Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2279 del 01/02/2010

Cassazione civile sez. lav., 01/02/2010, (ud. 10/12/2009, dep. 01/02/2010), n.2279

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20577-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GAETANO GRANOZZI, giusta delega a margine

ricorso;

– ricorrente –

contro

B.P.R., D.M., C.N.,

P.M., L.G., M.C.,

DU.AL., già tutti elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA MONTE SANTO 25, presso lo studio dell’avvocato AURICCHIO

FEDERICA, rappresentati e difesi dagli avvocati FANARA CRISTINA,

CANNIZZARO GIUSI, SACCO MARIA ANTONIETTA, giusta deleghe a margine

del controricorso e da ultimo domiciliati d’ufficio presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 540/2005 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 28/06/2005 R.G.N. 997/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/12/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega GRANOZZI GAETANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI MASSIMO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Siracusa, quale giudice del lavoro, i nominativi in epigrafe indicati avevano chiesto l’accertamento della nullità del termine apposto ai seguenti contratti a tempo indeterminato intercorsi con Poste Italiane s.p.a.:

quanto a P.M., per il periodo 13 marzo – 30 aprile 2002 “ai sensi della vigente normativa”per “esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002”;

quanto a L.G., per il periodo 4 maggio – 30 giugno 2002 “ai sensi della vigente normativa “per “esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, anche ai sensi dell’accordo 13 febbraio e 17 aprile 2002”;

quanto a B.P., D.M., C.N., M.C. e Du.Al., per il periodo luglio- settembre 2002 “ai sensi della vigente normativa “per “esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, 13 febbraio e 17 aprile 2002 congiuntamente alla necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie contrattualmente dovute e tutto il personale nel periodo estivo;

con la conseguente conversione dei relativi contratti a tempo indeterminato e quindi con la condanna della società a riammettere in servizio i lavoratori ricorrenti, pagando loro le retribuzioni perdute.

Con sentenza depositata il 28 giugno 2005, la Corte d’appello di Catania, in riforma della sentenza del Tribunale di Siracusa (che pur accertando la nullità del termine, aveva respinto le domande, in quanto non aveva ritenuto che la nullità della clausola comportasse la conversione in contratto a tempo indeterminato), ha dichiarato la nullità dei termini apposti ai contratti di lavoro degli appellanti, disponendo la riammissione in servizio di questi ultimi e la condanna della società a pagare loro le retribuzioni omesse a far tempo dalla notifica dei ricorsi, dedotti, per il L., gli importi percepiti per l’impiego ottenuto, medio tempore, in lavori socialmente utili presso il Comune di Carlentini.

Avverso tale sentenza, la s.p.a. Poste Italiane ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, notificandolo il 28 giugno 2006;

Alle domande della società hanno resistito i lavoratori con rituale controricorso.

Successivamente, è stata depositata in cancelleria copia dei verbali di conciliazione in sede sindacale della presente controversia intervenuta tra la società e gli originari ricorrenti B., D., C., P., M. e Du..

Infine, la società ricorrente ha presentato una memoria riassuntiva ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Va preliminarmente dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla società nei confronti dei sei lavoratori indicati per sopravvenuta cessazione della materia del contendere per effetto della conciliazione raggiunta e le relative spese di giudizio vanno integralmente compensate nello spirito di tale conciliazione.

2 – Per ciò che riguarda il ricorso nei confronti di L., la società, deduce col primo motivo la violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1421 c.p.c. nonchè art. 100 c.p.c. e il vizio di motivazione.

Con tale motivo, la società denuncia il mancato accoglimento della deduzione di inammissibilità della domanda per intervenuta estinzione tacita del rapporto di lavoro per mutuo consenso.

In proposito, la ricorrente ribadisce che ambedue le parti avevano posto in essere un comportamento significativo di tale volontà risolutoria, in particolare il ricorrente, osservando per circa un anno e quattro mesi, fino alla notifica nell’ottobre 2003 del ricorso ex art. 414 c.p.c., la più assoluta inerzia a fronte della scadenza del termine apposto al contratto di lavoro, con conseguente interruzione della funzionalità del rapporto.

La società sostiene che tale interruzione successiva alla scadenza del termine per inerzia delle parti avrebbe avuto una durata tale da dovere essere interpretata, su di un piano di correttezza e buona fede, come espressiva del disinteresse delle parti per la prosecuzione del rapporto di lavoro, privando pertanto la successiva iniziativa giudiziaria del lavoratore del necessario interesse ad agire, ai sensi dell’art. 100 c.p.c..

La Corte non avrebbe al riguardo sufficientemente motivato in ordine alla ritenuta irrilevanza, sul piano considerato, di tale inerzia, non consentendo di comprendere il percorso logico-argomentativo seguito nella relativa decisione.

Nè infine, l’originario ricorrente avrebbe allegato in giustizio circostanze tali da giustificare il ritardo della sua iniziativa di contestazione, in particolare per sostenere l’esistenza di circostanze di fatto che lo avrebbero indotto in errore nella valutazione di illegittimità della clausola oppositiva del termine e del successivo comportamento della società.

3 – Col secondo motivo, la società deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 2909 c.c., artt. 324, 346 e art. 434 c.p.c., del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2 e art. 4, comma 2, art. 12 dips. gen. e art. 1362 c.c. nonchè il vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto generica l’indicazione della causale giustificativa del termine apposto alla durata del contratto.

Al riguardo, la ricorrente sostiene che la sentenza di primo grado aveva accolto la domanda esclusivamente sul rilievo del difetto di prova relativamente alla sussistenza dei motivi indicati nel contratto di lavoro a giustificazione del termine, così implicitamente rigettando la censura di genericità di tali motivi formulata dall’originario ricorrente.

Tale ultimo implicito riconoscimento avrebbe dovuto essere impugnato dal L. in appello per evitare la decadenza stabilita dall’art. 346 c.p.c.; il che non era avvenuto, essendosi limitato il lavoratore appellante a censurare la mancata conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, con le connesse conseguenze, per cui la Corte territoriale avrebbe violato il giudicato ed ecceduto i limiti segnati dall’appello, accertando la genericità dei motivi.

La società contesta comunque l’affermazione della Corte territoriale di genericità delle ragioni giustificatrici del termine indicate nel contratto di lavoro, anche alla luce della ricostruzione della voluntas legis espressa nella nuova disciplina del contratto a tempo determinato contenuta nel D.Lgs. 6 settembre 2001 n. 368, secondo la quale col termine “specificate” riferito a tali ragioni si sarebbe voluto intendere non l’aggettivazione “particolareggiate o specifiche”, ma “enunciate”, “indicate distintamente”, senza del resto che poi sia necessario provarle.

Inoltre nessuna disposizione del decreto legislativo citato imporrebbe la dettagliata illustrazione di tali ragioni.

La ricorrente deduce altresì che, alla luce del richiamo che il contratto di lavoro effettua ai menzionati accordi con i sindacati (riprodotti in ricorso, nelle parti ritenute di interesse), la causale oggettiva del termine ne risulterebbe comunque sufficientemente specificata.

Infatti da tali accordi emergerebbe, secondo la ricorrente, che la stipulazione di contratti di lavoro a termine era stata convenuta con le OO.SS. in relazione all'”esigenza di riallocazione delle risorse sul territorio nazionale come conseguenza del processo di mobilità delle risorse in ruolo”.

A fronte di squilibri nella distribuzione geografica e per mansioni del personale appartenente all’area di base e operativa, determinatisi anche a seguito di una profonda ristrutturazione aziendale, la società avrebbe infatti, secondo tali accordi, attivato una serie di processi per la riallocazione di tale personale, ove in eccedenza, destinandolo verso posizioni di lavoro scoperte (soprattutto portalettere), anche attraverso lo strumento della mobilità volontaria all’interno dell’azienda.

Conseguentemente, per la durata di tale processo di riallocazione, il cui termine era stato definitivamente fissato dagli accordi con le OO.SS. al 30 novembre 2002, si era determinata la necessità, di cui tali accordi avrebbero dato atto, di procedere ad assunzioni temporanee nelle posizioni scoperte, in attesa del programmato riequilibrio delle risorse umane.

“D’altro canto”, prosegue la società, “la specificità della clausola op-positiva del termine deve essere apprezzata anche con riguardo alle dimensioni ed alla natura delle esigenze aziendali retrostanti le assunzioni a tempo determinato, con l’ovvia conseguenza che, laddove tali esigenze siano sostanzialmente le stesse su tutto il territorio nazionale ed in ogni ambito produttivo, la relativa formulazione non potrà che essere calibrata in rapporto a tali processi nazionali.

Il requisito di specificità, in questa prospettiva, risulta comunque soddisfatto, posto che le lettere di assunzione versate in atti, nell’individuare la sede di lavoro degli intimati…, espressamente riferisce anche a quel determinato ambito produttivo il processo nazionale sottostante la stipulazione del contratto”.

4 – Col terzo motivo di ricorso, viene denunciata la violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11 e art. 4, comma 2, art. 2697 c.c., art. 244 c.p.c., art. 421 c.p.c., comma 2, artt. 253 e 115 c.p.c. nonchè il vizio di motivazione in ordine all’inversione dell’onere probatorio che sarebbe stato effettuato dalla Corte territoriale col ritenere che tale onere gravasse sulla società, invece che sul lavoratore (in termini di estraneità della sua assunzione rispetto alle esigenze individuate nel contratto), in conseguenza del nuovo regime del contratto a tempo determinato quale emergente dal D.Lgs. n. 368 del 2001.

Comunque, secondo la ricorrente, essa avrebbe offerto la prova delle esigenze organizzative giustificatrici della clausola oppositiva del termine al contratto di lavoro del L., sia producendo gli accordi sindacali indicati nel contratto di assunzione, sia chiedendo l’ammissione dell’interrogatorio formale del L. e di prova testimoniale sulla narrativa dei fatti articolata in 31 capitoli nonchè su di un capitolo 32 tendente ad accertare che “all’epoca dell’assunzione a termine dedotta in giudizio e a tutt’oggi è in corso la fase attuativa delle procedure di mobilità originate dagli accordi del 17 e 23 ottobre 2001, che ha prodotto gli effetti diretti anche sulla unità produttiva … di applicazione di parte ricorrente, evincibile dal contratto a termine che il giudice le esibisce”.

In proposito, la Corte territoriale non avrebbe ammesso la prova ritenendola generica, erroneamente valutando che essa dovesse vertere sull’effettivo collegamento tra determinate assunzioni e correlative esigenze aziendali, in ciò ispirandosi alle logiche sottese alla precedente L. del 1962, ormai superate.

Infine, la società deduce che, ove il giudice avesse ritenuto insufficiente la prova dedotta, avrebbe dovuto attivare i propri poteri di ufficio, come impostogli nel rito del lavoro.

5 – Col quarto motivo, viene in via subordinata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5, art. 12 disp. gen., artt. 1362 e ss. c.c. nonchè il vizio di motivazione della sentenza, relativamente alla decisione di conversione del contratto a tempo indeterminato a seguito della ritenuta nullità del termine.

6 – infine, col quinto motivo, relativo alle conseguenze economiche della ritenuta illegittima apposizione del termine, la società deduce la violazione dell’art. 18 S.L. e degli artt. 1217, 1223, 1453, 1460 e 2697 c.c..

La domanda volta ad ottenere la controprestazione retributiva pur in assenza della prestazione lavorativa non avrebbe infatti dovuto trovare accoglimento stante il principio di corrispettività delle prestazioni delle parti del rapporto di lavoro.

Il ricorso conclude pertanto con la richiesta di cassazione della sentenza impugnata, con ogni conseguente statuizione anche in ordine al regolamento delle spese di giudizio.

7 – Il primo motivo di ricorso è infondato.

Secondo infatti la giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio aderisce, è suscettibile di essere sussulto nella fattispecie legale di cui all’art. 1372 c.c., comma 1, il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto lavorativo a termine in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano oggettivo del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volontà psicologica dei contraenti, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico; e ciò con particolare riferimento alla materia lavoristica ove operano, nell’anzidetta prospettiva, principi di settore che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione (cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526).

In proposito, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di voler porre fine al rapporto grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione dello stesso per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403).

E’ poi consolidato l’orientamento secondo cui il relativo giudizio, sulla configurabilità o meno, in concreto, di un tale accordo per facta concludentia, viene devoluto al giudice di merito, la cui valutazione, se congruamente motivata, si sottrae a censure in sede di controllo di legittimità della decisione (cfr., diffusamente, tra le altre, le sentenze citate).

Ciò posto in via di principio, si rileva che la Corte territoriale, dichiarando che la mera inerzia del lavoratore non poteva essere interpretata come fatto estintivo del rapporto (in quanto tale effetto consegue dal concorso di altre circostanze significative), ha fatto corretta applicazione di tali principi al caso in esame, facendo riferimento proprio a valutazioni di tipicità sociale con riguardo alla semplice inerzia del L. nella situazione descritta, durata per poco più di un anno (tenuto evidentemente conto delle circostanze notorie rappresentate dal tempo necessario a valutare l’eventuale illegittimità del termine e quindi rivolgersi al sindacato e/o all’avvocato, dalla necessità per quest’ultimo di impostare la causa e provvedere al tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. nonchè della altrettanto notoria circostanza relativa all’affidamento che il lavoratore “precario” normalmente fa sulla prospettiva di futuri contratti a termine – soprattutto nei riguardi di una società, come le Poste, che di tale tipologia contrattuale faceva al tempo ampio uso – e al timore di pregiudicare tale esito con l’iniziativa giudiziaria).

Una tale valutazione, proprio perchè ragionevolmente ancorata a parametri di tipicità sociale, non appare censurabile in questa sede di legittimità.

Il secondo motivo di ricorso è fondato, nei limiti di seguito specificati.

Il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, relativo alla “Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES” stabilisce ai primi due commi:

“1 – E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

2 – L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”.

Va anzitutto rilevato che la prima parte di tale secondo motivo di ricorso – con la quale la ricorrente denuncia la violazione del giudicato da parte della Corte, laddove questa aveva qualificato come generiche, alla luce del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, commi 1 e 2, le ragioni addotte nel contratto di lavoro a giustificazione del termine, nonostante che il giudice di primo grado avesse implicitamente ritenuto il contrario e la sua pronuncia non fosse stata specificatamente impugnata dal lavoratore – è manifestamente infondata.

Contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, infatti, la sentenza di primo grado, che la Corte è autorizzata ad esaminare in ragione del tipo di censura svolta, ha esplicitamente rilevato che la difesa di Poste Italiane si era “limitata ad allegare ed a chiedere di provare circostanze del tutto generiche e vaghe riferite alla complessa organizzazione di ristrutturazione che da tempo caratterizza la vita dell’ente”, non apportando “alcun elemento di concreta rilevanza” e per tale ragione mancando di fornire “adeguata giustificazione alla scelta di stipulare contratti a termine con ciascuno degli odierni ricorrenti”.

Del resto, anche la considerazione della Corte d’appello, secondo cui “dinanzi a tali del tutto generici motivi, correttamente il giudice di primo grado ha rilevato che era stata dedotta una prova altrettanto generica” allude all’esistenza di un duplice giudizio nella sentenza di primo grado, di genericità sia delle allegazioni che (“altrettanto”) delle deduzioni probatorie.

Anche le considerazioni della ricorrente sul significato da attribuire al termine “specificate” usato dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 non appaiono condivisibili.

Con l’espressione sopra riprodotta, di chiaro significato già alla stregua delle parole usate, il legislatore ha infatti inteso stabilire un vero e proprio onere di specificazione delle ragioni oggettive del termine finale, perseguendo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità dì tali ragioni nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (così Corte Costituzionale sent. 14 luglio 2009 n. 214).

Il decreto legislativo n. 368 del 2001, abbandonando il precedente sistema di rigida tipicizzazione delle causali che consentono l’apposizione dì un termine finale al rapporto di lavoro (in parte già oggetto di ripensamento da parte del legislatore precedente), in favore di un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), cui ricondurre le singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto, si è infatti posto il problema, nel quadro disciplinare tuttora caratterizzato dal principio di origine comunitaria del contratto di lavoro a tempo determinato (cfr., in proposito, Cass. 21 maggio 2008 n. 12985) del possibile abuso insito nell’adozione di una tale tecnica.

Per evitare siffatto rischio di un uso indiscriminato dell’istituto, il legislatore ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell’onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contento che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale.

In altri termini, per le finalità indicate, tali ragioni giustificatrici, contrariamente a quanto sostenuto in prima battuta dalla ricorrente, devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza dell’effettiva portata delle stesse e quindi il controllo di effettività delle stesse.

Che questo debba ritenersi il significato del termine “specificate” usato dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. cit., risulta del resto confermato dalla interpretazione della relativa disciplina anche alla luce della direttiva comunitaria a cui il decreto medesimo da attuazione.

In proposito, è stato di recente chiarito dalla Corte di giustizia CE (cfr., in particolare sent. 23 aprile 2009 nei procc. riuniti da C – 378/07 a C – 380/07, Kiziaki e altri nonchè sent. 22 novembre 2005, C – 144/04, Mangold) che l’accordo quadro trasfuso nella direttiva 1999/70/CE contiene nel preambolo e del testo sia norme riguardanti ogni tipo di contratto a termine sia norme riferibili esclusivamente al fenomeno della reiterazione di tale tipo di contratto e quindi ai lavoratori dei contratti a termine cd.

successivi.

“Risulta infatti chiaramente sia dall’obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70, sia dall’accordo quadro e dalla formulazione delle pertinenti disposizioni di esso, che… l’ambito disciplinato da tale accordo non è limitato ai soli lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ma che, al contrario, si estende a tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un determinato rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori (punto 116 della sentenza Kiziaki).

In particolare, nella prima categoria rientra a pieno titolo la clausola 8, n. 3 dell’accordo, alla stregua della quale “la applicazione” (della direttiva) “non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo”.

Tale clausola, cd. di non regresso, è stata esplicitamente ritenuta dalla Corte di giustizia come riferita ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto a tempo determinato.

Ed infatti: “La verifica dell’esistenza di una reformatio in pejus ai sensi della clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro deve ritenersi in rapporto all’insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato” (punto 120 della medesima sentenza).

Come è stato recentemente rilevato in dottrina, in tal modo la clausola di non regresso persegue lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto per i datori e sicurezza per i lavoratori.

A ciò consegue che una interpretazione del termine “specificate” che non consentisse, nella piena trasparenza, quel controllo di effettività, assicurato, seppur in maniera diversa, dalla disciplina previgente, risulterebbe in contrasto con la clausola di non regresso di cui alla clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro recepito dalla direttiva, in quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al precedente livello generale di tutela applicabile nello Stato Italiano e finirebbe altresì per configurare un eccesso di delega da parte del governo rispetto a quanto stabilito dalla L. 29 dicembre 2000, n. 422, che a questo attribuiva unicamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, con la possibilità di apportare nei settori interessati dalla normativa da attuare unicamente modifiche o integrazioni necessarie ad evitare disarmonie tra le norme introdotte e quelle già vigenti.

Il collegio ritiene peraltro che siffatta specificazione delle ragioni giustificatrici del termine può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso per relationem in altri testi scritti accessibili alle parti, in particolare nel caso in cui, data la complessità e la articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è alla base della esigenza di assunzioni a termine, questo risulti analizzato in documenti specificatamente ad esso dedicati per ragioni di gestione consapevole e/o concordata con i rappresentanti del personale.

Ciò che la ricorrente deduce essere avvenuto nel caso in esame, in cui il contratto di lavoro del L. (che pur enuncia, nella prima parte, solo genericamente motivi attinenti ad esigenze aziendali) fa riferimento, per precisarne in concreto la portata, “all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002 anche ai sensi dell’accordo 13 febbraio e 17 aprile 2002”.

Da tali accordi, come riprodotti dalla difesa della società nelle parti di interesse (nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione), si desumerebbe infatti l’attivazione, nel periodo dagli stessi considerato e nell’abito del processo di ristrutturazione in atto, di processi di mobilità del personale all’interno dell’azienda al fine di riequilibrane la distribuzione su tutto il territorio nazionale nonchè quanto alle mansioni, da posizioni sovradimensionate, in genere di staff, verso il servizio di recapito, carente di personale.

In tale contesto, secondo la ricorrente, l’accordo 17 ottobre 2001, sul punto implicitamente richiamato anche nelle sede contrattuali successive, prevedrebbe che “La società potrà continuare a ricorrere all’attivazione di contratti a tempo determinato per sostenere il livello di servizio recapito durante la fase di realizzazione dei processi di mobilità di cui al presente accordo, ancorchè nella prospettiva di ridurne gradualmente l’utilizzo”.

Infine, con l’ulteriore indicazione nel contratto del L. della sede lavorativa e delle mansioni cui era assegnato, risulterebbero, secondo la ricorrente, sufficientemente specificate le ragioni giustificative della clausola oppo-sitiva del termine alla sua assunzione.

Attraverso il richiamo agli accordi collettivi citati, il contratto di lavoro del L., specificherebbe infatti, con riferimento alla sede di lavoro e alla posizione lavorativa di questi, che la causale del termine consiste nella necessità di coprire, temporaneamente e fino al progressivo esaurimento del processo di mobilità interaziendale di cui agli accordi medesimi, posizioni di lavoro scoperte, su tutto il territorio nazionale, presso il servizio recapito della società e quindi per ciò che riguarda mansioni e qualifiche ben individuate.

Ciò posto, il collegio rileva che i giudici di merito hanno omesso di esaminare gli elementi di specificazione emergenti dal contratto alla luce delle deduzioni della società, al fine di valutarne l’effettiva sussistenza nonchè la sufficienza sul piano della ricorrenza o meno del requisito di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. cit., contenendo sostanzialmente il loro giudizio di genericità all’interno della sola prima parte della causale enunciata nel contratto di lavoro determinato del L..

Per tali motivi e nei limiti di essi, il ricorso va accolto, con la precisazione che, ove i giudici di merito, cui la causa va rinviata, valutino come sufficientemente specificata la causale, l’onere probatorio relativo alla effettiva ricorrenza nel concreto degli elementi così individuati, ivi compresa l’effettiva destinazione del L. nel corso del rapporto presso la sede di lavoro indicata, con la qualifica e le mansioni conseguenti, graverà sulla società datrice di lavoro e dovrà essere assolto sulla base della documentazione ritualmente acquisita al processo e della prova testimoniale dedotta, che la Corte territoriale ha erroneamente non ammesso, in quanto non ne ha esaminato la specificità e rilevanza alla luce dei principi qui indicati.

Va infatti disattesa la pretesa oggetto della prima parte del terzo motivo di ricorso, alla stregua della quale, nel nuovo sistema introdotto dal D.Lgs. n. 368 del 2001 non graverebbe più sul datore di lavoro l’onere di provare le ragioni obiettive che giustificano la clausola oppositiva del termine, ma dovrebbe essere il lavoratore a dedurre e provare la non ricorrenza nel caso concreto della situazione enunciata per legittimare il termine.

Questa Corte (Cass. 21 maggio 2008 n. 12985, cit. nonchè gli obiter dicta in Cass. 21 maggio 2002 n. 7468 e 26 luglio 2004 n. 14011) ha infatti avuto già modo di osservare che, anche anteriormente alla esplicita introduzione del comma “premesso” dalle L. 24 dicembre 2007, n. 247, art. 39 (secondo cui “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”), il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo pur sempre l’apposizione del termine una ipotesi derogatoria.

Lo testimonia la stessa tecnica legislativa adottata dal decreto legislativo, secondo la quale l’apposizione del termine “è consentita” solo “a fronte” di determinate specifiche ragioni derogatorie, come tali normalmente da provare in giudizio da chi le deduce a sostegno delle proprie difese.

Lo conferma poi il dato relativo alla “vicinanza” al datore di lavoro delle situazioni che consentono la deroga, anch’essa elemento normalmente significativo del conseguente carico probatorio in giudizio.

Infine e soprattutto, un tale risultato ermeneutica è sostenuto dal richiamo alla cd. clausola di non regresso contenuta nella direttiva a cui il decreto dà attuazione, alla luce delle argomentazioni in precedenza svolte nonchè il riferimento al contenuto della delega alla base del decreto legislativo, limitato appunto sostanzialmente all’attuazione della direttiva, che non contiene disposizioni che si attaglino ad una diversa distribuzione dell’onere della prova con riguardo al primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato.

Concludendo, sulla base delle considerazioni svolte, è infondato il primo motivo di ricorso della società nei confronti del L., mentre vanno accolti, nei limiti sopra indicati, il secondo ed il terzo, con conseguente assorbimento del quarto e quinto motivo, entrambi proposti in via subordinata rispetto ai primi.

La sentenza va conseguentemente cassata nella parte considerata, in relazione alle censure accolte, con rinvio, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Messina, che provvederà sulla base dei principi indicati.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso di Poste Italiane s.p.a.

nei confronti di B.P.R., D.M., C.N., P.M., M.C. e Du.Al., compensando integralmente tra le parti relative le spese di questo giudizio di cassazione; accoglie per quanto di ragione il ricorso di P.T. nei confronti di L. G., cassa conseguentemente la sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Messina.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009 e il 27 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2010

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