Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22845 del 09/11/2016


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Cassazione civile sez. I, 09/11/2016, (ud. 28/09/2016, dep. 09/11/2016), n.22845

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27897-2011 proposto da:

T.A. S.R.L., (c.f. (OMISSIS)), già T.A.

S.A.S., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA FREZZA 59, presso

l’avvocato EMILIO PAOLO SANDULLI, che la rappresenta e difende,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI S. STEFANO DEL SOLE, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SUDO GIULIOLI 47/B/18, presso

il sig. GIUSEPPE MAZZITELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato

ANTONIO SORICE, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1963/2011 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 01/06/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/09/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato SANDULLI EMILIO PAOLO che si

riporta;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato SORICE ANTONIO che si

riporta;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo

di ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con atto di citazione notificato il 3 luglio 1996, la T.A. s.a.s. (poi trasformata in s.r.l.) conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Avellino, il Comune di S. Stefano del Sole, chiedendone la condanna – per quel che ancora rileva in questa sede – alla corresponsione dell’indennizzo, ai sensi dell’art. 2041 c.c., per l’avvenuta esecuzione, fuori contratto, delle strutture murarie di contenimento, di protezione e di sostegno del campo di calcio, la cui realizzazione aveva costituito oggetto dell’appalto concluso con l’amministrazione in data 28 settembre 1988. Il convenuto si costituiva opponendosi alla domanda attorea e chiedendone il rigetto.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 959/2006, rigettava la domanda.

2. Avverso tale decisione proponeva appello la T.A. s.a.s., che veniva, del pari, respinto dalla Corte di Appello di Napoli, con sentenza n. 1963/2011, depositata l’1 giugno 2011, con la quale il giudice del gravame escludeva anzitutto, in via pregiudiziale, che sussistesse la dedotta nullità della sentenza di prime cure, poichè emessa da un giudice onorario di tribunale, in violazione del disposto del R.D. n. 12 del 1941, art. 43 bis. Nel merito, la Corte – confermando quanto statuito in prime cure – riteneva carente, nella specie, il presupposto per l’accoglimento dell’azione ex art. 2041 c.c., costituito dal riconoscimento dell’utilitas dell’opera da parte della pubblica amministrazione.

3. Per la cassazione di tale decisione ha proposto, quindi, ricorso la T.A. s.r.l. nei confronti del Comune di S. Stefano del Sole, affidato a tre motivi, illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

4. Il resistente ha replicato con controricorso e con memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo e secondo motivo di ricorso, la T.A. s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione del R.D. n. 12 del 1941, artt. 42 e 43 bis (ordinamento giudiziario), artt. 158 e 161 c.p.c., artt. 102 e 106 Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 43 bis cit., in relazione agli artt. 3, 24, 97, 101, 102, 104, 106, 107 e 111 Cost., nonchè l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

1.1. La ricorrente lamenta che la Corte di Appello non abbia ritenuto affetta da nullità, per violazione del disposto di cui all’art. 158 c.p.c., la decisione emessa in primo grado da un giudice onorario di tribunale (g.o.t.) e non da un magistrato togato. La Corte territoriale non avrebbe, invero, considerato – al riguardo – che ai giudici in questione è attribuita, dal R.D. 30 gennaio, n. 12, art. 43 bis esclusivamente una funzione vicaria, ossia di sostituzione dei giudici togati in caso di loro assenza ed impedimento. Talchè non potrebbe ai medesimi giudicanti essere demandata la decisione di una controversia, e tanto meno l’intera gestione di un intero ruolo di cause. Significativo in tal senso sarebbe, a parere dell’istante, il fatto che la norma succitata ha fatto divieto al capo dell’ufficio ovvero al presidente della sezione o ad altro magistrato che la dirige – di assegnare ai giudici onorari i procedimenti cautelari e possessori, connotati dalla provvisorietà e dalla strumentalità alla decisione di merito. Sicchè sarebbe del tutto illogico ed irragionevole ritenere – in difetto di un’espressa previsione normativa – che ad essi possa essere conferita addirittura una potestà decisoria.

Siffatta attribuzione – a parere dell’istante – colliderebbe, infatti, con il disposto degli artt. 3, 24, 97, 102, 106 e 111 Cost. a tenore dei quali la funzione giurisdizionale, della quale il momento decisionale rappresenta il nucleo centrale ed essenziale, e l’intera attività che ad essa si correla, compresa l’attività difensiva, non potrebbero che essere demandate ai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario ed assunti mediante concorso, a garanzia della migliore funzionalità del processo in relazione a tutte le cause, senza distinzioni di sorta. Per cui solo eccezionalmente tale delicata funzione potrebbe essere attribuita ai giudici onorari, come si desumerebbe, oltre che dalle disposizioni costituzionali succitate, e segnatamente dagli artt. 102 e 106 Cost., anche dalla stessa previsione di cui al R.D. n. 12 del 1941, art. 43 bis laddove stabilisce che i g.o.t. “non possono tenere udienza se non nei casi di impedimento o di mancanza dei giudici ordinari”.

1.2. Le censure sono infondate.

1.2.1. Deve, per vero, anzitutto escludersi che la figura del giudice onorario – come sostiene la ricorrente – sia da considerarsi eccezionale nel nostro ordinamento costituzionale, atteso che l’art. 106 Cost., dopo avere stabilito, al primo comma, che “le nomine del magistrati hanno luogo per concorso”, aggiunge, al comma 2, che “la legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”. Ne discende che il nostro sistema ordi-namentale conosce due diverse e parallele forme di reclutamento dei magistrati: il concorso per i giudici togati; la nomina in forma diversa – anche mediante elezione – per i giudici onorari. Con l’ulteriore conseguenza che anche questi ultimi – attesa la legittimità della loro presenza nell’ordinamento giudiziario, a norma del citato art. 106 Cost. – sono ricompresi tra i magistrati ordinari menzionati dall’art. 102 Cost. e art. 1 c.p.c.. Va, pertanto, anzitutto esclusa l’illegittimità costituzionale del R.D. n. 12 del 1941, art. 43 bis sulla base del preteso carattere eccezionale delle funzioni giurisdizionali attribuibili ai giudici onorari, atteso che l’art. 106 Cost. prevede la nomina di giudici onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli con piena parificazione dei primi a questi ultimi (cfr. Cass. S.U. 12644/2008).

1.2.2. Tali rilievi hanno, quindi, consentito alla successiva giurisprudenza di precisare altresì che, sebbene l’art. 106 Cost. faccia riferimento alle funzioni attribuite a giudici togati singoli, giacchè questi ultimi sono chiamati – nelle materie previste dalla legge – a comporre i collegi nei tribunali ordinari, è ben possibile che anche i giudici onorari siano chiamati ad integrare gli stessi collegi, potendo ivi svolgere perfino le funzioni di giudice di appello (cfr. Cass. 18002/2010), essendo irrilevante anche ogni diversa previsione da parte delle Circolari del CSM, trattandosi di fonti normative di secondo grado, che – come tali – non possono introdurre ipotesi di nullità processuali non espressamente previste dalla legge (cfr. Cass. 1376/2012; 727/2013; 466/2016).

Se ne deve inferire, dunque, che i giudici onorari sono legittimati a decidere ogni processo ed a pronunciare qualsiasi sentenza – monocratica o collegiale – per la quale non vi sia espresso divieto di legge, con piena assimilazione dei loro poteri a quelli dei magistrati togati. Deve, di conseguenza, escludersi la denunciata violazione, nella specie, dell’art. 158 c.p.c., tenuto conto che il vizio di costituzione del giudice è ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all’ufficio, non investita della funzione esercitata: ipotesi questa, per le ragioni suesposte, non ricorrente nella fattispecie in esame (cfr. Cass. S.U. 12644/2008; 466/2016).

1.2.3. Nè a diversa conclusione potrebbe indurre il tenore letterale del R.D. n. 12 del 1941, art. 43-bis, comma 2, laddove riproduce, per i giudici onorari, l’art. 34, comma 1, riguardante i vice pretori onorari, ma con l’eliminazione dell’inciso “di regola” (riferito al divieto di tenere udienza, se non in caso di impedimento o mancanza dei giudici ordinari). Tale previsione, infatti, se, da un lato, sembra voler ridurre i margini di flessibilità della disposizione, dall’altro non impedisce di conferire l’incarico onorario in caso di “impedimento” o di “mancanza” del giudice togato, da intendersi quest’ultima come comprensiva di quelle situazioni eccezionali di sproporzione fra organici degli uffici e domanda di giustizia, rispetto alle quali un ugualmente eccezionale ricorso all’impiego della magistratura onoraria, conserva, nella sostanza, una funzione suppletiva e costituisce misura sicuramente apprezzabile, nell’attuale situazione di sovraccarico degli uffici giudiziari, in un’ottica di efficienza dell’amministrazione della giustizia”, nel rispetto delle previsioni di cui agli artt. 97 e 111 Cost. (principio del giusto processo). Mancanza significa, invero, non solo assenza temporanea del titolare, ma anche vacanza del posto in organico, o addirittura insufficienza dell’organico rispetto alle esigenze dell’ufficio (Cass. S.U. 129/1999).

Ne consegue che, non soltanto l’affidamento ai giudici onorari della decisione di qualsiasi controversia civile non contrasta con i parametri costituzionali indicati dal ricorrente, ma – ben al contrario – è finalizzato a garantire il soddisfacimento delle esigenze di incremento della produttività e, quindi, di maggiore efficienza dell’ organizzazione giudiziaria, scaturenti dal progressivo aumento della domanda di giustizia.

1.2.4. In tale prospettiva è evidente che la sottrazione ai g.o.t. dei soli procedimenti cautelari e possessori ante causam – richiamata dalla ricorrente a supporto della propria tesi – si giustifica con l’intento del legislatore di evitare che possano essere affidati ai giudici onorari provvedimenti emessi a seguito di una delibazione sommaria, di mera verosimiglianza dell’esistenza del diritto azionato, che possono essere addirittura idonei ad anticipare gli effetti della decisione definitiva, e che – in tale ultima ipotesi – non sono neppure soggetti alla necessaria verifica nel giudizio di merito, la cui instaurazione è facoltativa, ai sensi dell’art. 669 octies c.p.c., comma 6, e art. 669 novies c.p.c., comma 1. Il che spiega peraltro perchè tali procedimenti possano, per converso, essere affidati ai g.o.t. se instaurati nel corso della causa di merito o del giudizio petitorio, essendo il provvedimento cautelare soggetto, in siffatta ipotesi, alla verifica in sede decisionale, rimanendo assorbito dalla decisione finale, a sua volta soggetta a riesame negli ulteriori gradi del giudizio.

1.3. Per tutte le ragioni che precedono, pertanto, i motivi in esame devono essere disattesi.

2. Con il terzo motivo di ricorso, la T.A. s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2697 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

2.1. Si duole la ricorrente del fatto che la Corte di merito, nel delibare il fondamento dell’azione ex art. 2041 c.c., proposta in prime cure, non abbia tenuto conto del fatto che vi sarebbe stato un effettivo arricchimento da parte del Comune per la realizzazione, da parte dell’impresa T.A., delle strutture murarie di contenimento, di protezione e di sostegno a monte ed a valle del campo di calcio, accompagnato da un riconoscimento, quanto meno implicito, dell’utilità di detti lavori extra contratto da parte dell’ente pubblico committente. Il che sarebbe comprovato – a parere dell’istante – dal rilascio del certificato di regolare esecuzione dei lavori e del certificato di collaudo (in data 4 giugno 1994), dall’utilizzazione concreta del campo di calcio oggetto del contratto di appalto e dalle relazioni di c.t.u. disposte nel corso del giudizio di merito.

2.2. La doglianza è infondata.

2.2.1. Va premesso che non è in discussione, nel caso di specie, la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell’azione imposto dall’art. 2042 c.c., non essendo applicabile ratione temporis alla fattispecie concreta la normativa di cui al D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (conv. nella L. 24 aprile 1989, n. 144, abrogato dal D.Lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, art. 123, comma 1, lett. n) ma riprodotto senza sostanziali modifiche dall’art. 35 medesimo decreto, e infine rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191) che, per i casi di richiesta di prestazioni o servizi, non rientranti nello schema procedimentale di spesa tipizzato dalla stessa normativa, ha previsto la costituzione di un rapporto obbligatorio diretto con l’amministratore o funzionario responsabile, correlativamente rimettendo all’ente pubblico la valutazione esclusiva circa l’opportunità o meno di attivare il procedimento del riconoscimento del debito fuori bilancio, neì limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso (cfr. D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, lett. e)).

Ed invero, non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività del succitato D.L. n. 66 del 1989, deve ritenersi l’esperibilità, nella specie, dell’azione di indebito arricchimento nei confronti della p.a. per tutte le prestazioni e i servizi resi alla stessa anteriormente all’entrata in vigore di tale normativa, non difettando il requisito della sussidiarietà neppure per il fatto che il privato può agire direttamente contro chi – amministratore o funzionario – abbia invalidamente commissionato le opere o i servizi, atteso che la responsabilità diretta dei funzionari e dipendenti pubblici è posta dall’art. 28 Cost. su di un piano alternativo e paritetico a quello della p.a. (cfr., ex plurimis, Cass. 10636/2012; 8534/2008; 19572/2007). E poichè, nel caso concreto, i lavori in contestazione furono eseguiti nell’anno 1988, è indubbio che il depauperato non aveva la possibilità di farsi indennizzare del pregiudizio subito agendo, ai sensi della normativa citata. direttamente nei confronti dell’amministratore o del funzionario che aveva consentito l’acquisizione. L’azione proposta nel presente giudizio nei confronti del Comune di Santo Stefano del Sole deve, pertanto, considerarsi pienamente ammissibile.

2.2.2. Premesso quanto precede, osserva la Corte che, nelle more del presente giudizio di legittimità, è intervenuta la pronuncia n. 10798/2015 – richiamata anche dalla ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c. – con la quale le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto verificatosi nella giurisprudenza di questa Corte in ordine al requisito del riconoscimento dell’utilitas da parte della pubblica amministrazione, in materia di azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c.. Privilegiando una valutazione oggettiva dell’arricchimento, che prescinda dal riconoscimento, esplicito o implicito, dell’ente beneficiato, le Sezioni Unite sono pervenute al convincimento che l’istituto in esame si incentri sull’attribuzione concreta di un effettivo vantaggio all’ente pubblico, talchè si deve indagare, non tanto se quest’ultimo abbia riconosciuto l’arricchimento, quanto se sia stato almeno consapevole della prestazione indebita e nulla abbia fatto per respingerla, ovvero se sia addirittura mancata la conoscenza dell’avvenuta prestazione del bene o del servizio. Sicchè nell’avvenuta utilizzazione di detta prestazione è da ravvisare, secondo le Sezioni Unite, invece che un atto di riconoscimento “difficilmente definibile nei suoi caratteri, e soprattutto giuridicamente inammissibile, non potendo mai condizionarsi la proponibilità di un’azione ad una preventiva manifestazione di volontà del soggetto contro cui essa è diretta” – un mero fatto dimostrativo dell’imputabilità giuridica a tale soggetto della situazione di arricchimento concreto dedotta in giudizio.

Il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito, dunque, non costituisce – secondo l’arresto nomofilattico in esame – requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicchè il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso. Esso può, per contro, eccepire e provare – come dianzi detto – che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto”.

2.2.3. Orbene, facendo applicazione dei principi suesposti alla fattispecie concreta, ritiene la Corte che dall’esame degli atti del presente giudizio debba inferirsi che l’arricchimento in questione non fu effettivamente voluto dall’arricchito e che, comunque, l’ente beneficiato non ne fu effettivamente consapevole.

2.2.3.1. In tal senso, è anzitutto significativo che – come si evince dallo stesso ricorso dell’impresa T. – la realizzazione delle strutture murarie di contenimento, di protezione e di sostegno del campo di calcio, non previste nel contratto di appalto ed effettuate dall’impresa “prima ancora di dare inizio alla realizzazione dell’opera appaltata” (p. 2), non furono inserite nella perizia di variante e suppletiva in data 12 dicembre 1991, nella quale la ditta appaltatrice si era, peraltro, obbligata ad eseguire ulteriori lavori previsti nella medesima perizia e nel relativo atto di sottomissione. In detta perizia di variante e suppletiva, invero, l’esecuzione delle menzionate opere fuori contratto – a detta della medesima ricorrente – non fu “riportata” e, quindi, non fu “contabilizzata”, anche se era stata “espressamente “consigliata” e “raccomandata” dal progettista e direttore dei lavori”. Tali opere furono, perciò, solo materialmente incorporate nell’opera successivamente realizzata, senza che alcuna accettazione delle stesse venisse operata da parte dell’amministrazione committente.

A tanto va soggiunto che, fin dall’atto della sua costituzione nel giudizio di primo grado, il Comune di Santo Stefano del Sole aveva eccepito – come riportato nello stesso ricorso dell’impresa appaltatrice (p. 9) – che le opere extra-contratto erano state eseguite “in difetto di ordine scritto della d.l. e dell’approvazione della necessaria variante suppletiva”, e che, pertanto, “la d.l. aveva rigettato le riserve formulate dall’impresa ai fini del pagamento delle opere in contestazione”, in quanto i compensi richiesti si riferivano “ad opere arbitrariamente ed autonomamente eseguite dall’impresa e certamente non indispensabili”. La mancanza di consapevolezza dell’ente e la sussistenza di un’autonoma e non autorizzata iniziativa dell’appaltatrice volta all’esecuzione delle menzionate opere fuori contratto veniva, poi, ribadita dalla difesa del Comune di Santo Stefano del Sole nel giudizio di appello, nel quale l’ente eccepiva – come riferito dal resistente nel controricorso (pp. 5 e 6) – che l’impresa si era sostituita all’amministrazione, decidendo in assoluta autonomia la realizzazione delle opere nei modi più convenienti, “stabilendone per giunta l’ammontare sulla scorta di un computo metrico (…) rigorosamente occultato alla stazione appaltante”.

2.2.3.2. Da quanto suesposto deve inferirsi, dunque, che le opere strutturali aggiuntive furono eseguite dall’impresa T., non solo senza autorizzazione, ma anche senza consapevolezza alcuna da parte della stazione appaltante, che non intese accettarle neppure successivamente, poichè ritenute non indispensabili, come dimostra in particolare il mancato loro inserimento nella perizia di variante e suppletiva del 12 dicembre 1991. Trattasi, pertanto, all’evidenza, di un “arricchimento imposto”, come tale inidoneo a fondare l’azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c..

A fronte di tali inequivoche risultanze di causa nessun rilievo può, invero, ascriversi al rilascio del certificato di regolare esecuzione dei lavori e del certificato di collaudo (in data 4 giugno 1994), dal quale sarebbe risultata la regolare esecuzione anche delle opere murarie oggetto di causa, in quanto tale certificazione ha la sola funzione di accertare l’avvenuta esecuzione dell’opera, non equivale ad accettazione della stessa e non preclude eventuali contestazioni in ordine alla quantità dei lavori eseguiti (Cass. 11365/1999).

Nè possono assumere una specifica valenza, ai fini di evidenziare che l’arricchimento sia effettivamente imputabile all’ente committente, l’utilizzazione del campo di calcio oggetto del contratto di appalto – dovuta al mero fatto che le strutture murarie in questione erano fisicamente compenetrate nell’opera, senza peraltro una volontà del preteso beneficiato di accettarle – e le relazioni di c.t.u. disposte nel corso del giudizio di merito, che avrebbero accertato la funzionalità di dette strutture alla “durabilità e conservazione dell’intera opera”, trattandosi di valutazioni provenienti da un soggetto del tutto estraneo alla p.a.

2.4. Per tutte le ragioni che precedono, il motivo va, pertanto, disatteso.

3. Il ricorso proposto dalla T.A. s.r.l. deve essere, di conseguenza, integralmente rigettato.

4. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, nella misura di cui in dispositivo.

PQM

La Corte Suprema di Cassazione;

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 28 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2016

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