Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2284 del 03/02/2014


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Civile Sent. Sez. U Num. 2284 Anno 2014
Presidente: RORDORF RENATO
Relatore: MASSERA MAURIZIO

SENTENZA

sul ricorso 25362-2012 proposto da:
“A. & I. DELLA MORTE S.P.A.”, in persona del legale
2013

rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata

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in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 36, presso lo studio
dell’avvocato MARTUCCELLI CARLO, che la rappresenta e
difende unitamente all’avvocato DI MARTINO PAOLO, per

Data pubblicazione: 03/02/2014

delega a margine del ricorso;
– ricorrente contro

ARIN S.P.A. – AZIENDA RISORSE IDRICHE DI NAPOLI
S.P.A., in persona del legale rappresentante pro-

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata
e difesa dall’avvocato PORCELLI DONATO, per delega a
margine del controricorso;
– controricorrente contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del
Presidente del Consiglio pro-tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta
e difende ope legis;
– resistente-

avverso la sentenza n. 102/2012 del TRIBUNALE
SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE, depositata il
05/07/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 17/12/2013 dal Consigliere Dott. MAURIZIO
MAS SERA;
uditi

gli

avvocati

Paolo

MARTUCCELLI, Donato PORCELLI;

DI

MARTINO,

Carlo

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott.
UMBERTO APICE, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 – ARIN – Azienda Risorse Idriche di Napoli – S.p.A. chiese al Tribunale
di Napoli di condannare A. & I. Della Morte S.p.A. e il Commissario
Straordinario di Governo ex D.L. 244/1995 a rifonderle le spese
sostenute per il ripristino e la messa in sicurezza delle opere idriche
danneggiate a seguito di forti precipitazioni atmosferiche che avevano
determinato il cedimento – rotazione di una camera di manovra e il

L’attrice aveva premesso che la società Della Morte aveva costruito gli
impianti de quibus quale concessionaria del Commissario Straordinario.
2 -II Tribunale adito, con sentenza depositata il 2 aprile 2002, in
accoglimento dell’eccezione della convenuta, si dichiarò incompetente a
conoscere della domanda in virtù della competenza, ratione materiae, del
Tribunale Regionale delle Acque.
3 – Riassunto il giudizio, con sentenza in data 21 gennaio – 22 aprile
2008 il Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche rigettò sia la domanda
della ARIN, che ritenne decaduta dal diritto di far valere l’azione di cui
all’art. 1669 cod. civ., sia la riconvenzionale della convenuta, la quale
aveva chiesto di essere tenuta indenne da quanto eventualmente
condannata a pagare.
4 – Pronunciando sulle rispettive impugnazioni, con sentenza in data 28
marzo – 5 luglio 2012 il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, in
parziale accoglimento dell’appello principale, condannò la S.p.A. A. & I.
Della Morte a pagare in favore della ARIN, a titolo di risarcimento danni,
la somma di C. 877.762,05.
Il TSAP osservò per quanto interessa: era ammissibile la domanda
risarcitoria proposta ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., non preclusa dalla
decadenza dell’azione ex art. 1669 cod. civ.; la società appellata aveva
commesso errori di progettazione e realizzazione; non era configurabile
alcun comportamento colposo in capo al concedente Commissario
Straordinario Governativo.
5 – Avverso la suddetta sentenza la S.p.A. A. & I. Della Morte ha proposto
ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
La ARIN S.p.A. ha resistito con controricorso.

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conseguente tranciamento della condotta idrica ad essa collegata.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri, cui il ricorso era stato notificato
per integrare il contraddittorio, si è costituita tardivamente al solo fine
dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
La ricorrente ha presentato memoria e depositato osservazioni alle
conclusioni del P.M.
MOTIVI DELLA DECISIONE
.1.2 – Il primo motivo adduce violazione e falsa applicazione degli artt.

La ricorrente premette che il TRAP aveva correttamente inquadrato la
fattispecie nella previsione dell’art. 1669 cod. civ., ritenendone la
specialità rispetto all’azione generale di risarcimento ex art. 2043 cod.
civ. e aveva affermato la decadenza (rectius: prescrizione) dell’ARIN per
non avere rispettato il termine di un anno per l’esercizio dell’azione.
Lamenta che invece il TSAP, pur muovendo dagli stessi presupposti,
aveva ritenuto l’applicabilità dell’art. 2043 cod. civ. allorché non è
applicabile l’art. 1669 cod. civ., in tal modo ritenendo perfettamente
fungibili le due azioni risarcitorie.
.1.2 – La censura non coglie nel segno ed è comunque infondata.
Occorre premettere che, contrariamente a quanto assunto dalla
ricorrente e da essa sempre ribadito (si vedano, in particolare, pag 5
della memoria ex art. 378 cod. proc. civ. e le osservazioni alle conclusioni
del P.M.), alla pagina 5 della sentenza impugnata è chiaramente riferito
che la Aris aveva formulato uno specifico motivo di appello per sostenere
l’inapplicabilità nei propri confronti dell’art. 1669 cod. civ. sull’assunto di
non essere stata parte del rapporto contrattuale di appalto. Da ciò si
evince che la società appellante aveva basato la propria domanda sulla
previsione generale dell’art. 2043 cod. civ.
In realtà la sentenza del TSAP è fondata su due rationes decidendi, una
sola delle quali (la seconda) forma oggetto di impugnazione.
Infatti essa ha dapprima affermato (pag. 8) che il Tribunale regionale
aveva seguito una erronea interpretazione dell’art. 1669 cod. civ.,
interpretandolo come se tale norma fosse diretta a limitare, anziché ad
estendere, la responsabilità del’appaltatore per i danni provocati da
carenze di progettazione e costruzione che abbiano determinato la rovina
dell’edificio.
2

1669 e 2043 cod .civ.

Poi ha affrontato il tema dell’applicabilità dell’art. 2043 cod. civ. dando
risposta positiva al quesito sulla base della giurisprudenza della Corte di
Cassazione.
La questione della compatibilità, quindi della ammissibilità, delle azioni ex
art. 2043 cod. civ. e dell’art. 1669 cod. civ. rispetto al medesimo evento
va risolta in senso affermativo. La responsabilità prevista dall’art. 1669
cod. civ., secondo un principio ormai consolidato, nonostante sia collocata
extracontrattuale la quale, pur presupponendo un rapporto contrattuale,
ne supera i confini, essendo riconducibile ad una violazione di regole
primarie (di ordine pubblico), stabilite per garantire l’interesse, di
carattere generale, alla sicurezza dell’attività edificatoria, quindi la
conservazione e la funzionalità degli edifici, allo scopo di preservare la
sicurezza e l’incolumità delle persone. Da questa configurazione consegue
l’ulteriore questione del rapporto tra le due disposizioni, risolto da questa
Corte in virtù del principio che l’art. 1669 cod. civ. reca una norma
speciale rispetto a quella contenuta nell’art. 2043 cod. civ., risultando la
seconda applicabile quante volte la prima non lo sia in concreto.
Al riguardo è sufficiente ricordare che la natura di norma speciale dell’art.
1669 cod. civ. rispetto all’art. 2043 cod. civ. presuppone l’astratta
applicabilità delle due norme, onde, una volta che la norma speciale non
possa essere in concreto applicata, permane l’applicabilità della norma
generale, in virtù di una tesi coerente con le ragioni della qualificazione
della responsabilità ex art. 1669 cod. civ. come extracontrattuale,
consistenti nell’esigenza di offrire ai danneggiati dalla rovina o dai gravi
difetti di un edificio una più ampia tutela. Infatti, come è stato bene
osservato in dottrina e come asserito dalla sentenza impugnata, da detta
configurazione si desume che l’art. 1669 cod. civ. non è norma di favore
diretta a limitare la responsabilità del costruttore, ma mira a garantire
una più efficace tutela del committente, dei suoi aventi causa e dei terzi
in generale. Il legislatore ha con essa stabilito un più rigoroso regime di
responsabilità rispetto a quello previsto dall’art. 2043 cod. civ.,
caratterizzato dalla presunzione juris tantum di responsabilità
dell’appaltatore, che è stata tuttavia limitata nel tempo, in virtù di un
bilanciamento tra le contrapposte esigenze di rafforzare la tutela di un
interesse generale e di evitare che detta presunzione si protragga per un
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nell’ambito del contratto di appalto, configura un’ipotesi di responsabilità

tempo irragionevolmente lungo. Pertanto, se la ratio dell’art. 1669 cod.
civ. è quella di introdurre una più incisiva tutela, è coerente con la
medesima l’applicabilità dell’art. 2043 cod. civ., nel caso in cui non
sussistano le condizioni previste dalla prima norma, essendo in generale
ammissibile la coesistenza di due azioni diversificate quanto al regime
probatorio e potendo la parte agire non avvalendosi delle facilitazioni
probatorie stabilite per una di esse. Una diversa soluzione va respinta, in
norma fondamentale in materia di responsabilità extracontrattuale e, in
palese contrasto con l’armonia del sistema e con le ragioni alla base della
previsione della disciplina speciale, conduce all’irragionevole risultato di
creare un regime di responsabilità più favorevole per i costruttori di
edifici, perché esclude ogni forma di responsabilità in situazioni che
potrebbero ricadere nell’ambito – in linea di principio illimitato – dell’art.
2043 cod. civ. L’azione ex art. 2043 c.c. è, dunque, proponibile quando in
concreto non sia esperibile quella dell’art. 1669 cod. civ., perciò anche
nel caso di danno manifestatosi e prodottosi oltre il decennio dal
compimento dell’opera. Nell’ipotesi di esperimento dell’azione disciplinata
dall’art. 2043 cod. civ. non opera, ovviamente, il regime speciale di
presunzione della responsabilità del costruttore, che lo onera di una non
agevole prova liberatoria. Pertanto, in tal caso, spetta a colui il quale
agisce provare tutti gli elementi richiesti dall’art. 2043 cod. civ. e, in
particolare, anche la colpa del costruttore (confronta Cass. Sez. I, 12
aprile 2006, n. 8520) .
.2.1 – Il secondo motivo rappresenta violazione dell’art. 112 cod. proc.
civ. e ancora degli artt. 1669 e 2043 cod. civ.
La ricorrente assume che dalla stessa sentenza risulta che l’appellante si
era limitata a riproporre la domanda formulata in primo grado e che il
TSAP aveva ritenuto, contrariamente al vero, che avesse proposto tanto
la domanda ex art. 1669 cod. civ., quanto quella ex art. 2043 cod. civ.
Aggiunge che nell’atto di appello si era limitata ad affermare che in via
alternativa soccorreva anche l’azione prevista dall’art. 2043 cod. civ.
.2.2 – La censura implica l’interpretazione della domanda originariamente
proposta dalla ARIN e del suo atto di appello, attività riservate ai giudici
di merito. Peraltro la ricorrente non riferisce testualmente le pertinenti
4

quanto comporta una indebita restrizione dell’area di tutela stabilità dalla

parti dei due atti necessarie alle Sezioni Unite per eseguire le verifiche
opportune.
Resta la considerazione decisiva che la sentenza impugnata, oltre a
quanto già riportato sub .1.2 -, ha esplicitamente affermato (pag. 7,
punto 9) che l’appello della Arin aveva investito non solo il capo della
sentenza che aveva dichiarato la decadenza dall’azione, ma anche la
statuizione relativa all’esistenza o meno di errori di progettazione e
ha aggiunto che l’appellante aveva esplicitamente chiesto la declaratoria
di responsabilità extracontrattuale di entrambi gli appellati per il crollo in
questione, assumendo che esso era stato causato da colpa ed errori dei
medesimi.
Ne consegue che la Arin aveva devoluto al giudice di appello la questione
attinente a comportamenti degli appellati idonei a determinarne la
responsabilità extracontrattuale. La corretta qualificazione giuridica della
medesima rientra nei poteri – doveri del giudice.
Pertanto la censura è infondata.
.3.1 – Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione delle
norme in tema di disponibilità delle prove (art. 115 cod. proc. civ.).
Si assume che la sussistenza della responsabilità dell’impresa non trova
fondamento nelle prove fornite dalle parti e neppure nell’istruttoria
espletata. Le argomentazioni a sostegno si incentrano, soprattutto, nella
critica alla interpretazione data dal TSAP alle risultanze della C.T.U. e
nella omessa considerazione di circostanze rilevanti.
.3.2 – La censura, formalmente prospettata sotto l’esclusivo profilo della
violazione e falsa applicazione (peraltro non specificate come se fossero
sinonimi) di una norma di diritto e non anche quello del vizio di
motivazione, in realtà attacca il contenuto decisorio della sentenza
impugnata.
Al riguardo appare opportuno ribadire l’orientamento già espresso da
questa Corte (Cass. Sez. I 20 giugno 2006, n. 14267), secondo cui, in
tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del
libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 155 e 116 cod.
proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del
vizio di motivazione di cui all’art.. 360, primo comma, numero 5), cod.
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realizzazione dell’opera e la conseguente responsabilità dell’impresa ed

proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non
già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità.
Anche il terzo motivo, risulta, dunque, infondato.
.4 – Pertanto il ricorso è rigettato.
Le spese seguono il criterio della soccombenza. La liquidazione avviene
come in dispositivo alla stregua dei soli parametri di cui al D.M. n.
140/2012 sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione, liquidate in complessivi C. 10.200,00, di cui C.
10.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Roma 17.12.2013.

P.Q.M.

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