Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22833 del 04/11/2011

Cassazione civile sez. un., 04/11/2011, (ud. 04/10/2011, dep. 04/11/2011), n.22883

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo presidente f.f. –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di sezione –

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente di sezione –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. RORDORF Renato – rel. Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. TIRELLI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

SOCIETA’ GENERALE DEL LATTE E DERIVATI – GENERAL DAIRIES AND PRODUCTS

COMPANY, in liquidazione, in persona del liquidatore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TOMMASO SALVINI 55, presso lo

studio dell’avvocato ZAPPACOSTA EDMONDO, che la rappresenta e difende

per delega in atti;

– ricorrente –

contro

IN.AL.PI. S.P.A. (già E.INVEERNIZZI & C. S.P.A.), in persona

del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA G. NICOTERA 29, presso lo studio dell’avvocato NOBILONI

ALESSANDRO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

VINAI FRANCO, per delega a margine del controricorso; BANCA NAZIONALE

DEL LAVORO S.P.A., società soggetta ad attività di direzione e

coordinamento del socio unico BNP Paribas s.a. Parigi, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA DI VAL GARDENA 3, presso lo studio dell’avvocato DE ANGELIS

LUCIO, rappresentata e difesa dagli avvocati PASINETTI ANGELA,

OLIVERO BRUNELLO, per procura speciale del notaio dott. Mario Liguori

di Roma, rep. 164075 del 07/07/2010, in atti;

– controricorrente –

e contro

SAHARA BANK, BNP PARIBAS GROUP, UBAE – ARAB ITALIAN BANK S.P.A.;

– Intimati –

avverso la sentenza n. 649/2009 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 25/02/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/10/2011 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;

uditi gli avvocati Paola DE VIRGILIIS per delega dell’avvocato

Edmondo Zappacosta, Franco VINAI, Lucio DE ANGELIS per delega

dell’avvocato Angela Pasinetti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La E. Invernizzi & C. s.p.a., poi divenuta IN.AL.PI. s.p.a. (e che con tale denominazione verrà sempre d’ora in avanti designata), avendo stipulato nei gennaio 2001 un contratto col quale si era impegnata a fornire del burro per il controvalore di oltre sei milioni di marchi tedeschi alla società libica Società Generale del Latte e Derivati – General Diaries Product Company (in prosieguo indicata come GDPC), citò quest’ultima in giudizio dinanzi al Tribunale di Saluzzo per fare accertare che l’acquirente si era indebitamente sottratta all’obbligo di ricevere il quantitativo di burro inviatole ed aveva infondatamente preteso di porre termine al rapporto contrattuale. L’attrice chiese inoltre che la GDPC fosse condannata al conseguente risarcimento dei danni e, contestualmente, agì in giudizio per danni anche contro la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., la UBAE Arab Italian Bank s.p.a (in prosieguo UBAE) e la Sahara Bank BPN Paribas Group (in prosieguo Sahara Bank), accusate di non avere correttamente gestito la garanzia inerente alla vendita internazionale sopra indicata.

La convenuta società libica, oltre a difendersi nel merito, eccepì preliminarmente sia l’esistenza di una clausola contrattuale, in forza della quale la controversia avrebbe dovuto essere risolta mediante arbitrato internazionale, sia il difetto di giurisdizione del giudice italiano. Eccezione, quest’ultima, sollevata anche dalla Sahara Bank.

L’adito tribunale rigettò la prima delle anzidette eccezioni, ma accolse invece la seconda, declinando la propria giurisdizione in favore dell’autorità giudiziaria libica, sul presupposto che la consegna della merce venduta dovesse aver luogo in Libia e che quello fosse perciò il forum destinatae solutionis dell’obbligazione dedotta in giudizio. Le domande proposte nei confronti della Banca Nazionale del Lavoro e della UBAE furono invece rigettate nel merito.

Chiamata a pronunciarsi sul gravame proposto dalla IN.AL.PI., la Corte d’appello di Torino, con sentenza resa pubblica il 5 maggio 2009, riformò la decisione del primo giudice in punto di giurisdizione, confermandola nel resto, e perciò rimise dinanzi al tribunale la IN.AL.PI., la GDPC e la Sahra Bank, a norma dell’art. 353 c.p.c. La corte territoriale escluse anch’essa che fosse invocabile la clausola arbitrale cui la difesa della GDPC si era riferita, non essendo adeguatamente provato che il contratto contenente detta clausola fosse proprio quello nell’esecuzione del quale era insorta la controversia. Ritenne, però, che il luogo di consegna della merce venduta, decisivo per determinare la giurisdizione, dovesse identificarsi col porto italiano in cui la medesima merce era stata affidata al vettore, non rilevando in contrario la pattuizione (ed.

clausola “C & F”) secondo la quale i costi di noleggio della nave e gli oneri del trasporto erano a carico della società venditrice, nè il fatto che nel contratto fosse indicato anche il luogo di destinazione del carico in Libia.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la GDPC, proponendo due motivi di censura.

La IN.AL.PI. e la Banca Nazionale del Lavoro hanno resistito con distinti controricorsi.

Nessuna difesa hanno spiegato la UBAE e la Sahara Bank, già peraltro contumaci nel giudizio d’appello.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Dev’essere preliminarmente dichiarato inammissibile il ricorso proposto nei confronti della Banca Nazionale del Lavoro e della UBAE. Come già s’è accennato, infatti, l’impugnata sentenza della corte d’appello torinese contiene due ben distinte pronunce.

La prima, nel riformare la sentenza di primo grado, afferma la giurisdizione del giudice italiano “in merito alla vertenza In.al.pi.

s.p.a. – Società Generale del Latte e Derivati – General Diaries Product Company/Sahara Bank”, e conseguentemente rimette le suindicate parti dinanzi al tribunale che si era astenuto dal decidere ritenendosi privo di giurisdizione. Con la seconda pronuncia, invece, la corte territoriale ha confermato la decisione con cui il primo giudice aveva rigettato nel merito le domande proposte dall’attrice nei confronti della Banca Nazionale del Lavoro e della UBAE. I motivi posti a fondamento del ricorso per cassazione investono, però, solo la prima delle due indicate statuizioni, senza in alcun modo toccare le ragioni poste a fondamento della seconda. Ne consegue che la Banca Nazionale del Lavoro e la UBAE, non hanno alcun titolo che ne legittimi la chiamata a partecipare ad un giudizio di legittimità, che ormai non le riguarda.

2. I due motivi di ricorso, che andranno quindi esaminati unicamente per quel che riguarda le altre due società intimate, investono, rispettivamente, l’eccezione di arbitrato ed il tema della giurisdizione.

2.1. L’eccezione di arbitrato è stata disattesa dalla corte di merito in base alla constatata impossibilità d’identificare il contratto prodotto in giudizio, contenente la clausola arbitrale, con quello, risalente a circa un anno prima, sul quale verte la lite.

La ricorrente impugna tale statuizione, deducendo errori di diritto e vizi di motivazione, perchè sostiene che la corte territoriale ha confuso la data del contratto, originariamente vergato in lingua araba, con quella della traduzione prodotta in causa.

Siffatta censura appare però manifestamente inammissibile, se prospettata come motivo di ricorso per cassazione. Infatti, se anche le cose stessero come la ricorrente sostiene, è evidente che non ci si troverebbe in presenza nè di un errore di diritto nè di un vizio d’insufficiente, omessa o contraddittoria motivazione, bensì di un errore di percezione commesso dal giudice di merito nell’esame dei documenti sottoposti al suo vaglio. Un errore cioè che, ove ricorrano le condizioni a tal riguardo richieste da codice di rito, potrebbe al più giustificare un ricorso per revocazione, ma che certamente non rientra nella tipologia dei possibili motivi di ricorso per cassazione enunciati dall’art. 360 c.p.c..

L’assoluta genericità del quesito di diritto posto a corredo del motivo di ricorso in questione, e l’assenza di un distinto momento di sintesi, idoneo ad evidenziare il fatto controverso in ordine al quale si assume essere carente la motivazione della sentenza impugnata, prima ancora di costituire autonome ragioni d’inammissibilità (a norma dell’art. 366-bis c.p.c., applicabile ratione termporis nella presente causa), valgono a confermare l’estraneità della prospettata doglianza all’area delle questioni deducibili come motivi di ricorso per cassazione.

2.2. Il secondo motivo di ricorso concerne, come già detto, il tema della giurisdizione.

La ricorrente lamenta la violazione di quanto dispone l’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, sulla competenza giurisdizionale, resa esecutiva con L. 21 giugno 1971, n. 804, 1968, nonchè dell’art. 1362 c.c. e segg. in tema d’interpretazione dei contratti.

La citata disposizione convenzionale, com’è noto, prevede che in materia contrattuale il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente possa essere citato dinanzi al giudice di altro Stato contraente in cui si trovi il luogo dove l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita. Essa è applicabile anche nel caso in cui il convenuto sia un cittadino (o una persona giuridica) di uno stato non aderente alla convenzione, atteso il disposto della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 3, comma 2.

Ciò posto, l’individuazione del giudice munito di giurisdizione, a norma dell’art. 5, n. 1, della citata convenzione, discende dalla definizione del “luogo in cui l’obbligazione è stata o deve essere eseguita”. Luogo che, nel caso in esame, è stato identificato dalla corte d’appello con il porto nel quale la merce venduta dalla società italiana alla società libica è stata caricata a bordo del vettore navale cui era stato affidato il trasporto.

Per verificare la correttezza di questa identificazione occorre, anzitutto, chiedersi quale sia, nella specie, l’obbligazione che è stata o deve essere eseguita.

A tal fine nè la corte d’appello nè le parti mostrano invero di dubitare che l’obbligazione cui occorre aver riguardo sia quella gravante sul venditore, contrattualmente impegnatosi a consegnare la merce venduta. E da questo presupposto si deve in effetti muovere:

sia perchè per obbligazione dedotta in giudizio è in generale, da intendere l’obbligazione caratterizzante il contratto e, dunque, nei contratti di compravendita di beni, quella della consegna del bene venduto; sia perchè, nella fattispecie in esame, la domanda proposta dalla società attrice – così come la ha interpretata il tribunale, senza che nessuna delle parti abbia sollevato obiezioni sul punto, onde anche la corte d’appello a quell’interpretazione mostra poi di essersi attenuta – è in principalità volta a far accertare l’inadempimento, da parte della convenuta, dei dovere di prestare la propria cooperazione all’esecuzione dell’obbligo di consegna della merce gravante sulla venditrice.

La questione rilevante, ai fini della giurisdizione, si riduce quindi unicamente allo stabilire se il luogo di consegna dei beni venduti sia stato correttamente individuato dalla corte torinese in quello nel quale la merce risulta essere stata affidata al vettore navale, in Italia, o se invece – come la ricorrente sostiene – esso debba identificarsi con la località libica dove quella medesima merce doveva essere materialmente messa a disposizione dell’acquirente.

Orbene, come già altre volte le sezioni unite di questa corte hanno avuto occasione di precisare, se il contratto di vendita implica il trasporto dei beni, per luogo di consegna deve intendersi – in conformità al disposto dell’art. 31, comma 1, lett. a), della Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980, ratificata con L. n. 765 del 1985, che detta la disciplina sostanziale uniforme della vendita internazionale – quello nel quale i beni sono trasmessi al primo vettore, indipendentemente dall’indicazione del luogo di destinazione finale della merce (si veda, tra le altre, Sez. un. 3 gennaio 2007, n. 7).

Siffatta regola, naturalmente, è suscettibile di esser derogata in presenza di una diversa clausola contrattuale stipulata dalle parti che valga ad individuare altrimenti il luogo della consegna. Ed è appunto questo l’argomento sul quale si fonda la tesi della ricorrente, la quale sostiene che gli accordi negoziali intercorsi nel caso di specie tra venditrice ed acquirente imponevano alla prima di farsi carico della consegna della merce in Libia, nel luogo designato dalla seconda.

Sennonchè, per avallare una tale conclusione, sarebbe evidentemente necessario prendere visione del testo contrattuale di cui si parla ed esaminarne approfonditamente il contenuto, perchè la mera circostanza – riferita dalla sentenza impugnata e pacifica tra le parti – che detto contratto prevedesse una clausola c.d. “C & F” (di significato analogo alla c.d. clausola “c/7”), secondo la quale i costi di noleggio della nave e gli altri oneri del trasporto dovevano intendersi a carico della parte venditrice, non implica di per sè lo spostamento convenzionale del luogo di consegna (cfr. Sez. un. 20 giugno 2007, n. 14299, ed altre conformi). Ma una simile possibilità di più specifica analisi del contenuto contrattuale è qui preclusa, non potendo il giudice di legittimità direttamente accedere al materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio di merito ed essendosi la ricorrente limitata a sintetizzare la previsione di singole clausole, secondo il proprio metro di lettura, senza riportare il testo letterale dell’intero contratto e neppure delle singole clausole citate.

L’ultimo rilievo dimostra anche l’impossibilità di apprezzare la censura formulata in ricorso circa l’applicazione delle regole concernenti i criteri d’interpretazione del contratto – censura peraltro del tutto generica ed in concreto inammissibilmente volta a sollecitare una rinnovazione in questa sede del giudizio di merito sul punto -, giacchè neppure viene specificato quale di tali regole sarebbe stata in particolare violata dalla corte d’appello.

3. Il ricorso è quindi da rigettare, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore di entrambe le controricorrenti, liquidate, per ciascuna di esse, in Euro 7.200,00 (di cui 200,00 per esborsi) oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

PQM

La corte dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. e della UBAE Arab Italian Bank s.p.a., rigetta il ricorso proposto nei confronti delle altre intimate, dichiara la giurisdizione del giudice italiano e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della IN,AL.PI. s.p.a. e della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., liquidando tali spese, per ciascuna di dette controricorrenti, in 7.200,00 (di cui 200,00 per esborsi) oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2011

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