Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22841 del 12/08/2021

Cassazione civile sez. I, 12/08/2021, (ud. 08/04/2021, dep. 12/08/2021), n.22841

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 18121/2019 r.g. proposto da:

A.H., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso,

giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato

Marco Lanzilao, presso il cui studio elettivamente domicilia in

Roma, al viale Angelico n. 38;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del

Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI ROMA depositata in data

05/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 08/04/2021 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A.H. (alias A.A.H.) ricorre per cassazione, affidandosi a sei motivi, avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 2333/2019, reiettiva del gravame da lui proposto contro la decisione del Tribunale della stessa città che – come già la commissione territoriale – aveva respinto la sua domanda di protezione internazionale (sub specie di riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria) o di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il Ministero dell’Interno è rimasto solo intimato.

1.1. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte, tenuto conto del racconto del richiedente (che, innanzi al tribunale, aveva riferito di essere scappato dal Bangladesh “sia per sottrarsi alle indagini che l’autorità giudiziaria del Bangladesh stava svolgendo per un fatto (che lui aveva ivi dichiarato di aver commesso. Ndr) che anche in Italia è considerato un delitto grave, punito con severe pena detentiva, sia per sottrarsi ad una vendetta originata da fatti strettamente privati che non oltrepassano il ristrettissimo ambito della faida tra le due famiglie”), nonché della situazione socio-politica del suo Paese di provenienza (Bangladesh), ha ritenuto insussistenti i presupposti necessari per il riconoscimento della protezione sussidiaria o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo, rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Omesso esame dei motivi di appello. Mancata applicazione del potere officioso del giudice. Mancata valutazione delle prove. Errata applicazione della norma procedurale. Omessa audizione”. Assume il ricorrente che “Il Giudice di appello, alla luce delle doglianze espresse dall’esponente nell’atto introduttivo di secondo grado, una volta verificato che il fascicolo di ufficio del primo grado del giudizio non era pervenuto nella propria sfera di conoscibilità, avrebbe avuto il dovere di utilizzare il proprio potere officioso e richiedere il fascicolo di ufficio ovvero di ordinarne alla parte la produzione/ricostruzione”.

1.1. Una siffatta doglianza si rivela in parte infondata ed in parte inammissibile.

1.2. In particolare, la stessa è infondata laddove denuncia un preteso “omesso esame dei motivi di appello”. Invero, – pure volendosi soprassedere in ordine al fatto che il corrispondente vizio si sarebbe dovuto formulare con riferimento al n. 4 (e non ai nn. 3 e 5, come invece avvenuto) dell’art. 360 c.p.c., comma 1 (cfr. Cass. n. 6835 del 2017; Cass. n. 22759 del 2014) – la sentenza impugnata reca argomentazioni di rigetto o inammissibilità per ciascuno dei motivi di appello scrutinati (riguardanti le richieste di protezione sussidiaria o del riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari), né l’ A. ha puntualmente indicato – come sarebbe stato suo preciso onere – quale motivo di gravame sarebbe rimasto non esaminato.

1.2.1. Non sussisteva, poi, alcun obbligo, per il giudice di appello/ di richiedere di ufficio o di ordinare la ricostruzione del fascicolo di parte di primo grado (quello di ufficio, infatti, diversamente da quanto oggi assunto dal ricorrente, era evidentemente nella disponibilità di quel giudice, il quale da lì aveva desunto le dichiarazioni rese dal primo innanzi al tribunale), dovendosi solo ricordare che, nel giudizio di appello, la mancata produzione del fascicolo di parte di primo grado non è prefigurata dalla legge come elemento di validità della costituzione in giudizio, come emerge inequivocamente dal combinato disposto dell’art. 163 c.p.c., comma 1, n. 5), e art. 164 c.p.c., che, alla omessa indicazione, da parte dell’attore, dei mezzi di prova e dei documenti offerti in comunicazione, non ricollegano alcun vizio di nullità della citazione, trattandosi di attività deduttiva riservata in via esclusiva al potere dispositivo della parte (cfr., in motivazione, Cass. n. 24461 del 2020). Parimenti era inconfigurabile un obbligo di audizione dell’appellante da parte della corte territoriale (cfr., ex aliis, Cass. n. 8931 del 2020), non avendo quest’ultima minimamente dubitato della credibilità del racconto dell’appellante.

1.2.2. Per il resto, la doglianza deve considerarsi inammissibile atteso che i vizi dell’attività del giudice (tale sarebbe l’effettivo contenuto della censura, ascrivendosi alla corte distrettuale di non aver esercitato un suo preteso potere processuale) che possano comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato error in procedendo, con conseguente onere dell’impugnante di indicare, a pena di inammissibilità del motivo, il danno concreto arrecatogli dall’invocata nullità processuale (cfr. ex multis, Cass. n. 2626 del 2018; Cass. n. 28229 del 2017; Cass. n. 17905 del 2016; Cass. n. 15676 del 2014; Cass. n. 18635 del 2011).

2. Il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso sono rubricati, rispettivamente: “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto della discussione tra le parti: la condizione di pericolosità e le situazioni di violenza generalizzata esistenti in Bangladesh. Omessa consultazione di fonti informative”; “Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 -Omesso/erroneo esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione Territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione della condizione personale del ricorrente”; “Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – Mancata concessione della protezione sussidiaria cui il ricorrente aveva diritto ex lege in ragione delle attuali condizioni socio politiche del Paese di origine: violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. Omesso esame delle fonti informative. Omessa applicazione dell’art. 10 Cost.”; “Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – Violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14, nonché del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. Difetto di motivazione e travisamento dei fatti”. Gli stessi censurano il mancato riconoscimento, in favore dell’ A., della protezione sussidiaria ed ascrivono alla corte distrettuale: i) di non avere effettuato una reale valutazione della situazione politica, sociale ed economica del Bangladesh, nemmeno indicando le COI aggiornate consultate per giungere all’affermazione dell’insussistenza, ivi, di una situazione di instabilità; ii) di non aver considerato che l’appellante aveva decisamente “negato l’evento violento e, quindi, l’eventuale reato commesso (in Bangladesh. Ndr), sostenendo esattamente il contrario, cioè di non averlo commesso”. Viceversa, “là corte di appello parte dal presupposto esattamente opposto e cioè che il ricorrente sia colpevole di tali fatti; presupposto che la corte ha dato per scontato, senza la benché minima indagine sul punto, omettendo (…) sia la consultazione documentale che una eventuale audizione del ricorrente”; iii) di non aver valutato che, dal rapporto Amnesty International del 2017, emergeva, tra l’altro, che in Bangladesh “e’ rimasto diffuso l’impiego di tortura e altri maltrattamenti in custodia; tuttavia, raramente le denunce sono state oggetto di indagine. La legge del 2013 sulla prevenzione della tortura e dei decessi in custodia è stata scarsamente applicata, a causa della mancanza di volontà politica e di consapevolezza da parte delle agenzie di sicurezza.(…). La tortura è stata utilizzata per estorcere confessioni, a scopo di estorsione o per punire gli oppositori politici del governo”.

2.1. Tali doglianze, specifiche ed autosufficienti in relazione pure alla prospettata (in sede di gravame) situazione di violenza interna, generalizzata, esistente in Bangladesh, con conseguenti insicurezza della popolazione e rischio per l’odierno ricorrente, anche per detta ragione, ove ivi rimpatriato (cfr. motivi d’appello riportati a pag. 2 del ricorso), sono suscettibili di esame congiunto, perché connesse, e si rilevano fondate nei limiti di cui appresso.

2.2. Giova premettere che la corte capitolina, dopo aver precisato di aver appreso i motivi per i quali A.H. aveva lasciato il Bangladesh esclusivamente (in mancanza del suo fascicolo di parte di primo grado) dal verbale delle dichiarazioni rese dalla parte dinanzi al tribunale e dall’ordinanza da quest’ultimo emessa e dinanzi ad essa impugnata, ha osservato, innanzitutto, che, da tali atti, emergeva che: a) “tra quella di A.H. ed un’altra famiglia è scoppiata una violentissima lite perché ognuna delle due famiglie rivendicava per sé il diritto di proprietà su un immobile destinato ad esercizio commerciale; nel corso della lite A.H., aiutato dai suoi familiari, ha tagliato le mani e le gambe ad un membro dalla famiglia avversa; per tale delitto ora A.H., oltre ad essere stato colpito da un mandato di cattura dell’autorità giudiziaria del suo Paese, è anche ricercato dalla famiglia della vittima che vuole vendicarsi. A.H. è dunque fuggito sia per sottrarsi alle indagini che l’autorità giudiziaria del Bangladesh sta svolgendo per un fatto che anche in Italia è considerato un delitto grave, punito con severa pena detentiva, sia per sottrarsi ad una vendetta originata da fatti strettamente privati che non oltrepassano il ristrettissimo ambito della faida tra due famiglie”; b) secondo il tribunale, “i fatti narrati da A.H. sono totalmente estranei alle fattispecie che costituiscono la fonte del diritto alla protezione internazionale, atteso che contro A.H. non vi è stata e non è in atto alcuna persecuzione per motivi politici o di razza o di religione o di nazionalità o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale. (…). In Bangladesh, soltanto i conclamati oppositori del governo possono incorrere nei pericoli di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a), b) e c)”. Successivamente ha opinato che: i) “con il secondo motivo di appello A.H. contesta di avere dichiarato di avere tagliato le mani e le gambe di una delle persone con le quali stava litigando ed afferma di essere stato costretto a fuggire non avendo la possibilità di difendersi dinanzi all’autorità giudiziaria del suo Paese dall’accusa di avere consumato tale reato. Il secondo motivo di impugnazione non è fondato. Gravava su A.H. l’onere di produrre anche in questo grado di giudizio i verbali delle dichiarazioni da lui rese dinanzi alla Commissione territoriale, ma a tale onore l’appellante non ha ottemperato (la parte ha del tutto omesso di depositare qui il suo fascicolo di parte di primo grado), per cui è in danno dello stesso che deve ripercuotersi l’impossibilità per questa Corte di verificare nel merito la fondatezza del motivo”; ii) “non si può, tramite la concessione della protezione internazionale, impedire ad uno Stato sovrano di svolgere le indagini tese ad accertare se e da chi sono stati commessi gravi reati considerati tali anche in Italia, né risulta che in Bangladesh agli indagati per reati comuni non sia concessa la possibilità di svolgere una adeguata difesa. Se formalmente le leggi che regolano le indagini e quelle che puniscono i colpevoli non prevedono la pena di morte e non violano i diritti umani, non è lecito offrire asilo ai colpevoli o agli indagati”; iii) “in Bangladesh gli episodi di violenza che coinvolgono i cittadini non impegnati in politica non sono tali da creare un clima generalizzato di violenza, ma sono occasionali ed episodici. In Bangladesh non è in atto una guerra civile. Il pericolo costituito dalla attività terroristica delle fazioni islamiche fondamentaliste investe l’intero pianeta e non assume in Bangladesh una consistenza maggiore di quella che ha in altri Stati”.

2.3. Ciò posto, rileva il Collegio che, come opportunamente ricordato da Cass. n. 1033 del 2020 (cfr. in motivazione), “in base alla giurisprudenza di questa Corte (…), il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria non può essere concesso, rispettivamente ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b), e art. 16, comma 1, lett. b), nel testo modificato del D.Lgs. n. 18 del 2014, art. 1, comma 1, n. 1, lett. h) e i), (qui applicabile ratione temporis), a chi abbia commesso un reato grave al di fuori dal territorio nazionale, anche se con un dichiarato obiettivo politico, così come, per identità di ratio, non può essere riconosciuta la protezione per motivi umanitari. La suddetta causa ostativa, in quanto condizione dell’azione, deve essere accertata alla data della decisione e, involgendo la mancanza dell’elemento costitutivo previsto dalla suddetta legge, può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche in appello (Cass. 22 febbraio 2019, n. 5358; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27504; Cass. 6 giugno 2017, n. 14028). Per affermare, però, la sussistenza della predetta causa ostativa è necessario l’accertamento dell’avvenuta commissione di un reato fuori del territorio italiano, da qualificare come grave, utilizzando come parametro nella relativa valutazione la pena edittale prevista dalla legge italiana per quel medesimo illecito. Al riguardo, il giudice del merito non può sottrarsi alla delibazione della fondatezza dell’addebito criminoso, pur non essendo certamente necessaria la sussistenza di una condanna passata in giudicato, ma essendo sufficiente che la commissione del reato emerga in modo non equivoco dagli atti anche per effetto dichiarazioni auto-accusatorie cioè provenienti dallo stesso ricorrente, quali quelle avutesi nella specie e considerate credibili dalla Corte d’appello (Cass. 23 ottobre 2017, n. 25073). Inoltre, ai fini dell’affermazione della sussistenza dell’anzidetta condizione ostativa, si deve anche tenere conto del tipo di trattamento sanzionatorio previsto nel Paese di origine per il reato commesso dal richiedente. Infatti, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), la protezione sussidiaria viene riconosciuta al cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti vi sono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un “grave danno” e l’art. 14 dello stesso D.Lgs. stabilisce che devono considerarsi danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

2.3.1. Ne consegue che – anche nell’ipotesi della commissione di un reato comune, quale innegabilmente sarebbe quello che avrebbe commesso l’ A. – il giudice del merito, se considera credibile la confessione del richiedente, non può limitarsi ad affermare che la commissione del suddetto reato costituisce, di per sé, una ragione ostativa alla concessione della richiesta protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 16 – come risulta nella sentenza impugnata – ma, avvalendosi dei propri poteri officiosi di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve richiedere alla Commissione nazionale per il diritto d’asilo nonché al Ministero degli Affari Esteri informazioni precise sulla repressione dei reati di diritto comune nel Paese di origine del ricorrente (nella specie: Bangladesh) e sull’uso della tortura e/o di trattamenti inumani o degradanti e sulla eventuale previsione della pena capitale (cfr. Cass. n. 1033 del 2020; Cass. n. 2830 del 2015. In senso sostanzialmente conforme si veda anche la più recente Cass. n. 22604 del 2020). In altri termini, il rischio di sottoposizione alla pena di morte nel Paese di provenienza, o anche il rischio di subire torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri del proprio Paese, non può essere ignorato dal Giudice nazionale (cfr. ex plurimis, Cass. n. 1033 del 2020; Cass. n. 21667 del 2013), in conformità con la consolidata giurisprudenza della Corte EDU, secondo la quale l’eventuale messa in esecuzione di un ordine di espulsione di uno straniero verso il Paese di appartenenza può costituire violazione dell’art. 3 CEDU, relativo al divieto di tortura, quando vi sono circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio reale che lo straniero subisca in quel Paese trattamenti contrari proprio all’art. 3 della Convenzione, essendo irrilevante il tipo di reato di cui è ritenuto responsabile il soggetto da espellere, poiché dal carattere assoluto del principio affermato dal citato art. 3 deriva l’impossibilità di operare un bilanciamento tra il rischio di maltrattamenti ed il motivo invocato per l’espulsione (cfr., ex multis, Corte EDU sent. 28/2/2008, ric. n. 37021 del 2006; 24 marzo 2009, ric. n. 2638 del 2007; 24/3/2009, ric. n. 38128 del 2006; 24/3/2009, ric. n. 46792 del 2006; 24/3/2009, ric. n. 11549 del 2005; 24/3/2009, ric. n. 16201 del 2007; 24/3/2009, ric. n. 37257 del 2006; 24/3/2009, ric. n. 44006 del 2006; 5/5/2009, ric. n. 12584 del 2008; 24/2/2009, ric. n. 246 del 2007; 27/3/2010, ric. n. 9961 del 2010; c. Italia, 19/6/2012, ric. n. 38435 del 2010, richiamate da Cass. 22 febbraio 2019, n. 5358, nonché dalla più recente Cass. n. 1033 del 2020).

2.3.2. Alla stregua dei principi tutti finora esposti, qui pienamente condivisi, i motivi di ricorso in esame devono essere accolti in quanto la corte territoriale ha affermato d’ufficio che il grave reato confessato dal richiedente rappresenta una causa ostativa al riconoscimento della richiesta protezione senza assumere informazioni precise sulla repressione del medesimo reato, di diritto comune, nel Bangladesh e sull’uso della tortura e/o di trattamenti inumani o degradanti e sulla eventuale previsione della pena capitale e quindi senza considerare che, in caso di commissione di un reato comune, il rischio di sottoposizione alla pena di morte nel Paese di provenienza, o anche solo il rischio di subire torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri del proprio Paese, non può essere ignorato dal Giudice nazionale, sia ai fini della protezione sussidiaria, sia in subordine per la protezione umanitaria.

2.3.3. Nella descritta situazione, quindi, la corte d’appello avrebbe dovuto dare conto in motivazione delle prove e dei documenti acquisiti in atti per suffragare la propria decisione e delle ragioni per cui ha ritenuto di non avvalersi dei propri poteri di accertamento d’ufficio in merito alla suddetta questione.

2.3.4. A tanto deve pure aggiungersi che la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che, nei giudizi di protezione internazionale, a fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione; il giudice del merito non può, pertanto, limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo in tale ipotesi la pronuncia, ove impugnata, incorrere nel vizio di motivazione apparente (cfr., ex multis, Cass. n. 3060 del 2021; Cass. n. 1777 del 2021; Cass. n. 19224/2020; Cass. n. 14350 del 2020; Cass. n. 13940 del 2020; Cass. n. 9230 del 2020; Cass. n. 14283 del 2019).

2.4. Nel caso in esame, la corte territoriale, come si è già visto riportando i corrispondenti passi motivazionali della sua decisione, ha del tutto omessa la indicazione delle fonti da cui è stato tratto il convincimento sia circa il concreto trattamento sanzionatorio e penitenziario del reato ascritto all’odierno ricorrente e le effettive condizioni carcerarie esistenti in Bangladesh (Paese di provenienza dell’ A.), sia in relazione all’insussistenza, in tale Stato, di una situazione di “violenza indiscriminata” e “conflitto armato interno”, come elaborate dalla Corte di Giustizia Europea (con le note sentenze Elgafaji del 17.2.2009 e Diakite’ del 30.1.2014): queste ultime, peraltro, a prescindere dalla valutazione di attendibilità del racconto (cfr. Cass. n. 2461 del 2021), erano rilevanti, per il caso in esame, non solo in relazione alla protezione sussidiaria invocata D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), ma anche con riguardo al giudizio di comparazione necessario per la valutazione dei presupposti della protezione umanitaria.

2.5. Per tale ragione, dunque, le descritte doglianze devono essere accolte, con conseguente assorbimento del sesto motivo (rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – La Corte di appello ha omesso di valutare l’applicabilità al ricorrente della protezione, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, non potendo essere rifiutato il permesso di soggiorno allo straniero qualora ricorrano seri motivi di carattere umanitario, nonché del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, che vieta l’espulsione dello straniero che possa essere perseguitato nel suo Paese di origine o che ivi possa correre gravi rischi. Omesso esame della richiesta di protezione umanitaria, delle condizioni personali del ricorrente. Omessa applicazione dell’art. 10 Cost.” e volto a contestare il mancato riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari). La sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, ne accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto, e ne dichiara assorbito il sesto. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 8 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2021

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