Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22798 del 29/09/2017


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Cassazione civile, sez. III, 29/09/2017, (ud. 16/12/2016, dep.29/09/2017),  n. 22798

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26987-2014 proposto da:

C.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LIEGI 58,

presso lo studio dell’avvocato ROMANO CERQUETTI, che la rappresenta

e difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Q.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA

88, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO SPADAFORA, che lo

rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 203/2014 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 23/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/12/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato ROMANO CERQUETTI;

udito l’Avvocato ANTONIO MANGANIELLO per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI ANNA MARIA che ha concluso per il rigetto.

Fatto

I FATTI

Nel (OMISSIS) la signora C.E. convenne dinanzi al Tribunale di Pordenone il dott. Q.C., ginecologo, chiedendo di essere risarcita dei danni subiti in conseguenza della negligente condotta professionale tenuta dal sanitario, che riteneva responsabile di un colpevole ritardo di diagnosi di una patologia tumorale.

Espose l’attrice:

– Che il (OMISSIS) si era recata presso lo specialista per l’esame di un nodulo al seno, riferendo in quell’occasione due circostanze, la precedente morte della madre per cancro all’endometrio e un senso di spossatezza avvertito nei giorni precedenti;

– Che il Q., a seguito di un esame eseguito mediante palpazione, aveva rilevato una adenosi più accentuata a sinistra, ritenuto non sospetto il carattere della tumefazione, consigliato una visita mammografica;

– Che il successivo (OMISSIS) si era sottoposta a mammografia bilaterale, all’esito della quale veniva ritenuto utile il completamento dell’esame con ecografia;

– Che, a distanza di 5 giorni, il sanitario, esaminata la mammografia, l’aveva rassicurata sul carattere non sospetto del nodulo, senza suggerire alcun ulteriore accertamento;

– Che, nel (OMISSIS), recatasi nuovamente dal medico riferendo una percezione di aumento del volume del nodulo, le veniva diagnosticata “una piccola tumefazione senza caratteri sospetti”;

Che si era determinata, ciò nonostante, a sottoporsi ad ulteriori accertamenti, e l’esame ecotomografico e citoaspirato del nodulo avevano dato esito positivo per cellule tumorali maligne, mentre il quadro citologico risultava compatibile con una tipologia cancerogena di carcinoma duttale;

– Che i successivi esami eseguiti presso l’ospedale di (OMISSIS) e il centro di prevenzione oncologico della regione toscana avevano accertato ulteriori lesioni non visibili all’esame mammografico, di carattere neoplasico maligno, come confermato all’esito della biopsia;

Che, pertanto, era stata sottoposta ad intervento demolitivo con terapie adiuvanti chemioterapiche e ormonali;

– Che l’errata diagnosi e la mancata prescrizione di ulteriori accertamenti specialistici avevano ritardato di un anno la diagnosi della patologia tumorale, cagionandole danni gravi e irreversibili, patrimoniali e non patrimoniali;

– Che, in particolare, all’esame istologico di tipo G3PTL, la prognosi di sopravvivenza sarebbe stata pari all’80% a 5 anni libera da malattia, mentre al giugno del 2003, la stessa prognosi a 10 anni era pari al 90%;

– Che, in luogo dell’intervento demolitivo, sarebbe stato sufficiente al più procedere all’eliminazione del cd. linfonodo sentinella, senza poi dover ricorrere a terapia chemioterapica, risultando sufficiente la radioterapia ovvero altra e meno invasiva tipologia di cura;

Che il ritardo nella diagnosi le avevano determinato sia lo sviluppo di una neoangiogenesi tumorale (maggiore possibilità d’invasione delle cellule neoplasiche nel circolo ematico), sia l’insorgere di una sindrome ansioso-depressiva dovuta al timore di un nuovo insorgere della malattia.

Il convenuto, nel costituirsi, contestò integralmente la ricostruzione degli eventi contenuta nell’atto di citazione, specificando che già in occasione dell’esame mammografico egli aveva evidenziato l’opportunità di eseguire un’ecografia, indirizzando il proprio referto al medico di base della paziente perchè quest’ultimo controllasse gli ulteriori sviluppi della patologia e prendesse le opportune decisioni, e precisando ancora che un eventuale esame ecografico compiuto nel giugno-luglio del 2003 non avrebbe indicato le micro-calcificazioni poi evidenziatesi nel 2004, non presenti all’esame mammografico (notoriamente più sensibile rispetto a quello ecografico), di tal che la patologia tumorale, all’epoca della visita, doveva ritenersi assente o comunque al di sotto della soglia della diagnosticabilità clinico-radiologica, mentre la natura multifocale della neoplasia escludeva qualsivoglia rilevanza, sul piano delle successive terapie, di un eventuale ritardo diagnostico.

Il giudice di primo grado, ritenendo provato l’inadempimento del convenuto sotto il profilo della ritardata diagnosi all’esito dei disposti accertamenti medico-legali (che avrebbero, peraltro, concluso nel senso della necessità, per la paziente, di sottoporsi alle medesime terapie anche in assenza del pur conclamato ritardo diagnostico), accolse solo in parte la domanda, limitando la condanna al risarcimento del danno rappresentato dal pericolo di vita corso dalla paziente nell’anno di ritardata diagnosi, quantificato equitativamente in 10.000 Euro, previo riconoscimento di un nesso di causalità giuridicamente rilevante esclusivamente in relazione alle maggiori probabilità di sopravvivenza assicurate alla paziente nei successivi 5 anni in caso di tempestiva diagnosi – e contenendo la liquidazione proprio per il raggiungimento del risultato sperato (i.e., la permanenza in vita).

La corte di appello di Trieste, investita dell’impugnazione proposta dall’attrice, la rigettò.

Queste le argomentazioni del giudice triestino:

nel giudizio di appello instauratosi in sede penale a carico del dott. Q. era stato affermato che l’intervento di mastectomia totale, dovuto ad un aggravamento della malattia, avrebbe potuto, anche solo sul piano dell’alta probabilità scientificamente rilevante, essere evitato o contenuto, se la patologia tumorale in corso fosse stata tempestivamente diagnosticata;

tale affermazione non era, peraltro, idonea a costituire giudicato esterno dotato di efficacia probatoria prevalente sulle conclusioni raggiunte dai consulenti nominati in sede civile;

gli stessi esperti intervenuti nel processo penale avevano concordato sulla indispensabilità di una mastectomia totale in occasione tanto della seconda (febbraio 2004) che della prima visita (giugno 2003) eseguite dal ginecologo;

Che l’inadempimento del sanitario doveva ritenersi già consumato alla data del giugno 2003, volta che l’approfondimento tomografico all’epoca omesso avrebbe consentito, sul piano della probabilità relativa, una tempestiva e corretta diagnosi della patologia tumorale, alla luce del calcolo diacronico di crescita del tumore (0,7 cm al giugno del 2003);

Che quel tipo di tumore, attesane l’originaria natura maligna (di livello G3 multifocale), poteva essere estirpato dall’organismo soltanto attraverso una mastectomia totale, senza che il pur accertato ritardo diagnostico avesse comportato effetti maggiormente invalidanti sulla salute della paziente;

– Che un più precoce intervento non avrebbe risparmiato a quest’ultima lo stesso trattamento chemioterapico, e che l’intervento all’altro seno – di cui pure si lamentava la indiretta riconduciblità etiologica alla colpevole omissione diagnostica – era stato determinato da ragioni anche di prevenzione;

– Che il patema d’animo lamentato dalla paziente appariva circostanza meramente allegata, ma non provata dall’appellante;

Che la decisività probatoria di un documento di cui l’appellante aveva richiesto tardivamente la produzione (il parere di un sanitario in ordine alle possibili alternative terapeutiche) appariva del tutto impredicabile, non superando esso nemmeno la soglia della rilevanza.

Avverso la sentenza della Corte triestina C.E. ha proposto ricorso sulla base di 5 motivi di censura.

Q.C. resiste con controricorso.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è solo parzialmente fondato.

Se ne impone il rigetto nella parte in cui, con i primi tre motivi, la ricorrente si duole della mancata considerazione, da parte del giudice di appello, delle risultanze del processo penale instauratosi a carico del Q. per lesioni colpose, senza considerare che la Corte territoriale ha, nella specie, fatto corretta e condivisibile applicazione della più recente ed ormai consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi in subiecta materia, a mente della quale il giudice civile non è vincolato alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia resa in sede penale, quali quelle relative all’individuazione delle conseguenze dannose che possano dar luogo a fattispecie di danno risarcibile (ex multis, Cass. 14648/2011; 8360/2010).

A tale, già di per se assorbente considerazione si aggiunge poi la circostanza per cui gli accertamenti medico legali disposti in sede civile hanno consentito al collegio d’appello di affermare, senza incorrere in vizi logico-giuridici, che, sulla natura sull’evoluzione e sulla terapia della patologia tumorale, il ritardo di diagnosi non avesse spiegato effetto alcuno, se non quello, accertato dal primo giudice e confermato in sede di appello, del pericolo per la vita corso dalla paziente nell’anno di ritardata diagnosi, equitativamente liquidato (f. 16 della sentenza oggi impugnata, implicitamente confermativa della ritenuta risarcibilità, da parte del tribunale, quale unica posta di danno valutabile alla luce della CTU, della perdita di chance di sopravvivenza nel predetto anno) in 10 mila Euro.

La Corte territoriale, in attuazione del generale principio di diritto processuale che impone, nella motivazione, il rispetto di criteri logici di giustificazione razionale del raggiunto convincimento e dell’adottata decisione, offre chiara e puntuale valutazione, condivisibilmente argomentata, della valenza e dell’efficacia probatoria attribuita agli elementi acquisiti al processo, ritenendo la ricostruzione del fatto, così come operata in sede di motivazione, dotata di un più elevato grado di conferma logica e di credibilità razionale rispetto ad altre, possibili e pur prospettate ipotesi fattuali alternative.

I motivi di censura sono, pertanto, irrimediabilmente destinati ad infrangersi sul corretto, condivisibile e condiviso impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello descritto in narrativa, dacchè essi, nel loro complesso, pur formalmente abbigliati in veste di denuncia di una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e di un (asseritamente) decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito.

Il ricorrente, pur prospettando, formalmente, a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 mediante una specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie astratta applicabile alla vicenda processuale, si volge poi nella sostanza ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere in alcun modo tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale, ovvero vincolato a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

E’ poi principio di diritto ormai consolidato quello per cui è istituzionalmente sottratto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione.

Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, formalmente, un insanabile deficit motivazionale della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai definitivamente cristallizzate sul piano processuale) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai consolidatosi, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione probatoria, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata – quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Merita di converso accoglimento la doglianza relativa al mancato riconoscimento del danno morale, pur invocato dall’odierna ricorrente fin dal primo grado di giudizio, con domanda espressamente – sia pur assai sinteticamente – riproposta in questa sede ai ff. 22, 39 e 41 dell’odierno atto d’impugnazione, volta che lo stesso convenuto, in comparsa di risposta, non ne aveva disconosciuto nè la predicabilità, nè la risarcibilità (folio 7 dell’atto di costituzione in giudizio di primo grado, riportato in ricorso al folio 41, in ossequio al principio di autosufficienza).

Sul punto, la motivazione della Corte territoriale – per altro verso, esaustiva, approfonditamente argomentata e conforme a diritto – risulta meramente apparente, essendo stati sufficientemente specificate dalla difesa della signora C., di converso, le conseguenze, medio tempore, di una condizione psicologica ed emotiva dell’accertato inadempimento.

All’accoglimento del ricorso in parte qua consegue l’assorbimento del quarto e quinto motivo, che, censurando la decisione relativa alla disciplina delle spese di giudizio, sarà oggetto di rinnovata e complessiva rivalutazione da parte del giudice del rinvio.

Il ricorso è, pertanto, accolto nei limiti di cui in motivazione.

La sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio del procedimento alla Corte di appello di Trieste, che, in diversa composizione, si atterrà ai principi sopra esposti.

PQM

 

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione, alla Corte di appello di Trieste in altra composizione.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2017

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