Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22793 del 12/08/2021

Cassazione civile sez. VI, 12/08/2021, (ud. 20/04/2021, dep. 12/08/2021), n.22793

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24960-2019 proposto da:

E.G., G.R., elettivamente domiciliate in ROMA,

VIA DI SANTA TERESA, 23, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO

PIETROSANTI, rappresentate e difese dall’avvocato ROBERTA RABBIA;

– ricorrenti –

contro

E.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VIGNA MURATA,

1, presso lo studio dell’avvocato SABRINA CASUCCI, rappresentato e

difeso dall’avvocato NUNZIATINA RITA PRINZI;

– controricorrente –

avverso il decreto n. cronol. 1028/2019 della CORTE D’APPELLO di

TORINO, depositata il 25/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 20/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CAMPESE

EDUARDO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. G.R. e E.G. ricorrono per cassazione, articolando quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380-bis c.p.c., avverso il decreto della Corte di appello di Torino del 25 giugno 2019, n. 1028, che, in parziale accoglimento del reclamo promosso da E.M. contro la decisione del Tribunale di Cuneo n. 90/2019, ha revocato, con decorrenza dalla pronuncia oggi impugnata, l’assegnazione della casa coniugale alla G., nonché gli assegni, posti a carico di E.M., in favore di quest’ultima, sua ex coniuge, e della loro figlia E.G.. Resiste, con controricorso, E.M..

1.1. La cotte predetta ha proceduto alla modifica, nei sensi appena indicati, delle condizioni di divorzio originariamente stabilite dalla corrispondente pronuncia del Tribunale di Saluzzo del 10 agosto 2010, ritenendo ormai insussistenti i presupposti per confermare l’assegnazione della casa coniugale alla G., nonché dell’obbligo, a carico dell’ E., di corrispondere un assegno di mantenimento in favore della ex coniuge e della figlia ormai maggiorenne.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I formulati motivi denunciano, rispettivamente:

I) “Violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e successive modifiche, in relazione alla L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 1, e successive modifiche”, censurandosi la disposta revoca dell’assegno divorzile in favore della G. per intervenuta modifica e venir meno dei suoi presupposti di fatto;

II) “Violazione e/ o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 337-ter e 337-septies c.c., nonché della L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, e successive modifiche”, contestandosi il decreto impugnato nella parte in cui aveva revocato l’assegno di mantenimento in favore di E.G. e l’assegnazione della casa coniugale in capo alla G. per intervenuta modifica e per il venir meno dei corrispondenti presupposti di fatto;

III) “Violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 116 c.p.c. (valutazione della prova), in relazione alla L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, e successive modifiche”, laddove la corte distrettuale aveva considerato sussistere la “prova presuntiva, a prescindere dagli ampi accertamenti probatori richiesti da parte reclamante”, per la revoca dell’assegno residuo in favore di E.G.;

IV) “Violazione e/ o falsa applicazione, con conseguente nullità del decreto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per omesso esame di un fatto di giudizio, ai sensi degli artt. 112 e 116 c.p.c.”, lamentandosi l’omesso esame dell’ulteriore allegazione fornita dalla G. sul trattamento pensionistico percipiendo all’atto del suo collocamento a riposo.

2. Il primo motivo è inammissibile.

2.1. In primo luogo, esso, dopo aver riportato il testo della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, l’interpretazione fornitane dalla recente Cass., SU, n. 18287 del 2018 e la motivazione utilizzata dal giudice di primo grado per giustificare la disposta mera riduzione dell’assegno in questione, non ha minimamente descritto (né tale carenza è superata in altre parti del ricorso) le ragioni per cui la corte torinese, diversamente dal tribunale, aveva ritenuto ormai insussistenti i presupposti per confermare, a carico di E.M., l’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento in favore della ex coniuge G.R.. Sul punto, la censura riferisce, unicamente, che (Dott. pag. 7 del ricorso) “…Pur in assenza di nuovi elementi probatori o di una diversa valutazione di quanto emerso nel giudizio innanzi al Tribunale di Cuneo, oggettivamente incontrovertibile, la Corte di Appello ha disposto la revoca dell’assegno divorzile, discostandosi dalle motivazioni contenute nel decreto pronunciato dal giudice di prime cure, fondato sulla pronuncia n. 18287 del 2018 delle Sezioni Unite”.

2.2. Orbene, come condivisibilmente osservato dalla recente Cass. n. 8425 del 2020: i) l’art. 366, c.p.c. impone di redigere il ricorso dinanzi al giudice di legittimità sintetizzando (rectius: esponendo sommariamente) i fatti della causa; la sommarietà dell’esposizione, che ovviamente non va confusa con l’omissione o con la riproposizione di tutta l’attività processuale pregressa, implica un lavoro di sintesi e di selezione dei profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice in un’ottica di economia processuale che evidenzi i profili rilevanti ai fini della formulazione dei motivi di ricorso, i quali, altrimenti, si risolvono in censure astratte e prive di supporto storico; ii) i fatti della causa che interessano nel giudizio di legittimità, non sono soltanto i fatti storici oggetto di contestazione, ma anche le valutazioni giuridiche di tali fatti prospettate dalle parti o utilizzate dai giudici di merito. L’esposizione della storia di una vicenda giuridica e processuale che deve essere ulteriormente valutata dal giudice di legittimità implica, accanto alla selezione dei fatti ancora rilevanti, anche la necessità che vengano indicate le categorie giuridiche entrate nel gioco processuale, previa eliminazione “del troppo e del vano”, perché il giudice di ultima istanza ne possa valutare la corretta applicazione. In altri termini, il ricorso dinanzi alla Corte Suprema di cassazione deve traghettare la vicenda giudiziaria dalla giurisdizione di merito a quella di legittimità: per assolvere a tale delicato compito, occorre un’accurata opera di sintesi e di selezione dei fatti, in funzione di quanto rileva e di quanto è di interesse del ricorrente, nell’ottica di una legittima ed irrinunciabile strategia difensiva di elevatissimo livello. Nell’adire la Corte Suprema, occorre offrire ai giudici il “distillato” dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni della critica, nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; iii) il ricorso per cassazione deve tracciare il binario lungo il quale il giudice di legittimità deve muoversi: se mancano tratti del binario, la Corte non può che dichiarare inammissibile il motivo di ricorso. In definitiva, colui che adisce la Corte Suprema deve selezionare i fatti rilevanti e di suo interesse, deve evidenziare le categorie giuridiche, eventualmente male utilizzate o i vizi logici della ricostruzione dei fatti, altrimenti elude il precetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3. Questo va letto nel senso che devono essere portati a conoscenza del giudice di legittimità soltanto i fatti che, in funzione dell’interesse delle parti, siano rilevanti per la comprensione e la corretta soluzione dei quesiti. Se il ricorso non opera l'”espianto” delle questioni da prospettare alla Corte, il ricorso stesso (non soltanto non è autosufficiente perché non indica dove e come le questioni sono state già prospettata, contando su un’inesigibile opera di supplenza del giudice di legittimità) manca del requisito della specificità dei motivi, affidati ad un richiamo (rectius: ad una riproposizione integrale e perciò) comunque generico e generalizzato agli atti processuali.

2.3. E’ noto, poi, da un lato che non contrasta con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, sancito dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la disciplina del ricorso per cassazione, nella parte in cui prevede – all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – requisiti di ammissibilità di contenuto-forma, giacché essi sono individuati in modo chiaro (tanto da doversi escludere che il ricorrente in cassazione, tramite la difesa tecnica, non sia in grado di percepirne il significato e le implicazioni) ed in armonia con il principio della idoneità dell’atto processuale al raggiungimento dello scopo, sicché risultano coerenti con la natura di impugnazione a critica limitata propria del ricorso per cassazione e con la strutturazione del giudizio di legittimità quale processo sostanzialmente privo di momenti di istruzione (cfr. Cass. n. 27 del 2020); dall’altro, che i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (cfr. Cass. n. 29093 del 2018).

2.4. Infine, va considerato che: i) con i motivi di ricorso per cassazione, la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell’appello, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poiché in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (fr. Cass. n. 22478 del 2018); questa Corte, ancora recentemente (0-. Cass. n.

4226 del 2021 e Cass. n. 395 del 2021, entrambe in motivazione; Cass. n. 27909 del 2020; Cass. n. 4343 del 2020; Cass. n. 27686 del 2018), ha chiarito che: a) il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 può rivestire la forma della violazione di legge (intesa come errata negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero attribuzione alla stessa di un significato inappropriato) e della falsa applicazione di norme di diritto, intesa come sussunzione della fattispecie concreta in una disposizione non pertinente (perché, ove propriamente individuata ed interpretata, riferita ad altro) ovvero deduzione da una norma di conseguenze giuridiche che, in relazione alla fattispecie concreta, contraddicono la sua (pur corretta) interpretazione (cfr. Cass. n. 8782 del 2005); b) non integra invece violazione, né falsa applicazione di norme di diritto, la denuncia di una erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, poiché essa si colloca al di fuori dell’ambito interpretative ed applicativo della norma di legge; c) il discrimine tra violazione di legge in senso proprio (per erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa) ed erronea applicazione della legge (in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, diversamente dalla prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass., Sez. U., n. 1(.1313 del 2006; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010); a) le doglianze attinenti non già all’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalle norme di legge, bensì all’erronea ricognizione della fattispecie concreta alla luce delle risultanze di causa, ineriscono tipicamente alla valutazione del giudice di merito (0-. Cass. n. 13238 del 2017; Cass. n. 26110 del 2015); iii) costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr. Cass. n. 16700 del 2020; Cass., SU, n. 23745 del 2020). Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (O:, ex multis, Cass. n. 24298 del 2016; Cass. n. 5353 del 2007).

2.5. Alla stregua dei principi tutti finora riportati, la censura in esame è inammissibile perché non riporta, anche sinteticamente, le argomentazioni che hanno condotto la corte distrettuale a considerare ormai insussistenti i presupposti per confermare, a carico di E.M., l’obbligo di mantenimento, in favore della ex coniuge, G.R., né, soprattutto, si confronta in alcun modo con l’ampia ed articolata motivazione (cfr. pag. 3-4 del decreto oggi impugnato) – da intendersi, per brevità, interamente riportata in questa sede – adottata, sul punto dal menzionato decreto.

3. Il secondo motivo è inammissibile per le stesse ragioni.

3.1. Anch’esso, infatti, dopo aver ripercorso lo stato della giurisprudenza di legittimità circa l’obbligo del genitore di contribuire al mantenimento del figlio maggiorenne ma economicamente non autosufficiente, nonché gli argomenti spesi, sul punto, dal giudice di prime cure, si limita ad affermare (di: pag. 8-9 del ricorso) che “la Corte di appello, pur non ammettendo gli ampi accertamenti probatori richiesti dal reclamante, ne ha accolto la domanda, revocando l’assegno di mantenimento alla figlia E.G., alla quale, in più occasioni, ha erroneamente attribuito, evidenziandola, l’età di quasi ventinove anni, attribuendo a tale connotazione una rilevanza anche giuridica. La Sig.ra E.G…. non ha ancora compiuto i ventotto anni. Infine, la stessa Corte di appello, senza peraltro fornire motivazione alcuna, si è discostato dal parere del Procuratore Generale. Su tale presupposto, la Corte di Appello ha revocato anche l’assegnazione della casa coniugale non fornendo motivazione adeguata sul punto, pur in presenza di espressa contestazione contenuta nella memoria costitutiva delle parti convenute reclamate”.

3.2. Anche questa censura, dunque, non riporta, seppure sinteticamente, le argomentazioni che hanno condotto la corte distrettuale a considerare ormai insussistenti i presupposti per confermare, a carico di E.M., l’obbligo di mantenimento, in favore della figlia, E.G., né, soprattutto, si confronta in alcun modo con l’ampia ed articolata motivazione (cf r. pag. 4 del decreto oggi impugnato) – da intendersi, per brevità, interamente riportata in questa sede – adottata, sul punto dal menzionato decreto. Essa, inoltre, nemmeno descrive la tipologia degli “..ampi accertamenti probatori richiesti dal reclamante”, ma non ammessi dalla corte distrettuale che pure ne aveva accolto il reclamo, né, quanto alla disposta revoca dell’assegnazione della casa coniugale, il contenuto dell’asserita “espressa contestazione contenuta nella memoria costitutiva delle parli convenute reclamate”.

4. Il terzo motivo è pure inammissibile.

4.1. La corte torinese, invero, ha ampiamente descritto (cfr.. amplius, pag. 4 dell’impugnato decreto) gli elementi istruttori che l’hanno indotta ad escludere la permanenza, a carico di E.M., dell’obbligo di mantenimento della figlia E.G., ed il corrispondente accertamento integra una valutazione fattuale, a fronte della quale le ricorrenti mirano, sostanzialmente, ad opporre alla ricostruzione dei fatti definitivamente sancita nella decisione impugnata una propria alternativa loro interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex multis, Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

4.2. In altri termini, la G. e la E. incorrono nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno dell’art. 116 c.p.c. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (Dott.. Cass. n. 27000 del 2016). Del resto, affinché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse (dr’ Cass. 24434 del 2016). La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in Cassazione (cfr. Cass. n. 11176 del 2017, in motivazione). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), peraltro, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (cfr. Cass. n. 11176 del 2017).

5. Il quarto motivo, infine, è anch’esso inammissibile.

5.1. Lo stesso denuncia un vizio in procedendo: le ricorrenti lamentano, infatti, sostanzialmente, la nullità del decreto impugnato per omessa pronuncia, ex art. 112 c.p.c., in relazione all’avvenuta valutazione delle prove, ad opera della corte distrettuale: quest’ultima, a loro dire, non avrebbe tenuto conto di alcuni documenti riguardanti il futuro trattamento pensionistico lordo mensile della G. al raggiungimento del sessantottesimo anno di età.

5.2. Osserva il Collegio, però, che il vizio di omessa pronuncia si configura solo quando manchi qualsiasi statuizione su un capo della domanda o su una eccezione di parte così da dare luogo alla inesistenza di una decisione sul punto per la mancanza di un provvedimento indispensabile alla soluzione del caso concreto e non può dipendere, pertanto, dall’omesso esame di un elemento di prova

Cass. n. 7472 del 2017; Cass. n. 3020 del 1999; Cass. n. 2085 del 1995).

5.3. A tanto deve solo aggiungersi, in ogni caso, che: i) questa Corte ha già ripetutamente chiarito che “il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento. Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa” (cfr., ex plurimis, Cass. n. 11844 del 2019; Cass. 16812 del 2018; Cass. 19150 del 2016); iz) nel caso di specie, la documentazione ancora oggi invocata dalle ricorrenti, lungi dal potersi considerare effettivamente decisiva – nel senso che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad un diverso esito diverso della corrispondente domanda (non bastando, invece, la prognosi di mera possibilità o probabilità di un differente esito) – al più poteva rappresentare un elemento indiziario da porre a fondamento di un ragionamento presuntivo volto a giungere a conclusioni magari diverse da quelle esposte dalla corte torinese, così procedendosi, però, a valutazioni che, impingendo nel merito, sono inammissibili nel giudizio di legittimità.

6. In definitiva, l’odierno ricorso deve essere dichiarato inammissibile, restando le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, a carico delle soccombenti ricorrenti, in solido tra loro, altresì dandosi atto – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte delle medesime ricorrenti, insolido tra loro, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

7. Va, disposta, da ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna Rosalba G. e Giulia E., in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida M Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle medesime ricorrenti, in solido tra loro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 20 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2021

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