Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22815 del 29/09/2017


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Cassazione civile, sez. III, 29/09/2017, (ud. 05/04/2017, dep.29/09/2017),  n. 22815

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14293/2014 proposto da:

COMUNE SPECCHIA, in persona del Sindaco p.t., ing. B.A.,

considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NICOLINA

ASSUNTA PLACI’ giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.M.E., considerata domiciliata ex lege in ROMA,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIOVANNI CHIFFI giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 160/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 26/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

05/04/2017 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.M.E. propose, con atto di citazione notificato in data 14/11/2005, nei confronti del Comune di Specchia una domanda risarcitoria basata sull’illegittima chiusura, avvenuta nel 1990, dell’unico accesso ad un fondo agricolo di sua proprietà.

Il Tribunale di Lecce, con sentenza del 2011, respinse la domanda. In appello la C. lamentò l’erronea valutazione delle risultanze processuali, sostenendo che il fatto illecito oggetto della sua pretesa creditoria fosse stato provato.

In particolare ribadì che il proprio fondo, identificato come “(OMISSIS)”, essendo intercluso, godeva di una servitù di passaggio su uno stradone proveniente dalla via pubblica che il Comune aveva abusivamente ostruito con la costruzione di un muro nell’anno 1990.

Con sentenza del 16/05/2002, passata in giudicato, il Tribunale di Lecce aveva riconosciuto l’abuso e ordinato al Comune di demolire una porzione del muro per consentire l’accesso alla proprietà del fondo ma, nonostante numerosi solleciti, il Comune aveva a ciò ottemperato solo nell’ottobre 2004.

La proprietaria del fondo aveva dunque subito il danno corrispondente alla mancata coltivazione del fondo negli anni tra il 1990 e il 2004, come confermato dai testi citati ed escussi.

La Corte d’appello ha ritenuto, pertanto, che il fatto illecito costitutivo della pretesa risarcitoria ex art. 2043 c.c., fosse provato, così come il nesso causale tra il fatto e il danno.

Sul quantum, stante la mancata prova del preciso importo dei danni, il Giudice ha ritenuto di procedere in via equitativa alla liquidazione di Euro 8.000, comprensivi di rivalutazione ed interessi legali, ed ha condannato il Comune a pagare la relativa somma, oltre rivalutazione ed interessi e spese giudiziali.

Avverso la sentenza il Comune di Specchia propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi illustrati da memoria.

Resiste la C. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Censura l’impugnata sentenza nella parte in cui avrebbe erroneamente ritenuto provato il danno, il nesso di causalità e la relativa quantificazione.

La sentenza avrebbe, pertanto, violato l’art. 2043 c.c. e l’art. 2697 c.c., in quanto la C. non avrebbe fornito prova della propria richiesta risarcitoria nè avrebbe offerto elementi utili di prova, quali le spese di coltivazione sostenute negli anni precedenti l’interclusione del fondo, la qualità e quantità delle sementi utilizzate, l’indicazione delle maestranze, nulla che potesse provare un pregiudizio economico. Il fatto storico in sè, dell’intervenuta interclusione del fondo, non poteva essere, di per sè, ritenuto prova del danno, nè vi erano prove che il fondo fosse stato destinato a coltivazioni ammesse regolarmente e formalmente ad aiuti comunitari prima del 1990. Il diritto al risarcimento del danno non è, infatti, riconosciuto con finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subìto dal titolare del diritto. Pregiudizio di cui mancherebbe la prova.

Ad avviso del ricorrente la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto attendibile una testimonianza de relato actoris che da sola non aveva valore probatorio pieno, potendo acquisire rilevanza solo attraverso il riscontro di altre circostanze da sottoporre a congruo esame da parte del Giudice del merito. In tema di prova testimoniale, i testimoni “de relato actoris” sono quelli che depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto che ha proposto il giudizio, così che la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla, in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte e non sul fatto oggetto dell’accertamento, fondamento storico della pretesa; i testimoni “de relato” in genere, invece, depongono su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni, pur attenuata perchè indiretta, è idonea ad assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice, nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffragano la credibilità (Cass., 1, n. 569 del 15/1/2015; Cass., 2, n. 18352 del 31/7/2013; Cass., 1, n. 2815 del 8/2/2006). Nel caso di specie non si fa valere la testimonianza de relato di un terzo ma direttamente di un teste collegato all’attore, sicchè le sue dichiarazioni non avrebbero potuto costituire, da sole, senza altri riscontri oggettivi, base della motivazione.

Il motivo è inammissibile in quanto volto ad un riesame del merito, inaccessibile in questa sede, anche perchè la motivazione della sentenza non si basa, in parte qua, solo sulla testimonianza de relato del teste R. ma anche su altre prove testimoniali.

Con il secondo motivo denuncia la violazione ed erronea applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. La sentenza impugnata sarebbe illegittima anche nella parte in cui ha fatto ricorso ad una liquidazione equitativa del danno senza osservare la giurisprudenza di questa Corte che, con riferimento alla liquidazione del danno in via equitativa, subordina la medesima alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare. Del resto il ricorso ai criteri equitativi non esonera la parte dall’onere di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno.

Il motivo è inammissibile. Come è noto l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito (Cass., 1; 15/3/2016 n. 5090; Cass., 6-3, 22/2/2017n. 4534: “La liquidazione in via equitativa del danno postula, in primo luogo, il concreto accertamento dell’ontologica esistenza di un pregiudizio risarcibile, il cui onere probatorio ricade sul danneggiato e non può essere assolto dimostrando semplicemente che l’illecito ha soppresso una cosa determinata, se non si provi altresì che essa fosse suscettibile di sfruttamento economico, e in secondo luogo il preventivo accertamento che l’impossibilità o l’estrema difficoltà di una stima esatta del danno stesso dipenda da fattori oggettivi e non dalla negligenza della parte danneggiata nell’allegarne e dimostrarne gli elementi dai quali desumerne l’entità”).

Nel caso di specie la sentenza è, sul punto, motivata in modo del tutto adeguato.

Con il terzo motivo denuncia contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), nella parte in cui ha quantificato il danno prescindendo dalla prova del medesimo.

Il motivo è infondato in quanto, nel caso di sopravvenuta chiusura di un fondo, il danno è in re ipsa, quantificabile nella diminuzione di valore del fondo danneggiato dall’esecuzione dell’opera pubblica. Ne consegue che, qualora l’esecuzione dell’opera pubblica determini l’eliminazione di una servitù di passaggio esistente sul fondo espropriato e la conseguente interclusione del fondo dominante, deve essere liquidata al proprietario del fondo intercluso una indennità pari alla somma occorrente per la costituzione di una servitù coattiva e, solo nell’ipotesi in cui detta somma risultasse superiore alla misura della diminuzione di valore del fondo intercluso, la relativa indennità deve essere commisurata alla minor somma corrispondente alla diminuzione di valore del fondo (Cass., 1, 30/3/1979n. 1833).

Da qui l’infondatezza anche del terzo motivo di ricorso.

Con il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2721 e 2722 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, avendo ritenuto provati fatti, che avrebbero dovuto trovare una prova documentale, solo attraverso le dichiarazioni testimoniali.

La Corte avrebbe errato innanzitutto nel ritenere ammissibile la prova testimoniale ed in secondo luogo nell’omettere un riscontro di elementi documentali su cui basare le circostanze ritenute provate.

Con il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2727 c.c. e art. 2729 c.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il ricorrente censura l’impugnata sentenza nella parte in cui avrebbe utilizzato elementi presuntivi ex art. 2727 c.c. e art. 2729 c.c., comma 1, per accertare la ricorrenza in concreto della colpa dell’Amministrazione.

Il quarto e quinto motivo sono inammissibili in quanto pretendono un riesame del merito, inaccessibile in questa sede.

Conclusivamente il ricorso è rigettato, ed il ricorrente condannato alle spese del giudizio di Cassazione ed al raddoppio del contributo unificato.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del giudizio di Cassazione, liquidate in Euro 1.300 (oltre Euro 200 per esborsi), accessori di legge e spese generali al 15%. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2017

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