Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22806 del 29/09/2017


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Cassazione civile, sez. III, 29/09/2017, (ud. 09/03/2017, dep.29/09/2017),  n. 22806

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI AMATO Sergio – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23442-2015 proposto da:

B.C., GRUPPO EDITORIALE L’ESPRESSO SPA in persona

dell’amministratore delegato e legale rappresentante pro tempore

Dott.ssa M.M., MA.EZ., elettivamente domiciliati in

ROMA, P.ZA DEI CAPRETTARI 70, presso lo studio dell’avvocato

VIRGINIA RIPA DI MEANA, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato MAURIZIO MARTINETTI giusta procura speciale a margine

del ricorso;

– ricorrenti –

contro

G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA STIMIGLIANO 5,

presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI COCQUIO, che lo rappresenta

e difende unitamente agli avvocati RENZO INGHILLERI, ROBERTO ROGNONI

giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 404/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 27/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/03/2017 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

Fatto

RILEVATO

che:

il Generale G.G. aveva convenuto in giudizio, davanti al Tribunale di Novara, il Gruppo Editoriale l’Espresso, il direttore responsabile del quotidiano La Repubblica, MA.EZ. e il giornalista B.C., allegando diffamazione a mezzo stampa, violazione della riservatezza e della privacy, anche ai sensi della L. n. 196 del 2003, determinate dalla pubblicazione di tre articoli sul quotidiano la Repubblica, rispettivamente in data 11 marzo 2006, 9 luglio 2006 e 28 ottobre 2006, chiedendo la condanna in solido dei convenuti al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, indicati in Euro 970.000, la pubblicazione della sentenza e la riparazione pecuniaria, deducendo di avere ricoperto delicati incarichi in qualità di esponente dei servizi segreti e di essere stato danneggiato dalla divulgazione delle notizie concernenti la sua funzione e da false notizie riguardanti un presunto coinvolgimento dello stesso in vicende penali;

il Tribunale di Novara, con sentenza del 6 giugno 2013, aveva ritenuto infondata la domanda di violazione della privacy, ritenendo, invece, violati i parametri della veridicità e della continenza ovvero i limiti del diritto di cronaca, con riferimento alla notizia del coinvolgimento presunto dell’attore in vicende penali relative ad illecite intercettazioni disposte dalla Guardia di Finanza, nonchè nel processo penale per il sequestro di A.O., liquidando il danno in Euro 30.000, rigettando la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale ritenuto non provato, condannando l’articolista al pagamento di una somma a titolo di riparazione pecuniaria, accertando il difetto di legittimazione passiva del Gruppo Editoriale, rigettando la domanda di riparazione pecuniaria ai sensi della L. n. 47 del 1948, art. 12 nei confronti del direttore e del Gruppo Editoriale ed ordinando la pubblicazione della sentenza per estratto;

avverso tale decisione proponevano appello i convenuti per violazione dei criteri di valutazione della legittimità della pubblicazione, dei principi in tema di diritto di critica e cronaca, per erronea quantificazione del danno e ricostruzione dei fatti. Costituitosi in giudizio il G. proponeva appello incidentale relativamente alla quantificazione del danno non patrimoniale e della sanzione pecuniaria;

con sentenza pubblicata il 27 febbraio 2015 la Corte d’Appello di Torino, in parziale riforma della sentenza impugnata e in parziale accoglimento dell’appello principale e di quello incidentale, liquidava in aumento il risarcimento dei danni in favore di G.G. a carico dei tre convenuti, revocava l’ordine di pubblicazione per estratto della sentenza e determinava diversamente la liquidazione delle spese, ponendole nella misura del 70% a carico degli appellati principali, sia in primo che in secondo grado;

avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione il Gruppo Editoriale l’Espresso S.p.A., il direttore responsabile del quotidiano (OMISSIS), MA.EZ. e il giornalista B.C., sulla base di tre motivi. Resiste in giudizio G.G. con controricorso. I ricorrenti depositano memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo i ricorrenti lamentano violazione o falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, riguardo all’art. 21 Cost., artt. 595,57 e 51 c.p. e L. 8 febbraio 1941, n. 47, art. 11 per avere la Corte d’Appello di Torino escluso l’applicabilità, ai tre articoli in contestazione, dell’esimente del diritto di critica politica. In particolare, la Corte territoriale avrebbe affermato un principio non rinvenibile nei precedenti giurisprudenziali secondo cui l’esimente del diritto di critica politica sarebbe riferibile esclusivamente al caso di destinatario dell’art. che svolga attività politica. Al contrario, è sufficiente che la critica espressa abbia rilevanza politica, e cioè pubblica, in quanto fondata su un interesse della collettività a conoscere l’opinione di carattere politico o, comunque, attinente alla gestione della cosa pubblica. Nel caso di specie, l’interesse pubblico era legato al sospetto di coinvolgimento politico del Sismi, e quindi del suo rappresentante istituzionale, odierno resistente, nell’ambito delle vicende riferite negli articoli contestati. In sostanza, gli interrogativi critici sollevati avevano natura squisitamente politica. Per il resto, il giornalista avrebbe articolato una personale ricostruzione critica ipotizzando l’esistenza di un collegamento tra la struttura del Sismi e quella della Guardia di Finanza.

Anche con riferimento al secondo articolo gli interrogativi espressi erano volti a prospettare un’eventuale responsabilità di natura politica dei vertici del Sismi e non una responsabilità giudiziaria, di natura penale, per le vicende oggetto di indagini. Pertanto, trattandosi di critiche relative a fatti di evidenza politica, la Corte territoriale non avrebbe dovuto verificare la verità della ricostruzione critica proposta dal giornalista, ma soltanto la veridicità dei fatti che costituivano la premessa della ricostruzione critica, soggettiva e certamente opinabile, del giornalista. In ogni caso, trattandosi di critica e non di cronaca, la stessa ha ad oggetto un’opinione, che significa attribuzione di valore e che non può consistere nella riproposizione degli accadimenti reali, ma in una rappresentazione critica di questi, rispetto ai quali il giornalista non può essere rigorosamente imparziale. Poichè i fatti che hanno indotto il giornalista a prospettare la ricostruzione critica e politica erano veri o, quanto meno, verosimili, come ritenuto sufficiente dalla giurisprudenza penale della Cassazione, la Corte territoriale avrebbe dovuto escludere ogni profilo risarcitorio;

il motivo è inammissibile per difetto di specificità in quanto la distinzione operata dalla Corte territoriale nella premessa della motivazione, tra diritto di cronaca e diritto di critica politica, rileva solo sul piano dei toni consentiti, che sono maggiori nell’ipotesi di critica politica, ma non anche per il requisito della verità dei fatti, che è trattato dai ricorrenti nel secondo motivo e non è oggetto di censura. Requisito necessario, invece, sia nell’una che nell’altra ipotesi e ritenuto mancante dalla Corte d’Appello in tutti e tre gli articoli;

con il secondo motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento alle medesime disposizioni del motivo precedente per avere la Corte d’Appello di Torino rilevato l’insussistenza dell’esimente del diritto di cronaca o di critica giudiziaria, stante la carenza del requisito della verità dei fatti e della continenza espositiva. La Corte territoriale ha applicato alle tre pubblicazioni oggetto di contestazione le regole proprie del diritto di cronaca e di critica giudiziaria e non quelle del diritto di critica politica e sociale;

la censura è inammissibile perchè il motivo, pur rubricato come violazione di legge, nasconde in realtà contestazioni di merito in ordine alle valutazioni condotte dalla Corte e, quindi, si sostanzia in censure in fatto sulla motivazione del provvedimento, senza tener conto degli strettissimi limiti in cui è consentito dedurre in cassazione tale vizio. Il ricorso per cassazione, infatti, è disciplinato, quanto ai motivi deducibili, dalla legge temporalmente in vigore all’epoca della proposizione dell’impugnazione, in base al generale principio processuale “tempus regit actum”. Poichè la sentenza di appello è stata pubblicata dopo il trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, (vale a dire dopo l’11 settembre 2012), trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nella nuova formulazione restrittiva introdotta dell’art. 54, comma 1, lett. b), suddetto d.l. (cfr. Sez. 6 – 3, Sentenza n. 26654 del 18/12/2014, Rv. 633893). E’, quindi, precluso l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori, tanto più a seguito della modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla rilevazione dell’omesso esame di un “fatto” decisivo e discusso dalle parti Sez. L, Sentenza n. 21439 del 21/10/2015 (Rv. 637497 01). La ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito non è sindacabile in sede di legittimità, se non quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Sez. 6 – 3, Sentenza n. 12928 del 09/06/2014, Rv. 631150 – 01), ipotesi non ricorrenti nel caso di specie. Infatti, la Corte ha ben evidenziato il mancato rispetto del parametro della continenza espositiva e il requisito della verità dei fatti in tutti e tre gli articoli. Quanto a tale ultimo profilo, la Corte territoriale ha precisato che i primi due articoli propongono ai lettori una notizia inesatta oggettivamente e con connotazione infamante nei confronti del militare, non rispettando il principio di corrispondenza tra la narrazione e i fatti realmente accaduti, nel senso che non viene assicurata la oggettiva verità del racconto, la quale tollera certamente le inesattezze considerate irrilevanti se riferite a particolari di scarso rilievo e prive di valore informativo. Nel caso di specie, invece, le allusioni riguardano profili centrali, lasciando intendere che il Generale fosse implicato nelle indagini. Nello stesso modo, rileva la Corte territoriale, il terzo art. intendeva costituire un reportage della deposizione resa e sebbene il Generale fosse pacificamente solo persona informata sui fatti, le modalità con cui questi erano riportati, i toni usati e la riferita posizione assunta dal Pm, inducevano nuovamente nel lettore la falsa convinzione di un coinvolgimento personale dell’ufficiale, anche in questa vicenda illecita. Sotto tale profilo, evidenzia la Corte, che pur essendo il Generale persona informata sui fatti, il giornalista fa riferimento all’atto investigativo del Pubblico Ministero, come interrogatorio, lasciando intendere che il Generale a causa del comportamento del pubblico ministero era “nei guai”, inducendo l’opinione di un interrogatorio di un indagato. Pertanto, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio giurisprudenziale secondo cui non ricorre la verità oggettiva quando, pur essendo veri singoli fatti, ne vengono taciuti altri strettamente collegati ovvero quando i fatti riferiti siano accompagnati, come nel caso di specie, da sollecitazioni emotive ovvero da sottointesi, accostamenti, insinuazioni e allusioni idonei a creare, nella mente del lettore, rappresentazioni della realtà oggettivamente false (Cass., Sez. 3, 25 agosto 2014 n. 18174). In sostanza, pertanto, attraverso tali censure i ricorrenti richiedono alla Corte di legittimità di riesaminare tutto il compendio probatorio al fine di verificare, sulla base dei documenti prodotti, del contenuto degli articoli di stampa e del ruolo ricoperto dall’attore, la natura diffamatoria o meno delle espressioni utilizzate. Al contrario, l’accertamento circa la natura diffamatoria o meno dell’espressione utilizzata resta prerogativa del giudice di merito ed il relativo giudizio sfugge al controllo di legittimità se congruamente e logicamente motivato (Cass. Sez. 3, 12 dicembre 2014, n. 26170);

con il terzo motivo i ricorrenti lamentano violazione degli artt. 2059,2056 e 1226 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’accertamento del danno non patrimoniale (art. 360 c.p.c., n. 3). La Corte territoriale avrebbe ritenuto sufficiente, per la sussistenza del danno non patrimoniale, il mero accertamento dell’illecito diffamatorio, affermando – sostanzialmente – che la prova del danno è in re ipsa, in contrasto con l’orientamento recente della giurisprudenza che ritiene indispensabile l’allegazione di indici specifici e obiettivi del danno. Analogo vizio riguarda la rideterminazione, in aumento, del danno sulla base di un criterio equitativo, che avrebbe dovuto essere frutto di un esame rigoroso delle ragioni, delle qualità e della natura del danno morale che, al contrario, difetta nella sentenza impugnata;

il motivo è infondato poichè la Corte territoriale ha ritenuto provato e, successivamente ha liquidato il danno, in presenza di indici specifici ed obiettivi del pregiudizio subito. Sulla base del consolidato orientamento di questa Corte ha ben individuato i criteri in base ai quali attribuire un determinato valore economico agli elementi di fatto considerati per liquidare il danno in via equitativa, descrivendoli in maniera analitica. Infatti, la Corte territoriale ha ritenuto che il danno non patrimoniale fosse ravvisabile nella sofferenza psicologica, derivante dalla pubblicazione della notizia diffamatoria e che il nesso causale si fondava sulle leggi statistiche e di probabilità, in base alle quali la condotta dell’agente deve considerarsi condizione necessaria e sufficiente per il patimento del danneggiato. Quanto al pregiudizio in sè, lo stesso è stato dimostrato sulla base di presunzioni semplici (Cass. Sez 3, 18 novembre 2014 n. 24474) in considerazione del fatto che la generalità dei consociati si curano della considerazione che gli altri hanno della propria personalità, con la conseguenza che l’individuo sano “nell’assoluta normalità dei casi, riceve turbamento e soffre quando i tratti del proprio essere morale ed umano vengano aggrediti e distorti”. La Corte ha utilizzato i criteri di carattere generale, quali la gravità dell’offesa, l’intensità del dolo e della colpa, il clamore suscitato o quello potenziale della notizia, la posizione sociale, il ruolo della persona offesa e la tiratura del quotidiano, valorizzando quanto già osservato dal primo giudice e cioè che si trattava “di un uomo dello Stato che ha giurato fedeltà alla Repubblica e ha dedicato la sua carriera al servizio del paese, arrivando fino ai vertici militari più elevati” e che, invece, è stato associato a vicende turpi di infedeltà ai principi basilari che governano le istituzioni;

i ricorrenti deducono, altresì, l’omessa motivazione con riferimento all’accoglimento dell’appello incidentale (art. 360 c.p.c., n. 5) in quanto la decisione sarebbe del tutto carente di motivazione, non dando conto dei motivi sulla base dei quali è stata adottata;

il motivo è inammissibile poichè elaborato sulla scorta della vecchia formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, mentre deve trovare applicazione il nuovo testo che si riferisce alla più limitata ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione”. Come già evidenziato, la norma si applica alla decisione della Corte territoriale di Torino, pubblicata il 27 febbraio 2015. I ricorrenti avrebbero dovuto indicare, con precisione il fatto decisivo per il giudizio, il cui esame è stato omesso dalla Corte di merito. Al contrario la doglianza risulta assolutamente generica;

ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,comma 17: “Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

PQM

 

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidandole in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2017

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