Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22828 del 09/11/2016


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Cassazione civile sez. II, 09/11/2016, (ud. 22/09/2016, dep. 09/11/2016), n.22828

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25345-2011 proposto da:

IPERION SS, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

CAVOUR 17, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO PANZARANI,

rappresentato e difeso dagli avvocati FEDERICO PERGAMI, ANTONIO

PROCACCINI;

– ricorrente –

contro

B.R., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato GIOVAN CANDIDO DI GIOIA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO

ALBERTAZZI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1722/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 14/06/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/09/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

udito l’Avvocato PANZARANI Massimo con delega depositata in udienza

dell’avvocato PERGAMI Federico, difensore della ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso, deposita note di replica al

P.G.;

udito l’Avvocato DI GIOIA Giovan Candido difensore della resistente

che si riporta agli atti depositati;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’inammissibilità,

manifesta infondatezza del ricorso, condanna aggravata spese (sent.

817/15 – 3376/16) sub rimessione S.U. affinchè statuiscono ambito

applicazione art. 385 c.p.c., comma 4, art. 96 c.p.c..

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato per l’udienza del 3 dicembre 2003 Iperion s.s. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Pavia B.R. deducendo di aver alienato a quest’ultima alcuni fabbricati di tipo rurale siti in (OMISSIS), sottoposti al vincolo di interesse storico ai sensi della L. n. 264 del 1909; rilevava che la controparte aveva eseguito abusivamente alcune opere, quali il posizionamento di una trave sui pilastri di ingresso della proprietà di essa attrice e l’istallazione di un portale di legno, l’intonacatura in gesso di parte del muro di cinta, con copertura degli antichi mattoni e apposizione di un citofono, di un campanello e di una cassetta per la posta, la costruzione di un muro in cemento armato sul fondo della medesima Iperion, la realizzazione di piantane in ferro incardinate al muro di cinta, l’apertura di una finestra posta a distanza non regolamentare, la modifica di fabbricati rurali, con violazione dell’estetica, e il taglio di robinie, per la lunghezza di circa 20 metri sulla proprietà attorea. Domandava quindi ordinarsi l’eliminazione delle opere edilizie abusive, realizzate dalla convenuta su beni di sua proprietà, nonchè a distanza irregolare e in violazione della norma di cui all’art. 1120 c.c., comma 2, e di disporre il ripristino della situazione preesistente, condannandosi la stessa convenuta al risarcimento dei danni, da determinarsi anche secondo equità.

La convenuta si costituiva e assumeva di aver provveduto all’esecuzione di opere di ristrutturazione e manutenzione dei beni immobili acquistati anche in conformità di quanto convenuto con Iperion, in ossequio alle direttive impartite dalla Soprintendenza per beni ambientali ed architettonici e nell’osservanza delle disposizioni del Comune di (OMISSIS). Oltre a richiedere il rigetto delle domande attrici, spiegava domanda riconvenzionale. Lamentava infatti che Iperion aveva accumulato, in tempi recenti, sul proprio fondo, e fino al confine, ingenti quantitativi di terra, così modificandone la morfologia e determinando un dislivello tra le due proprietà che, in taluni punti, superava anche i 3 metri: e ciò senza porre in atto alcuna opera di contenimento. Deduceva che tale modifica dello stato dei luoghi l’aveva indotta ad erigere una porzione di muro, con funzione di contenimento e di sostegno, per evitare ulteriori danni. Chiedeva così la condanna della controparte alla rifusione delle spese sostenute per la costruzione del muro edificato lungo il confine e all’esecuzione delle opere di esecuzione, manutenzione e conservazione del muro di sostegno per tutta la lunghezza del confine.

A seguito di una prolungata attività istruttoria, il Tribunale di Pavia, con sentenza depositata il 9 marzo 2009, rigettava le domande attrici, ad esclusione di quella relativa alla rimozione del videocitofono; in accoglimento della domanda riconvenzionale della convenuta, accertato che il muro edificato da B.R. aveva funzione di sostegno e contenimento ai sensi dell’art. 887 c.c., condannava poi Iperion a rifondere alla convenuta la somma da questa anticipata per la realizzazione del predetto corpo edilizio, pari a 3.300,00, oltre interessi, e ad eseguire, a propria cura e spese, i lavori di mantenimento e conservazione del manufatto; dichiarava inoltre Iperion tenuta alla costruzione, al mantenimento e alla manutenzione del muro di sostegno lungo il confine del suo fondo, confinante con quello di proprietà B., in tutte le parti in cui quest’ultimo, in ragione del dislivello determinato dall’accumulo di terreno operato dall’attrice, “risultasse inferiore all’altro, e ciò anche per quanto atteneva alla porzione di muro già edificata dalla convenuta, per un’altezza almeno pari a quella del terreno riportato artificialmente da Iperion s.s. sul proprio fondo”; condannava infine la convenuta in riconvenzionale al taglio dei rami che si protendevano sul fondo di controparte.

Interponeva gravame Iperion e la Corte di appello di Milano, nella resistenza di B.R., rigettava l’impugnazione con sentenza del 14 giugno 2011.

Iperion ricorre per cassazione contro detta pronuncia facendo valere cinque motivi di impugnazione; resiste con controricorso B.R.. In esito alla discussione orale la difesa della ricorrente ha depositato osservazioni scritte sulle conclusioni del pubblico ministero, a norma dell’art. 379 c.p.c., comma 3.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 887 e 2043 c.c., nonchè dell’art. 2697 c.c., oltre che violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4. Assume la ricorrente che l’art. 887 c.c. non poteva trovare applicazione nella fattispecie, in quanto si era in presenza di un fondo rustico e in quanto il dislivello lamentato risultava creato artificialmente; rileva, poi, che nessuna domanda era stata formulata invocando il principio del neminem laedere e facendo valere la conseguente responsabilità aquiliana: ciò che integrava un’ipotesi di ultrapetizione; asserisce, ancora, che la sentenza impugnata aveva impropriamente ritenuto assolto, dalla controparte, l’onere probatorio circa il concreto pericolo di frane o smottamenti in danno del fondo collocato al livello inferiore. Deduce pure che la condanna di Iperion ad eseguire a propria cura e spese lavori di mantenimento e conservazione del muro di sostegno risultava essere contra jus in quanto il manufatto era stato realizzato in assenza di autorizzazioni amministrative e in violazione della normativa sulla tutela dei beni archeologici.

Il secondo motivo addebita alla sentenza impugnata l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio. Il mezzo in sostanza replica, sul versante motivazionale, l’ultima censura oggetto del primo motivo, sottolineando come la Corte di merito avesse disatteso le risultanze della consulenza tecnica; rileva, infatti, che l’esperto nominato in prime cure aveva evidenziato che si erano riscontrati alcuni abusi per omissioni e difformità: abusi per i quali non era stata formulata alcuna domanda di sanatoria e che, pertanto, avrebbero potuto portare alla demolizione del manufatto.

Le esposte censure, che possono esaminarsi congiuntamente, non sono fondate.

La Corte distrettuale – condividendo in ciò la decisione di prime cure – ha rilevato che la costruzione del muro di confine, con funzioni di contenimento e di sostegno, e posto a cavallo delle due proprietà, era stata attuata a norma dell’art. 887 c.c., ma anche quale rimedio all’accertata violazione, da parte di Iperion, del generale principio del neminem laedere, la cui applicazione risultava giustificata non solo dall’esistenza del dislivello naturale esistente tra i fondi, ma anche dal fatto che lo stesso era stato incrementato (portandolo al doppio della misura iniziale di 2 metri) in conseguenza del costante accumulo, da parte di Iperion, di ingenti quantitativi di terra sul proprio fondo. Ha evidenziato, quindi, che la realizzazione del manufatto in questione appariva non soltanto legittima, ma vieppiù necessitata dalla condotta dell’appellante. Ha osservato, poi, che l’opera era sanabile previo parere favorevole della Soprintendenza e che la mancanza delle autorizzazioni amministrative non rileva nei rapporti tra privati. Con riferimento alla contestata applicabilità dell’art. 887 c.c. ha precisato, inoltre, che, in forza del nominato principio del neminem laedere, gravava sul proprietario del fondo superiore l’obbligo di costruzione e di manutenzione del muro posto sul confine: sicchè – ha aggiunto – in caso di inazione ben poteva affermarsi il diritto del proprietario del fondo inferiore ad erigere il manufatto a spese dell’obbligato. Ha infine rilevato che dagli accertamenti svolti emergeva che la porzione immobiliare acquistata da Raffaella B. era ubicata in un contesto urbano.

Il giudice del gravame ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 887 c.c., che regolamenta la costruzione del muro tra fondi a dislivello posto negli abitati, ma richiama, altresì, il principio del neminem laedere e, quindi, la disciplina generale in tema di illecito aquiliano. Quest’ultima, d’altro canto, trova sicura applicazione sia in caso di fondi posti negli abitati, ove il dislivello sia stato realizzato dal proprietario di uno di essi (Cass. 7 settembre 1977, n. 3903; cfr. pure Cass. 18 dicembre 1981, n. 6721), sia in caso di fondi rustici, in relazione ai quali, per il principio del neminem laedere, l’obbligo, per il proprietario del fondo superiore, di costruzione e manutenzione del muro di contenimento ricorre nel caso di concreto pericolo di franamenti o smottamenti verso il fondo inferiore (Cass. 20 gennaio 1994, n. 473).

La questione relativa alla natura, urbana o rustica, dei fondi – questione che il giudice del gravame ha comunque risolto, sulla scorta delle risultanze peritali, nel senso dell’inserimento delle costruzioni oggetto di causa in un contesto residenziale urbano – finisce quindi per essere ridimensionata, visto che l’innalzamento del piano di campagna di cui si è lamentata l’odierna controricorrente pone comunque un obbligo di edificazione del muro, che assolva alla funzione di contenimento, a carico del proprietario del fondo superiore. Esiste un unico punto di discrimine: giacchè questa S.C. si è espressa nel senso che in caso di fondi rustici è necessario ricorra la condizione del concreto rischio di frane o smottamenti, condizione che non figura nelle massime che si occupano del dislivello creato artificialmente dal proprietario del fondo (superiore) collocato in un abitato.

Occorre anzitutto osservare che la denunciata ultrapetizione non sussiste. Infatti, non assume rilievo decisivo la circostanza per cui l’odierna controricorrente abbia basato la propria domanda sulla previsione dell’art. 887 c.c. e non abbia quindi invocato la disciplina di cui all’art. 2043 c.c.. In particolare, l’applicazione del principio iura novit curia, di cui all’art. 113 c.p.c., comma 10 fa salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Cass. 24 luglio 2012, n. 12943): così, la regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma, rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dalla parte (Cass. 24 marzo 2011, n. 6757; Cass. 13 giugno 2002, n. 8479).

Ciò posto, la Corte di merito ha adottato una doppia ratio decidendi, osservando che, per un verso, anche nel caso di dislivello tra fondi rustici, cui non risulta direttamente applicabile l’art. 887 c.c., il proprietario del fondo superiore è tenuto ad erigere il muro di confine e rilevando, per altro verso, che la porzione immobiliare acquistata da B.R. era comunque ubicata in un contesto urbano, avendo assunto il territorio in cui si trovava il fondo la natura di area residenziale.

La prima ratio decidendi è immune da vizi, e tanto basta a rendere inaccoglibile, nel complesso, la censura svolta (per tutte: Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass. 24 maggio 2006, n. 12372).

La Corte di Milano ha evidenziato come il consulente tecnico avesse accertato l’innalzamento del dislivello tra i due fondi (addirittura raddoppiato, e divenuto pari a 4 metri): innalzamento provocato dall’accumulo di ingenti quantitativi di terreno anche in prossimità del fondo dell’appellata. Secondo il c.t.u., poi, tale attività aveva portato alla conseguenza per cui, a seguito di smottamenti e di frane, il fondo di B.R. risultava essere stato invaso da 443 metri cubi di terra. Sicchè – ha aggiunto la Corte del gravame – dovevano condividersi le conclusioni cui era pervenuto il Tribunale, secondo cui l’accumulo di materiale a ridosso del confine, in assenza di alcuna opera di consolidamento o cautela, determinava “una situazione persistente di pericolo di danno del complesso immobiliare acquistato dalla convenuta (proprio dalla Iperion), che potrebbe, col passare del tempo, financo essere completamente invaso dal terreno, con conseguente esposizione a rischio per le cose e per l’incolumità delle persone”.

La sentenza impugnata ha quindi dato evidenza alla situazione di pericolo, correlata a cedimenti del terreno, che costituisce il fondamento della pretesa fatta valere in giudizio dall’odierna controricorrente. Si è visto, infatti, che in caso di fondi rustici assume rilievo dirimente il concreto pericolo di franamenti o smottamenti verso il fondo inferiore. Poichè il vizio di violazione di legge – che è stato in concreto denunciato – consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma giuridica (Cass. S.U. 5 maggio 2006, n. 10313; in senso conforme, ad es., Cass. 4 aprile 2013, n. 8315), deve senz’altro escludersi che la Corte distrettuale vi sia incorsa.

Non può nemmeno sostenersi che la Corte lombarda abbia fatto erronea applicazione dell’art. 2697 c.c., sotto il profilo del mancato raggiungimento della prova del concreto pericolo di franamenti e smottamenti. A parte il fatto che la censura è mal posta, dal momento che la norma richiamata regola l’onere della prova, non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 c.p.c., e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707), l’accertamento della Corte di merito, che si basa su di una puntuale ricognizione delle risultanze peritali, insindacabile nella presente sede.

Per quanto poi attiene alla regolarità urbanistica del manufatto, va anzitutto osservato che il passo dell’elaborato del consulente tecnico riprodotto a pag. 75 del ricorso (“si sono riscontrati alcuni abusi per omissioni e difformità, in sede di realizzazione, che pur autorizzabili all’atto della presentazione della pratica o in corso di lavori, non sono stati richiesti e pertanto dovranno essere portati in sanatoria, e/o modificati o demoliti”) non appare univocamente riferibile al muro di cui trattasi (essendo stato il consulente tecnico investito di una indagine che riguardava anche altre opere), nè la ricorrente, in osservanza del principio di autosufficienza, fornisce – attraverso la riproduzione di altri stralci della relazione – diverse indicazioni che consentano alla Corte un più approfondito esame dei vizi di cui, sul punto, sarebbe affetta la sentenza impugnata.

D’altra parte, e in termini generali, deve pure osservarsi che la rilevanza giuridica del titolo che autorizza la costruzione si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente o Costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati (per tutte: Cass. S.U. 12 giugno 1999, n. 333; Cass. 28 maggio 2007, n. 12405; Cass. 25 ottobre 2001, n. 13170).

Con il terzo motivo è lamentata omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio. Deduce la ricorrente che il muro abusivo realizzato da B.R., che i giudici di merito avevano assunto a modello dell’erigendo muro di sostegno, non aveva tale natura: era emerso, infatti, che l’opera consisteva in un “muro nudo”, privo della funzione protettiva che gli si voleva attribuire. E a riprova di ciò invoca emergenze istruttorie di un cedimento del manufatto.

Il motivo è inammissibile in quanto investe una questione di fatto; esso si basa, inoltre, sul richiamo a non meglio precisati atti istruttori e ad una deduzione del consulente (circa il cedimento del muro) non riprodotta all’interno del motivo: sicchè la censura risulta pure carente della necessaria specificità.

Il quarto mezzo contiene una doglianza di insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo. Rileva l’istante che la Corte di merito aveva confermato la statuizione della sentenza di primo grado con cui la si era condannata a edificare un muro che presentasse le caratteristiche della parte del manufatto già realizzata. Nondimeno, alla luce delle risultanze istruttorie, l’edificazione di un tale muro non poteva considerarsi necessaria; infatti, lo stesso c.t.u. aveva rilevato che si riteneva opportuno procedere preventivamente a una operazione di consolidamento del suolo. In conseguenza, la sentenza impugnata si era immotivatamente discostata dal parere espresso dal consulente in merito alle soluzioni tecniche da adottare. Inoltre, il manufatto costruito dalla controricorrente non poteva assurgere a “modello” del muro di contenimento che Iperion avrebbe dovuto realizzare, giacchè risultava abusivo, per essere stato eretto in assenza delle prescritte autorizzazioni.

Il motivo non merita accoglimento.

Sulla questione afferente l’abusività del manufatto occorre richiamare quanto in precedenza esposto trattando del primo e del secondo motivo. Oltretutto, ignorandosi come l’opera sarà nello specifico realizzata, non è possibile predicare alcunchè di certo in ordine alla sua conformità normativa pubblicistica; si osserva, in proposto, che, ove pure i rilievi formulati dal c.t.u., e di cui si è sopra detto, siano riferibili al muro già realizzato, l’esperto ha pur sempre riconosciuto la possibilità che l’opera, con opportune varianti, sia assentita dalle autorità competenti: sicchè non può escludersi, ad oggi, che il completamento del muro di contenimento si attui nel pieno rispetto della disciplina urbanistica vigente.

Quanto alla misura che doveva adottarsi per prevenire il rischio di frane e smottamenti, essa non poteva non dipendere dal prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale, a differenza di questa Corte, è giudice del fatto. Il giudice del gravame ha del resto reso una esauriente motivazione sul punto, spiegando come l’intervento consistente nell’edificazione del muro si era reso necessario in quanto Iperion, anche dopo il deposito dell’elaborato del 26 giugno 2006 (quello richiamato dall’odierna ricorrente, in cui si suggerivano lavori di consolidamento), aveva perseverato nell’attività di accumulo di materiale di riporto, provocando, in tal modo, l’ulteriore innalzamento del piano di campagna del fondo dell’appellante e l’invasione, in danno della proprietà di B.R., di 443 metri cubi di terreno, per frane e smottamenti occorsi in occasione di precipitazioni atmosferiche. Per un verso, quindi, la determinazione della Corte di merito è stata assunta valorizzando un quadro fattuale diverso, e notevolmente deteriore (per l’odierna controricorrente), rispetto a quello preso in considerazione dal consulente nella sua relazione del 26 giugno 2006; per altro verso, la decisione assunta, siccome del tutto ragionevole nella prospettiva di scongiurare il rischio di ulteriori, incombenti danni, non risulta sindacabile nella presente sede.

Quanto alla successiva relazione del 10 novembre 2007 depositata dal c.t.u., parte ricorrente anzitutto omette di fornire, nel corpo del motivo, i necessari riferimenti atti a rendere possibile l’esame della censura svolta sul punto. Infatti, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che intende far valere in sede di legittimità un motivo di ricorso fondato sulle risultanze della consulenza tecnica espletata in grado di appello è tenuta – in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso – ad indicare se la relazione cui si fa riferimento sia presente nel fascicolo di ufficio del giudizio di merito (specificando, in tal caso, gli estremi di reperimento della stessa), ovvero a chiarire alla Corte il diverso modo in cui essa possa essere altrimenti individuata (Cass. 22 febbraio 2010, n. 4201).

In secondo luogo, nemmeno si comprende, dall’esposizione del motivo, quale sia il valore delle indicazioni richiamate, giacchè si fa cenno a una soluzione tecnica – formulata dalle parti, dal c.t.u. e dai consulenti di parte avente ad oggetto, tra l’altro, una canalizzazione idrica (sicchè non è escluso che si tratti come eccepito dalla controricorrente – di semplici proposte, prive come tali del valore proprio delle risultanze peritali, enunciate per risolvere il diverso problema relativo alla raccolta di acqua piovana).

In realtà, la sentenza non evidenzia alcun vizio motivazionale: non emerge, cioè, che la realizzazione del muro di contenimento costituisse una soluzione palesemente incongrua rispetto all’inconveniente determinato dalle frane e dagli smottamenti dal fondo posto al livello superiore.

Col quinto ed ultimo motivo la ricorrente denuncia l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Si duole del rigetto delle domande da essa proposte, evidenziando come il consulente tecnico avesse riscontrato la natura abusiva delle opere realizzate dalla controparte. Osserva, inoltre, che secondo quanto appurato dallo stesso c.t.u. – il muro eretto dalla controricorrente aveva modificato il deflusso idrico e favorito la raccolta delle acque di scolo: per il che il manufatto poteva addirittura essere oggetto di cedimenti e di crolli.

Le censure sollevate non sono fondate.

Si è detto, infatti, che la mancanza del titolo abilitativo non incide sul piano dei rapporti tra privati.

Per quanto poi concerne, in particolare, la difformità della trave e del serramento rispetto al progetto presentato alla Soprintendenza, la Corte di merito ha osservato che l’opera era stata autorizzata da Iperion e che questa, a fronte della manifestata disponibilità, da parte dell’appellata, “alla sostituzione del portone con altro in ferro”, aveva espresso “disinteresse alla natura del manufatto” (pag. 21 della sentenza impugnata). Tale punto della decisione non è stato impugnato, per cui la ricorrente non può dolersi in questa sede del mancato adempimento dell’obbligo, assunto contrattualmente da B.R., di realizzare il cancello secondo le modalità approvate dalla Soprintendenza. Infatti, l’assunta difformità dell’opera rispetto al progetto non varrebbe a superare la ratio decidendi su cui si fonda la sentenza e che, si ripete, non è stata fatta oggetto di censura.

Non è chiaro se la questione relativa al deflusso dell’acqua si identifichi in quella implicata dalla domanda dichiarata inammissibile dalla Corte di appello (pag. 42 ss. della sentenza), o costituisca, piuttosto, una nuova e diversa questione. E’ chiaro, però, che in entrambi i casi essa non possa aver ingresso in questa sede. Nella prima ipotesi, infatti, il riesame della questione è precluso dalla statuizione che ne ha confermato inammissibilità: statuizione che non è stata impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 4. Nella seconda va fatta applicazione del principio per cui ove, con il ricorso per cassazione, siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una pronuncia di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; cfr. pure: Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391; Cass. 12 luglio 2006, n. 14599; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2270).

In definitiva, il ricorso è respinto.

Le spese del giudizio sono a carico della parte soccombente.

Non ricorrono le condizioni per la pronuncia di cui all’art. 385 c.p.c., comma 4, richiesta dal pubblico ministero.

Prescrive il cit. art. 385, comma 4 che “quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’art. 375, la Corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffar, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave”. La norma si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 (e cioè dal 2 marzo 2006), in base alla disposizione contenuta nell’art. 27, comma 2 di tale testo normativo. Non rileva, ai fini che qui interessano, la successiva abrogazione dell’art. 385, comma 4 cit. da parte della L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 2 in quanto per espressa previsione dell’art. 58 cit. legge, le disposizioni di quest’ultima che modificano il codice di procedura civile “si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore” (avvenuta il 4 luglio 2009).

Dunque l’art. 385 c.p.c., comma 4 è applicabile al presente giudizio: quest’ultimo risale al 2003 e la sua fase di legittimità è stata introdotta con un ricorso per cassazione notificato nel 2011.

Ciò detto, quella di cui al cit. art. 385, comma 4 costituisce una sanzione processuale per l’abuso del processo perpetrato dalla parte soccombente nel giudizio di legittimità ed implica, pertanto, la dimostrazione che la parte abbia agito, o resistito, se non con dolo, ponendo in essere una condotta consapevolmente contraria alle regole generali di correttezza e buona fede, tale da risolversi in un uso strumentale ed illecito del processo, in violazione del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.): non è invece sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate (così Cass. 7 ottobre 2013, n. 22812).

Nel caso in esame non si ravvisa, nella proposizione del ricorso, un atteggiamento psicologico di dolo o colpa grave, nei termini appena esposti, onde la domanda in questione deve essere respinta.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2016

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