Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22779 del 12/09/2019

Cassazione civile sez. II, 12/09/2019, (ud. 16/05/2019, dep. 12/09/2019), n.22779

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28155/2015 proposto da:

F.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PALESTRO n.

56, presso lo studio dell’avvocato FRANCO GALLO, che la rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

D.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE

SENARIO n. 98, presso lo studio dell’avvocato MARCO PERRICONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO MAGISTRI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7391/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, di

depositata il 01/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

16/05/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso proposto nel 1993 D.S. convenne in giudizio dinanzi la Pretura di Albano F.G., invocando l’accertamento dei confini tra i fondi limitrofi delle due parti, siti in (OMISSIS). Il ricorrente deduceva in particolare che la determinazione dei confini era stata resa necessaria dalla costituzione di una servitù di passaggio costituita a favore del suo fondo con sentenza del Tribunale di Velletri n. 605/1985. F.G., nel costituirsi in giudizio, non si opponeva alla domanda, chiedendo soltanto che nella fissazione del confine si tenesse conto delle colture esistenti in loco. Esperita l’istruttoria, la causa veniva assegnata alla sezione stralcio del Tribunale di Velletri ed interrotta all’udienza del 27.9.2004 per decesso del resistente. La causa veniva quindi riassunta con ricorso ex art. 303 c.p.c., depositato il 24.11.2004 ma, pur essendo stata tentata la notifica nei termini fissati dal giudice agli eredi del F.G., nessuno compariva all’udienza fissata per la prosecuzione del giudizio, che veniva quindi cancellato dal ruolo. A seguito di apposita istanza del difensore del D., il Tribunale revocava, con provvedimento del 18.7.2015, la propria ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo, fissando nuova udienza per il prosieguo con termine per la notifica a cura del ricorrente.

Si costituiva a detta udienza F.M., erede di F.G., eccependo l’estinzione del giudizio per tardiva notificazione del ricorso in riassunzione ex art. 303 c.p.c. e del pedissequo provvedimento di fissazione dell’udienza, invocando la sospensione ex art. 295 c.p.c., formulando istanze istruttorie e resistendo alla domanda del D..

Con sentenza n. 1477/2017 il Tribunale di Velletri, respinta l’eccezione preliminare sollevata da F.M., accoglieva la domanda determinando il confine tra i due fondi.

Interponeva appello contro detta decisione F.M., riproponendo l’eccezione di estinzione del giudizio per tardività della notificazione del ricorso in riassunzione, il difetto di legittimazione attiva in capo all’appellato D., l’intervenuta usucapione a proprio favore della porzione di fondo che il Tribunale aveva accertato essere in realtà compresa nella proprietà del D., l’infondatezza della domanda da questi svolta e l’erroneo governo delle spese di lite, che il primo giudice aveva posto per intero a carico della F. valorizzando il fatto che costei, nonostante l’iniziale posizione di non opposizione alla domanda del suo dante causa F.G., nel costituirsi in giudizio come erede di quest’ultimo aveva invece contrastato in modo strumentale la richiesta del D..

Si costituiva in seconde cure il D. eccependo l’inammissibilità del gravame per tardività e comunque invocandone il rigetto.

Con la sentenza oggi impugnata, n. 7391/2014, la Corte di Appello di Roma rigettava l’impugnazione, condannando l’appellante alle spese del grado.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione F.M. affidandosi a cinque motivi.

Resiste con controricorso D.S..

A seguito del decesso dell’originario difensore, si è costituito in giudizio, con apposita procura notarile, il nuovo procuratore di parte ricorrente.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente lamenta l’inesistenza della sentenza impugnata ex art. 161 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè la causa sarebbe stata trattenuta in decisione all’udienza del 17.6.2014, ma nella sentenza risulterebbe indicata una Camera di consiglio del 23.9.2014, successiva di oltre novanta giorni rispetto alla data della spedizione a sentenza, mentre il provvedimento sarebbe stato poi depositato in cancelleria a distanza di sei mesi. Ad avviso della ricorrente, da quanto precede deriverebbe la nullità della decisione gravata, in conseguenza della violazione del termine di sessanta giorni dalla data dell’udienza di discussione.

Inoltre, la ricorrente si duole del fatto che nel provvedimento impugnato viene indicato l’impedimento del Presidente del collegio a sottoscriverla per motivi di salute: secondo la F., ove la sentenza fosse stata assunta e pubblicata nel suindicato termine di sessanta giorni, il Presidente non sarebbe stato impedito a sottoscriverla.

Infine, la ricorrente evidenzia che il potere del consigliere anziano di sottoscrivere la sentenza in luogo del presidente presuppone che costui sia colpito da un impedimento non di breve durata; la Corte territoriale, formalmente richiesta dalla F. di trasmettere copia della documentazione sanitaria sulla natura dell’impedimento del Presidente il collegio, non ha ottemperato all’invito, in tal modo impedendo la verifica della sussistenza dei presupposti del potere di firma di cui sopra.

Il motivo è infondato, in tutte e tre le sue articolazioni.

Il termine di sessanta giorni per il deposito della decisione, oltre ad essere prorogabile, non ha natura perentoria ma soltanto ordinatoria. Dalla sua eventuale inosservanza possono dunque discendere conseguenze disciplinari a carico del consigliere incaricato della stesura della sentenza, ma giammai la nullità di quest’ultima, posto che nessuna norma prevede detta conseguenza ed il vigente sistema processuale è ispirato al criterio della tassatività delle ipotesi di nullità degli atti processuali.

Il fatto che la decisione sia stata assunta in una Camera di consiglio tenutasi a distanza di oltre novanta giorni dall’udienza in cui la causa era stata trattenuta a sentenza è del pari irrilevante, posto che nessuna norma impone la decisione contestuale, non applicandosi al caso di specie il cd. rito del lavoro. Anzi, proprio la circostanza che – solitamente – nel rito ordinario di appello dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni vengono assegnati alle parti i termini di cui all’art. 190 c.p.c., per il deposito di comparse conclusionali e repliche giustifica ampiamente il fatto che la decisione venga assunta in una Camera di consiglio successiva alla data dell’udienza di precisazione delle conclusioni.

Infine, con riguardo alla natura dell’impedimento del Presidente, non compete alla parte alcun potere di verifica. Il fatto che l’istanza extra ordinem presentata dalla precedente difesa della F. per ottenere informazioni sul detto impedimento non abbia avuto seguito è dovuto a più che intuibili motivi di tutela della riservatezza del Presidente il collegio. Peraltro il consigliere anziano, nel sottoscrivere la decisione impugnata ai sensi di quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., u.c., ha correttamente attestato in calce al provvedimento l’impedimento del Presidente, dando atto che esso era stato documentato da apposita certificazione inviata alla cancelleria della Corte di Appello: è evidente che nel far ciò il consigliere si è assunto la responsabilità della predetta dichiarazione e della sua corrispondenza al vero. Qualora la parte dubitasse della veridicità di detta attestazione, dovrebbe proporre le iniziative ritenute opportune in altra sede; di certo però, non potendosi configurare alcuna nullità della decisione in assenza di specifica norma, posto che la decisione è formalmente corretta e completa di tutte le sottoscrizioni previste dall’art. 132 c.p.c., u.c., il predetto dubbio non può costituire motivo di ricorso in Cassazione.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 303 e 307 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe errato nel non dichiarare l’intervenuta estinzione del giudizio, in conseguenza del fatto che il ricorso per riassunzione conseguente al decesso del dante causa della F.M. non sarebbe stato a costei notificato nei termini fissati dal giudice nel provvedimento di fissazione dell’udienza per la prosecuzione della causa dichiarata interrotta. Ad avviso della ricorrente la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare che il predetto ricorso per la riassunzione le era stato notificato il 23.2.2005 mentre il termine all’uopo fissato dal primo giudice scadeva il 22.2.2005; inoltre avrebbe dovuto dichiarare l’irritualità della successiva ordinanza con cui il Tribunale, dopo aver dichiarato estinto il giudizio, aveva revocato detto provvedimento fissando ulteriore udienza.

La doglianza è infondata sotto diversi e concorrenti profili, pur dovendosi correggere la motivazione resa, sul punto, dalla Corte capitolina: risulta infatti dagli atti del giudizio, ed in particolare dalla stessa sentenza di prime cure, che la F.M., nel costituirsi in giudizio come erede dell’originario resistente, aveva sollevato eccezione di intervenuta estinzione per tardività della notifica del ricorso in riassunzione. Tuttavia proprio la motivazione resa dal primo giudice, che sul punto merita di essere recuperata, dimostra l’assoluta infondatezza della doglianza dell’odierna ricorrente, posto che il termine per la notificazione del ricorso ex art. 303 c.p.c., non era – come ritiene la F. – il 22.2.2005, bensì il 28.2.2005, con conseguente tempestività della notifica a lei pervenuta materialmente il 23.2.2005. Inoltre il Tribunale ha correttamente affermato che, in base al ben noto principio della scissione degli effetti della notificazione, il termine decadenziale è rispettato, per la parte notificante, con la consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, che nel caso di specie era avvenuta addirittura il 17.2.2015.

Ne deriva che, in concreto, non si è verificato alcun profilo di tardività della notificazione del ricorso per la riassunzione del giudizio interrotto con pedissequo provvedimento di fissazione dell’udienza di prosecuzione del giudizio.

Del pari infondata è l’altra parte della censura, con la quale la ricorrente rileva l’irrituale revoca, da parte del Tribunale, della propria ordinanza di estinzione del giudizio di prime cure. Dall’esame degli atti del giudizio di merito, consentito al Collegio trattandosi di contestazione di un vizio processuale, risulta che il Tribunale non aveva affatto dichiarato estinto il giudizio, ma solo disposto la sua cancellazione dal ruolo a seguito della mancata comparizione delle parti all’udienza fissata per la prosecuzione a seguito del ricorso in riassunzione presentato dal D.. Si legge infatti, testualmente, nel provvedimento del giudice di prime cure del 18.7.2005, reso in calce alla “istanza di prosecuzione del giudizio e di revoca dell’ordinanza di cancellazione” sottoscritta dal procuratore del D. e datata 23.6.2005, quanto segue: “Il GOA, vista l’istanza che precede, revoca la propria ordinanza in data 11.4.05 di cancellazione della causa del ruolo; fissa per la prosecuzione del giudizio l’udienza del 10.10.05 ore 9,30 con termine per la notifica alle altre parti costituite fino a 30 giorni prima”. Va considerato che il provvedimento di cancellazione dal ruolo, proprio in quanto non equivalente all’estinzione del giudizio, non comporta alcuna perdita della potestas decidendi in capo al giudice, il quale di conseguenza ben può disporre la revoca del proprio provvedimento di cancellazione, a condizione che sia assicurato comunque il rispetto del contraddittorio tra le parti. Nel caso di specie il Tribunale, nel disporre la revoca della cancellazione dal ruolo, ha fissato l’udienza per la prosecuzione del giudizio onerando il D. della notificazione alle altre parti in un termine idoneo a consentire l’esplicazione, da parte di queste ultime, delle proprie prerogative difensive: di conseguenza, non si è prodotta alcuna violazione delle disposizioni processuali, neanche con riferimento al principio del cd. giusto processo.

Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 950 c.c. e art. 102 c.p.c., nonchè l’erroneità e l’apparenza della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè la Corte di Appello avrebbe dovuto determinare i confini tra i due fondi dando prevalenza ai titoli di proprietà delle parti.

Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 950 c.c. e l’inesistenza della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè la Corte capitolina avrebbe dovuto operare una revisione critica delle valutazioni del Tribunale, che aveva errato nell’escludere rilevanza ai titoli di proprietà depositati dalla F. in prime cure a cagione della loro risalenza nel tempo.

Le due censure, che meritano un esame congiunto perchè entrambe inerenti ai titoli di proprietà allegati dalla F. al giudizio di prime cure, sono inammissibili perchè non colgono la ratio della sentenza impugnata. La Corte territoriale ha infatti ritenuto inammissibile la contestazione della domanda del D. proposta dalla F. all’atto della sua costituzione in giudizio, a fronte della dichiarata iniziale non opposizione del suo dante causa F.G.. Sul punto, va ribadito che l’erede della parte originaria succede a quest’ultima nella stessa posizione processuale e subisce tutte le preclusioni eventualmente già maturate nei suoi confronti, senza che al solo fatto del decesso di detta parte possa conseguire una qualsiasi forma di remissione in termini dell’erede per la formulazione di domande, eccezioni o istanze non tempestivamente proposte dal suo dante causa, originaria parte processuale. Pertanto la F., nel costituirsi quale erede dell’originario resistente, non aveva alcun potere di sollevare contestazioni non tempestivamente proposte dal suo dante causa.

Con il quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè la Corte di Appello avrebbe errato nel porre a suo carico le spese del giudizio di seconda istanza, liquidando il compenso massimo previsto dallo scaglione di valore applicabile di cui al D.M. n. 55 del 2014, avendo – ad avviso della F. – il terreno contestato un valore al massimo di Euro 5.000. Inoltre il giudice di appello non si sarebbe avveduto che il Tribunale aveva a sua volta liquidato una somma pari al doppio di quella massima prevista per lo scaglione anzidetto, con riferimento ai valori di cui al D.M. n. 127 del 2004, applicabile al momento della prima decisione.

La censura è inammissibile per difetto di specificità, posto che la ricorrente afferma, ma non dimostra, che la causa avrebbe un valore contenuto nei limiti della somma di Euro 5.000. Nè il motivo contiene alcun riferimento alle dichiarazioni di valore della controversia fatte dalle parti nel corso dei gradi di merito. In assenza di tali riferimenti il collegio non è in grado di rivalutare la determinazione delle spese di lite fatta propria dal giudice di primo e secondo grado, che va ritenuta – in difetto di idonea dimostrazione del contrario a cura della ricorrente – correttamente eseguita sulla base del valore indeterminato della controversia.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, va dichiarata la sussistenza, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dei presupposti per l’obbligo di versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.200 di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in misura del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2019

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