Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22798 del 20/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 20/10/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 20/10/2020), n.22798

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2205-2016 proposto da:

ACEA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo

studio degli avvocati ARTURO MARESCA, GAETANO GIANNI’ che la

rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

M.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE G. MAZZINI

n. 123, presso lo studio dell’avvocato BENEDETTO SPINOSA, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9074/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/01/2015 R.G.N. 2274/2010.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Premesso:

che con sentenza n. 4372/2007 il Tribunale di Roma, accertata la illiceità dell’appalto (servizi di call center) stipulato da Cos Communication S.p.A. e Acea S.p.A., ha dichiarato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la committente e i ricorrenti, fra i quali M.D., disponendone il ripristino;

– che quest’ultima, continuando a lavorare per la società appaltatrice, ha ottenuto decreto ingiuntivo nei confronti di Acea S.p.A. per il pagamento delle retribuzioni che avrebbe dovuto percepire alle dipendenze della stessa nei mesi di aprile e maggio 2007;

– che l’opposizione proposta ex art. 645 c.p.c. e ss. è stata respinta dal Tribunale di Roma;

– che con sent. n. 9074/2014, depositata il 27 gennaio 2015, la Corte di appello di Roma ha rigettato il gravame della società;

– che a sostegno della propria decisione la Corte ha osservato che:

– una volta accertato il rapporto di lavoro, l’obbligo principale gravante sul datore di lavoro consegue alla messa in mora, imputandosi soltanto al suo inadempimento la sussistenza dell’obbligo di corrispondere comunque la retribuzione, pur in assenza di controprestazione; – nella specie, la messa in mora poteva ritenersi insita nel ricorso introduttivo del giudizio finalizzato ad accertare la sussistenza del rapporto alle dipendenze di Acea, da questo scaturendo come conseguenza immediata e diretta l’obbligo retributivo;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione Acea S.p.A. con due motivi, cui ha resistito la lavoratrice con controricorso, assistito da memoria;

rilevato:

che con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1206,1208 e 1217 c.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere trascurato di considerare che, affinchè si possa validamente intimare una messa in mora, è necessario che il soggetto abbia l’effettiva disponibilità della prestazione offerta, mentre nel caso di specie la lavoratrice aveva continuato a lavorare presso la società appaltatrice: ciò che aveva svuotato di contenuto sostanziale l’offerta ad Acea, la quale, pertanto, ove pure formalmente ed effettivamente formulata, doveva ritenersi concretamente non valida, inefficace, poichè non corrispondente ad una volontà effettiva di porla, ovvero di volta in volta tacitamente rinunciata, in quanto rivolta anche verso altro datore di lavoro che aveva accettato la prestazione;

– che con il secondo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1206,1207,1217,1223,1256,1453,1463 e 2094 c.c. e dell’art. 36 Cost., la ricorrente censura la sentenza, alla stregua di varie pronunce di legittimità, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto la natura retributiva, anzichè risarcitoria, dell’obbligazione del committente che non abbia dato esecuzione all’ordine di riammissione e per non avere, di conseguenza, detratto dall’ammontare del credito del lavoratore, trattandosi di un risarcimento del danno, quanto dal medesimo percepito in virtù dello svolgimento di una qualsivoglia attività lucrativa (aliunde perceptum);

osservato:

che il primo motivo risulta inammissibile, prospettando una questione, della quale non vi è traccia nella sentenza impugnata, nè ottemperando all’onere di dimostrarne l’avvenuta deduzione al giudice di merito, con l’indicazione dell’atto del giudizio in cui l’allegazione sarebbe stata contenuta (Cass. n. 15430/2018, fra le numerose conformi);

– che il motivo è comunque infondato, posto che – come già rilevato da questa Corte a proposito di identica censura in una causa tra le stesse parti (Cass. n. 9747/2019) – la circostanza che la lavoratrice fosse al tempo dell’offerta della prestazione impegnata presso altra committente della medesima impresa appaltatrice non esclude che la stessa potesse offrire la propria prestazione alla società, alla quale era stato ordinato il ripristino del rapporto, gli effetti dello svolgimento della prestazione presso altro datore di lavoro riverberandosi semmai sulle conseguenze economiche del mancato ripristino, atteso che “i pagamenti eventualmente eseguiti da terzi (ai sensi dell’art. 1180 c.c., comma 1) ovvero dallo stesso datore di lavoro fittizio, pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazionè: hanno efficacia liberatoria (Sez. U n. 2990/2018);

– che il secondo motivo è infondato;

– che, con la sentenza sopra citata, è stato invero affermato che “La declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera per violazione di norme imperative e la conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato determina, nell’ipotesi in cui per fatto imputabile al datore di lavoro non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, l’obbligo per quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dal momento dell’offerta della prestazione lavorativa, in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 che non contiene alcuna previsione in ordine alle conseguenze del mancato ripristino del rapporto di lavoro per rifiuto illegittimo del datore di lavoro, e della regola sinallagmatica della corrispettività, in relazione agli artt. 3,36 e 41 Cost.”;

– che, in particolare, è stato osservato che “a partire dalla sentenza con cui il giudice dichiara la nullità della interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo”; che, infatti, “dal rapporto di lavoro, riconosciuto dalla pronuncia giudiziale, discendono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti ed, in particolare, con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare le retribuzioni, e ciò anche nel caso di mora credendi e, quindi, di mancanza della prestazione lavorativa per rifiuto di riceverla” (cfr. Sez. U cit.);

– che, nel caso in esame, la domanda ha ad oggetto retribuzioni relative a periodi successivi alla sentenza con cui il Tribunale di Roma aveva accertato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra Acea e l’odierna controricorrente in conseguenza della dichiarata illegittimità del contratto di appalto stipulato dalla suddetta società con la Cos Communication S.p.A., così che – una volta dichiarato nullo con sentenza il contratto alla (invalida) disciplina di fonte negoziale si è sostituita quella (valida) accertata dal giudice;

– che, diversamente opinando, committente ed appaltatore potrebbero tranquillamente proseguire il contratto nullo senza conseguenza alcuna, in dispregio della legge, della sentenza, che risulterebbe inutiliter data, della messa a disposizione (a favore del committente) delle energie lavorative da parte del lavoratore e del diritto pur vittoriosamente da lui fatto valere in giudizio: proprio quello che – invece – la citata sentenza n. 2990/2018 delle Sezioni Unite ha espressamente voluto evitare parlando di necessità di assicurare una tutela effettiva;

ritenuto:

conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 3.000,00 per compensi professionali e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2020

 

 

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