.P., Presidente della Federazione italiana superamento handicap (cd. “Fish”), il quale, tra l’altro, dichiarava: “Esistono ancora oggi strutture segreganti che prelevano ingenti risorse statali. Penso a S. d’Aiello in (OMISSIS), all’Istituto V. di (OMISSIS), al Piccolo Cottolengo di (OMISSIS)”.

Ciò premesso, l’odierno ricorrente conveniva in giudizio la società editrice del quotidiano, RCS, l’autrice dell’articolo, S.E., ed il B., assumendo il carattere diffamatorio dell’articolo. In particolare, si doleva di essere stato definito come una “struttura segregante”, che non rispetta le “leggi avanzate” esistenti in materia, che non include i disabili, effettuando, per giunta, uno “spreco di denaro pubblico”. Lamentava, inoltre, il proprio accostamento alla struttura S. d’Aiello, dal momento che il Presidente e un componente del consiglio di amministrazione di tale Istituto risultavano indagati con la grave accusa di associazione per delinquere finalizzata alla truffa e appropriazione indebita ai danni dei soggetti ricoverati presso detta struttura.

Accolta integralmente la domanda risarcitoria dal primo giudice, che condannava in solido tutti i convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale, stimato della misura di Euro 30.000,00, avverso tale decisione proponevano appello, in via di principalità, la società RCS e la S., nonchè, in via incidentale, il B..

La Corte romana, come detto, mentre dichiarava inammissibile il gravame incidentale, accoglieva quello principale di RCS e della S., escludendo che costoro potessero ritenersi responsabili della lamentata condotta diffamatoria ai danni dell’odierno ricorrente. Esito, questo, cui il giudice di appello perveniva sul rilievo che la frase introduttiva della giornalista non potesse considerarsi alla stregua di un commento personale, risultando del tutto scollegata dalle dichiarazioni dell’intervistato, anche perchè precedente e non successiva rispetto ad esse, essendo esclusivamente finalizzata sia ad illustrare l’argomento sviluppato nello scritto, mediante una ricognizione generale e sintetica sul fenomeno della disabilità, sia a presentare l’intervistato, Presidente della Federazione italiana superamento handicap, delle cui dichiarazioni nè l’articolista, nè tantomeno la società editrice, potevano ritenersi (cor)responsabili, considerato che la giornalista si era imitata a dare voce non ad un “quisque de populo”, bensì ad un interprete qualificato del mondo della disabilità.

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione l’Istituto L.V., sulla base di quattro motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si deduce “nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4)”, ricorrendo, nella specie, l’ipotesi della “motivazione omessa, apparente, contraddittoria e incomprensibile della sentenza impugnata”.

Ci si duole, in particolare, del fatto che la Corte capitolina non abbia spiegato in alcun modo le ragioni della asserita insussistenza di un collegamento fra le frasi scritte dalla giornalista, nell'”incipit” del proprio articolo, e le dichiarazioni del B., nonchè per quale ragione le une non costituirebbero un commento delle altre e, soprattutto, perchè tale circostanza valga ad escludere la responsabilità della S. (e di RCS). In particolare, il motivo insiste su questo aspetto, segnalando che ai fini della esclusione della scriminante del diritto di cronaca non era affatto necessaria la presenza di un commento, in senso proprio, alle dichiarazioni del B. da parte della giornalista, giacchè a fondare la responsabilità della S. sarebbe sufficiente il riferimento a concetti e/o circostanze (nella specie, la stigmatizzazione della condotta segregante, a danno dei disabili) che hanno trovato riscontro nell’intervista, inducendo, così, i lettori a ritenere che quanto affermato in quest’ultima venisse dato per pacifico dall’articolista e corrispondesse, pertanto, alla realtà.

D’altra parte, ad integrare la denunciata anomalia motivazionale della sentenza impugnata (in particolare, laddove essa ha esonerato da responsabilità la giornalista e la società editrice sul presupposto che la prima ebbe a riportare le dichiarazioni non di un “quisque de populo”, bensì “di un interprete qualificato del mondo della disabilità”), varrebbe la circostanza che il giudice di appello ha totalmente omesso di motivare in ordine alla rilevanza pubblica che deve rivestire “l’evento-dichiarazione”, ovvero sul fatto che la notizia riferita nell’articolo fosse costituita proprio dal “pensiero” del B.. A tale scopo, infatti, sarebbe stato necessario, da parte della Corte capitolina, indicare che quelle dichiarazioni vennero rilasciate da un personaggio pubblico e che riguardavano altro soggetto con ruolo pubblico, giacchè solo in questo caso è la dichiarazione che “crea di per sè la notizia”, giustificandone la pubblicazione e, soprattutto, scriminando l’articolista (e con esso la società editrice) dalla responsabilità per illecito di cui all’art. 595 c.p..

Infine, il carattere meramente apparente della motivazione viene argomentato anche sul rilievo che il giudice di appello ha dichiarato di esaminare unitariamente, accogliendoli, i motivi dal secondo al sesto del gravame principale, quantunque taluni di essi (ed esattamente il terzo, il quinto e il sesto) concernessero aspetti diversi da quelli posti a fondamento della motivazione, di talchè mancherebbe un’espressa statuizione che possa far comprendere le ragioni del loro accoglimento.

3.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 21 Cost., artt. 51 e 110 c.p., artt. 2043,2059 e 2697 c.c.”, nonchè “dell’art. 116 c.p.c.”, essendo stati, in particolare, violati i principi di diritto in materia di diffamazione.

Si censura la sentenza impugnata in quanto non avrebbe fatto corretta applicazione del principio secondo cui il giornalista può beneficiare della scriminante del diritto di cronaca, allorchè riporti nel proprio articolo le dichiarazione di un soggetto intervistato, solo quando abbia assolto l’onere di dimostrare che le dichiarazioni sono state rese da un personaggio pubblico, che le espressioni offensive sono rivolte ai danni di un altro soggetto avente sempre ruolo pubblico, e, infine, di aver rispettato il dovere di imparzialità.

Nessuna delle condizioni appena indicate ricorrerebbe nel caso di specie.

Non le prime due, come già posto e luce nell’illustrazione del primo motivo di ricorso, e neppure la terza, considerato che la S., fin dall’esordio del proprio articolo, ha inteso enfatizzare la condizione di segregazione dei disabili, utilizzando le dichiarazioni del B. come supporto alla propria tesi, volta a sostenere come costoro versino in una condizione in cui i loro diritti risultano “negati”.

3.3. Con il terzo motivo – proposto nuovamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 2,3 e 21 Cost.”, nonchè dell’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 10 della CEDU, oltre che degli “artt. 51 e 110 c.p., 2043, 2059, 2697 e 2909 c.c., e 115 116 c.p.c.”, essendo stati, in particolare, violati i principi di diritto in materia di diffamazione e di onere della prova.

Si assume come debba essere sottoposto a “ponderata rivisitazione” l’orientamento in base al quale risulta scriminata la condotta del giornalista che riporti acriticamente l’intervista avente carattere diffamatorio di un personaggio pubblico. Infatti, tanto la giurisprudenza della Corte costituzionale (il riferimento è alla sentenza n. 38 del 12 aprile 1973), quanto quella di questa Corte, che ha valorizzato taluni arresti nella giurisprudenza sovranazionale, dovrebbero indurre a ritenere che la divulgazione di notizie false non può mai presupporre una tutela della libertà di espressione di colui che ne sia responsabile, in quanto la ricerca della verità storica costituisce sempre – secondo il ricorrente – parte integrante e necessaria della libertà di espressione.

Di qui, pertanto, l’ipotizzata violazione delle norme suddette, nonchè dello stesso art. 2697 c.c., laddove la Corte capitolina ha erroneamente affermato l’inesistenza dell’onere, in capo a RCS e alla S., di provare almeno la verosimiglianza delle affermazioni rese dall’intervistato B..

3.4. Infine, il quarto motivo – proposto nuovamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 2,21 e 111 Cost.”, oltre che degli “artt. 51 e 110 c.p., art. 2697 c.c., nonchè art. 116 c.p.c.”, essendo stati, in particolare, violati i principi di diritto in materia di diffamazione, oltre che la regola di giudizio in materia di valutazione della prova.

Ci si duole del fatto che la sentenza impugnata abbia valutato gli elementi di prova in modo parziario e frammentario, prendendo in esame solo alcuni passi dell’articolo in esame e non procedendo ad una valutazione sistematica e complessiva degli elementi probatori risultanti dall’articolo stesso, in questo modo pervenendo ad una erronea ricostruzione della “quaestio facti”, che l’ha indotta a ritenere applicabile la scriminante del diritto di cronaca.

4. La società RCS e la S. hanno resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

In via preliminare viene eccepita l’inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1), essendosi la sentenza impugnata uniformata ai principi enunciati da questa Corte in materia di diffamazione a mezzo stampa.

Infondati, inoltre, sarebbero i singoli motivi di ricorso, il primo, in particolare, perchè la sentenza reca una motivazione esauriente delle ragioni del rigetto della domanda risarcitoria nei confronti della S. e di RCS, soprattutto laddove evidenzia che le considerazioni della giornalista sulla segregazione dei disabili riguardavano il fenomeno così come si riscontra in ambito familiare, come reso evidente dal riferimento a termini come “mura domestiche”, “famiglia” e “casa”, che figuravano nel testo dello scritto. Nessun riferimento, pertanto, vi sarebbe (se non nelle dichiarazioni del B.) agli Istituti privati di assistenza, tra i quali l’odierno ricorrente. Inoltre, il difetto di motivazione neppure potrebbe ravvisarsi quanto alla mancata esplicitazione dell’accoglimento di taluni motivi di appello, essendo evidente che la Corte capitolina ha proceduto alla loro trattazione congiunta, facendo, oltretutto, applicazione del principio della “ragione più liquida”.

Quanto, poi, agli altri motivi di ricorso, se ne assume l’infondatezza sulla scorta delle seguenti considerazioni.

In particolare, si evidenzia come sia del tutto sufficiente – affinchè il giornalista possa invocare la scriminante del diritto di cronaca, allorchè riporti dichiarazioni del soggetto intervistato aventi contenuto diffamatorio – la sussistenza di un interesse alla divulgazione delle dichiarazioni stesse, da valutarsi in relazione alla “qualità” dei soggetti coinvolti e alla materia della discussione, nonchè, più in generale, del contesto in cui esse sono state rilasciate. Non sarebbe, pertanto, necessariamente richiesta la qualità di “soggetto pubblico” dell’autore delle dichiarazioni e del destinatario delle stesse.

Quanto, poi, alle restanti censure, esse si risolverebbero in un tentativo di sollecitare questa Corte, inammissibilmente, a procedere ad una rinnovata (e non consentita) decisione del merito della controversia.

5. Hanno presentato memoria tutte le parti, insistendo nelle rispettive argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. Il primo motivo non è fondato.

6.1.1. In via preliminare deve muoversi dalla constatazione che costituisce consolidato principio, enunciato da questa Corte, quello secondo cui, “in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 14 marzo 2018, n. 6133, Rv. 648418-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 30 maggio 2017, n. 13520, non massimata sul punto; Cass. Sez. 3, sent. 27 luglio 2015, n. 15759, non massimata, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 80, Rv. 621133-01).

Di conseguenza, il “controllo affidato al giudice di legittimità è dunque limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonchè al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), applicabile “ratione temporis””, mentre resta “del tutto estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione, non potendo la Corte di cassazione sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine a tale accertamento” (così, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 6133 del 2018, cit.).

Se, dunque, il sindacato sulla congruità della motivazione va condotto alla stregua del testo, “ratione temporis” applicabile, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deve, allora, constatarsi come quello “novellato” – operante rispetto alla presente fattispecie -dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, limiti il sindacato di questa Corte sulla parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01), in quanto affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), o perchè “perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

Nessuna delle evenienze descritte – “irriducibile contraddittorietà”, ovvero, “perplessità e incomprensibilità” delle argomentazioni poste a fondamento del “decisum” – ricorre nel caso di specie.

La Corte territoriale, infatti, ha ritenuto che la frase introduttiva della giornalista non potesse considerarsi alla stregua di un commento personale sull’Istituto L.V., risultando del tutto scollegata dalle dichiarazioni dell’intervistato (che ha fatto, invece, espresso riferimento a detto Istituto), anche perchè tale frase risulta precedere, e non seguire, le stesse, essendo esclusivamente finalizzata sia ad illustrare l’argomento sviluppato nello scritto, mediante una ricognizione generale e sintetica sul fenomeno della disabilità, sia a presentare l’intervistato, Presidente della Federazione italiana superamento handicap. Si tratta di affermazioni che appaiono immuni da aporie logiche, anche in ragione del fatto – ben evidenziato dalle controricorrenti – che il riferimento, contenuto nella parte iniziale dell’articolo, alle condizioni di “segregazione” in cui ancora vivrebbero molti disabili tende a suscitare l’attenzione del lettore (come reso evidente dal riferimento a termini come “mura domestiche”, “famiglia” e “casa”) soprattutto con riguardo alla dimensione “domestica” del fenomeno, ciò che rende non conferente, rispetto al caso in esame, la giurisprudenza citata dalla ricorrente nella memoria depositata in vista dell’adunanza camerale di questa Corte.

D’altra parte, quanto ai rilievi che investono le (supposte) carenze motivazionali in ordine al cd. “evento-dichiarazione”, costituito dalle parole del soggetto intervistato (il B.), le stesse formano oggetto della censura – articolata con il secondo motivo di ricorso – di falsa applicazione della scriminante del diritto di cronaca, sicchè la loro disamina deve essere condotta nello scrutinare tale motivo.

Nè, per concludere sul punto, sembra ipotizzabile alcuna carenza motivazionale in ordine all’individuazione dei motivi dell’appello principale, in accoglimento dei quali la Corte capitolina ha parzialmente riformato la sentenza resa in prime cure, giacchè risulta evidente come il giudice di appello abbia proceduto ad un esame congiunto degli stessi, ponendo a fondamento quelli che ipotizzavano la ricorrenza della scriminante del diritto di cronaca e, nella sostanza, “assorbendo” gli altri.

6.2. Anche il secondo motivo non è fondato.

8.2.1. Non trova, infatti, riscontro, nella giurisprudenza di questa Corte (anche penale, come si vedrà meglio di seguito), l’affermazione secondo cui il contegno del giornalista, che riproduca un’intervista contenenti affermazioni diffamatorie, presupponga, perchè possa ritenersi lo stesso scriminato dal diritto di cronaca, la condizione di “soggetto pubblico” sia dell’intervistato che della vittima della diffamazione.

Ancora di recente, infatti, è stato ribadito che “in tema di diffamazione a mezzo stampa, qualora la cronaca abbia ad oggetto il contenuto di un’intervista, il requisito della verità dei fatti va apprezzato in relazione alla corrispondenza fra le dichiarazioni riportate dal giornalista e quelle effettivamente rese dall’intervistato, con la conseguenza che il giornalista, laddove non abbia manipolato od elaborato tali dichiarazioni, in modo da falsarne anche parzialmente il contenuto, non può essere chiamato a rispondere di quanto affermato dall’intervistato, semprechè ricorrano gli ulteriori requisiti dell’interesse pubblico alla diffusione dell’intervista e della continenza, da intendersi rispettato per il sol fatto che il giornalista abbia riportato correttamente le dichiarazioni, a prescindere da qualsiasi valutazione sul loro contenuto” (Cass. Sez. 3, sent. 31 ottobre 2014, n. 23168, Rv. 633376-01).

Ciò che rileva, in altri termini, per l’operatività della scriminante è “la sussistenza, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione o ad altri caratteri dell’intervista, di indiscutibili profili di interesse pubblico all’informazione”, (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 23168 del 2014, cit.) e ciò in quanto “la “notizia” di interesse pubblico si identifica nella stessa dichiarazione del terzo”, spettando, peraltro, in tali ipotesi “al giudice di merito valutare, caso per caso, in ragione della qualità dei soggetti coinvolti, della materia e del contesto della discussione, la prevalenza di tale interesse sul diritto del singolo alla tutela dell’onore e della reputazione, nonchè verificare la circostanza che, di quanto riferito dal giornalista, fosse ben chiara al lettore la natura di opinioni e dichiarazioni di terzi, e non di verità obiettive” (Cass. Sez. 3, sent. 11 settembre 2014, n. 19152, Rv. 632943-01).

E’, dunque, la “qualità dei soggetti coinvolti” (non necessariamente il loro rilievo pubblico), nonchè “la materia della discussione ed il più generale contesto in cui le dichiarazioni sono state rese”, gli elementi in grado di rivelare quegli “indiscutibili profili di interesse pubblico all’informazione, tali da far prevalere sulla posizione soggettiva del singolo il diritto di informare del giornalista” (così già Cass. Sez. 3, sent. 24 aprile 2008, n. 10686, Rv. 60294901; Cass. Sez. 3, sent. 25 febbraio 2002, n. 2733, Rv. 552511- 01).

Orbene, nella specie non può negarsi che la “qualità” dei due soggetti, essendo il B. il Presidente di un’associazione, di rilevanza nazionale, attiva nel settore della tutela dei soggetti disabili, e l’odierno ricorrente un operatore del medesimo settore, in uno con il contesto della discussione (che rievocava l’adesione dell’Italia alla Convenzione Onu a tutela di tali soggetti), giustificassero la pubblicazione delle sue dichiarazioni, non potendo, infine, avanzarsi dubbi – per le ragioni già illustrate con riferimento al primo motivo di ricorso – sul fatto che “fosse ben chiara al lettore la natura di opinioni e dichiarazioni di terzi, e non di verità obiettive”.

Del carattere diffamatorio delle stesse, dunque, risponde esclusivamente il B..

6.3. Il terzo motivo, del pari, non è fondato.

6.3.1. Esso, dichiaratamente, sollecita un ripensamento della giurisprudenza – le cui linee essenziali si sono sopra ricostruite – in ordine al tema, qui in esame, delle condizioni perchè possa ritenersi “scriminata” la condotta del giornalista (o meglio, in sede civile, perchè possa escludersi che sia “non iure datum” il danno alla reputazione riconducibile, comunque, a tale contegno) che pubblichi un’intervista diffamatoria. In particolare, lo scopo cui mira la censura qui in esame è quello di fare carico all’operatore dell’informazione, anche in questi casi, di una verifica sulla “verità” di quanto riferito.

Sul punto occorre richiamare quanto affermato dalle Sezioni Unite Penali di questa Corte, in quello che può considerarsi il “leading case” da cui origina il suddetto indirizzo giurisprudenziale: pretendere che “il giornalista intervistatore controlli in ogni caso la verità storica del contenuto dell’intervista potrebbe comportare una grave limitazione alla libertà di stampa, atteso che le obbiettive difficoltà che costui potrebbe incontrare nel verificare la corrispondenza a verità di quanto dichiarato” potrebbero “indurlo, per prudenza, a rinunciare alla pubblicazione dell’intervista”; d’altra parte, pretendere che il pubblicista si astenga dal pubblicare un’intervista “significherebbe comprimere il diritto-dovere di informare l’opinione pubblica su tale evento, non potendo, tra l’altro attribuirsi al giornalista il compito di purgare il contenuto dell’intervista dalle espressioni offensive, sia perchè gli verrebbe attribuito un potere di censura che non gli compete” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un. Pen., sent. 16 ottobre 2001, n. 37140).

D’altra parte, se è vero che la giurisprudenza costituzionale – che il ricorrente richiama a sostegno della propria richiesta di “overruling” – ha evidenziato, e non da ora, il rango costituzionale del diritto all’onore e alla reputazione, essa ha, nondimeno, pure da tempo affermato che quella all’informazione “è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle (…) che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale” (Corte Cost., sent, n. 9 del 1965), sottolineando, pertanto, che il diritto previsto dall’art. 21 Cost. è “il più alto, forse,” dei “diritti primari e fondamentali” sanciti dalla Costituzione (Corte Cost., sent. n. 168 del 1971). Anche la libertà di manifestazione del pensiero rientra, quindi, tra i “diritti inviolabili dell’uomo” di cui all’art. 2 Cost. (Corte Cost., sent. n. 126 del 1985), con la conseguenza, da un lato, che la Repubblica ha il dovere di garantirla anche nei confronti dei privati – nel senso che “non è lecito dubitare che la libertà (in parola) debba imporsi al rispetto di tutti, delle pubbliche autorità come dei consociati, e che nessuno possa arrecarvi attentato”, (Corte Cost., sent. n. 122 del 1970) – e, dall’altro, della non sopprimibilità della stessa.

L’eguale rango, dunque, dei beni in conflitto non può prescindere, pertanto, da un’operazione di bilanciamento, giacchè la pubblicazione di un’intervista diffamatoria reca in sè il rischio che “l’utilizzazione della “cassa di risonanza” rappresentata dalla stampa” possa “dare adito ad abusi e a palesi violazioni del diritto all’integrità morale dei cittadini”; di qui, dunque, la necessità che alla scriminante del diritto di cronaca non si attribuisca “un natura statica e immutabile, dovendosi riconoscere ad essa una struttura dinamica e flessibile, adattabile di volta in volta a realtà diverse”, sicchè “la soluzione, caso per caso, della sussistenza, o meno, della responsabilità del giornalista intervistatore per avere pubblicato dichiarazioni diffamatorie dell’intervistato deve essere necessariamente demandata al giudice del merito, il quale dovrà tener conto, in primo luogo, dell’effettivo grado di rilevanza pubblica dell’evento dichiarazione, considerando poi – al fine di verificare se davvero il giornalista si sia limitato a riferire l’evento piuttosto che a divenire strumento della diffamazione – in quale contesto valutativo e descrittivo siano riportate le dichiarazioni altrui, quale sia la plausibilità e l’occasione di tali dichiarazioni”, e ciò al fine di stabilire “se il giornalista abbia assunto la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, agendo per conto dei suoi lettori, ovvero sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria” (così, in motivazione, nuovamente Cass. Sez. Un. Pen., sent. n. 37140 del 2001, city. Evenienza, quest’ultima, ipotizzabile quando “la consecuzione, la suggestività, l’articolazione di artifici dialettici o retorici nella formulazione delle domande o delle premesse o dei commenti” assumano rilievo “come concausa della lesione dell’altrui onore e reputazione o, addirittura, come causa esclusiva” (Cass. Sez. 3, sent. 17 giugno 2013, n. 15112, Rv. 626951-01).

A questo corretto “modus operandi” si è attenuta la Corte territoriale con la sentenza impugnata, esprimendo valutazioni che per le ragioni già illustrate – risultano immuni dai vizi denunciati.

6.4. Infine, il quarto motivo di ricorso è inammissibile, in relazione ad entrambe le censure in cui si articola.

6.4.1. Quanto all’ipotizzata violazione dell’art. 116 c.p.c., va qui ribadito che l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4), – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01).

Quanto alla violazione dell’art. 2697 c.c., va, del pari, confermato che essa è prospettabile non – come nel caso in esame per contestare l’apprezzamento delle risultanze probatorie, essendo “configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).

7. L’alterno esito dei giudizi di merito costituisce “giusto motivo”, ex art. 92 c.p.c., comma 2, (nel testo di cui alla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), applicabile “ratione temporis” al presente giudizio, visto che l’atto di citazione risulta notificato il 15 luglio 2008) per l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese del presente giudizio.

8. A carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 31 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2019

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