Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22778 del 09/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 09/11/2016, (ud. 09/06/2016, dep. 09/11/2016), n.22778

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4430-2014 proposto da:

NOVARTIS FARMA S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA

DONATELLO 23, presso lo STUDIO DELL’AVVOCATO PIERGIORGTO VILLA, che

la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CARLO ADELCHI

PIRIA, FRANCESCA LIBANORI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA FABIO MASSIMO 45, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI

PELLETTIERI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ROSA TRONCELLITI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7141/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 04/11/2013 R.G.N. 6444/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato PIRIA CARLO ADELCHI;

udito l’Avvocato TRONCELLITI ROSA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Di seguito a sentenza con la quale veniva dichiarata l’illegittimità dell’impugnato licenziamento, con relativa reintegra nel posto di lavoro L. n. 300 del 1970, ex art. 18 e conseguente condanna della convenuta società NOVARTIS FARMA al risarcimento commisurato alle retribuzioni non corrisposte dal recesso sino alla riammissione in servizio, l’interessato lavoratore P.A. chiedeva decreto ingiuntivo per quanto non corrispostogli dal (OMISSIS).

Il giudice del lavoro di Roma concedeva l’invocato provvedimento monitorio per il minor importo di 202.413,47 Euro, oltre accessori e spese.

Il decreto veniva opposto dalla NOVARTIS FARMA, secondo la quale tra l’altro andava detratto l’aliunde perceptum, per la cui valutazione la società aveva a suo tempo proposto espressa domanda, però ignorata dall’adito giudice di appello, sicchè era stato proposto anche ricorso per cassazione.

Pertanto, in via subordinata e riconvenzionale, l’opponente chiedeva di accertare che il P. in epoca posteriore al suo licenziamento aveva goduto di altre fonti di reddito da lavoro, di modo che andava revocato il decreto o comunque ridotto il credito vantato dal lavoratore.

Il tribunale rigettava l’opposizione mediante sentenza, quindi impugnata dalla NOVARTIS FARMA.

La Corte di Appello di Roma con pronuncia n. 7141 in data 18 luglio – 4 novembre 2013 rigettava l’interposto gravame, condannando la società al pagamento delle ulteriori spese di lite, osservando, tra l’altro, che in questo secondo giudizio, instaurato per la sola liquidazione dell’indennizzo già riconosciuto sensi dei citato art. 18, non era più ammissibile la questione relativa all’aliunde perceptum, mentre il diritto era stato ormai stato accertato con la precedente sentenza n. 1315/10, laddove era stata pronunciata la condanna generica al risarcimento dei danno. Di conseguenza, avendo tale sentenza già risolto la questione della liquidazione del risarcimento, secondo la presunzione juris tantum di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 la successiva liquidazione comportava una questione dì mero calcolo aritmetico, cui era estranea ogni altra eccezione.

Avverso la pronuncia della Corte di Appello n. 7141/13 ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi la società NOVARTIS FARMA, cui ha resistito il P. mediante controricorso.

Sono state depositate memorie x art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso della società si fonda sui seguenti tre motivi:

1) ex art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza per omissione di pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c. sulla subordinata domanda di compensazione del danno con l’aliunde perceptum. La motivazione della Corte capitolina non era stata specifica in relazione al sesto (rectius quinto) motivo d’appello, essendo stata resa per relationem con riferimento al secondo motivo; ciò che in realtà integrava un vero e proprio difetto di motivazione, poichè la questione dell’aliunde perceptum non aveva alcuna relazione con il secondo motivo d’appello e con la relativa argomentazione fornita dalla Corte territoriale, in quanto tale censura era di natura eminentemente processuale ed atteneva alla praticabilità del procedimento monitorio per la determinazione in concreto del danno di cui alla precedente condanna generica;

2) ex art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame circa il fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, in merito alla disponibilità, da parte dell’appellato, di altre fonti di reddito. In particolare, all’udienza del 19 luglio 2011 parte appellante chiese di produrre idonea documentazione, da cui emergeva che dopo la cessazione del rapporto di lavoro con NOVARTIS FARMA, avvenuta il (OMISSIS), il P. era stato occupato da (OMISSIS) sino al (OMISSIS) come area manager Lazio di PHARMAITALIA S.r.l., poi come team manager da (OMISSIS) presso PAGINE UTILI ed infine da (OMISSIS) come area sales manager centre Italy presso la S.p.a. SAINT GOBAIN PPC Italia.

In seguito, pur acquisito il documento allo stato degli atti, non era stata assunta alcuna decisione istruttoria al riguardo, laddove la sentenza impugnata, trovando inammissibile la domanda sul c.d. aliunde perceptum, aveva omesso ogni esame fattuale sul tema;

3) ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, secondo il testo applicabile ratione temporis – violazione degli artt. 1223, 1227 e 2964 c.c. nonchè degli artt. 36 e 24 Cost..

Infatti, la sentenza impugnata, nell’affermare la necessità della domanda relativa all’aliunde perceptum nel medesimo giudizio relativo al licenziamento, aveva finito per istituire, in violazione dell’art. 2964, una decadenza non prevista dalla legge, nè ragionevolmente deducibile per via interpretativa.

Nella specie il giudice investito dell’impugnazione avverso il recesso, non disponendo di tutti gli elementi necessari per determinare l’indennità risarcitoria, si era limitato ad una condanna generica, ripetitiva del precetto legate, con la conseguenza che l’ammontare del danno si fondava su presunzione juris tantum. Di conseguenza, mancando altresì un titolo esecutivo al riguardo, non vi era ragione di escludere, secondo la ricorrente, dal successivo giudizio, instaurato per la quantificazione dell’ammontare dovuto, ogni utile difesa fondata sugli artt. 1123 e 1227 c.c., così da poter superare nella fase di concreta liquidazione del danno l’anzidetta presunzione relativa. Diversamente opinando, a dire della ricorrente, si incorreva altresì netta violazione dell’art. 24 Cost., limitando irragionevolmente il diritto di difesa in pregiudizio della convenuta parte datoriale, peraltro ancor più gravata di obblighi risarcitori in forma di danni punitivi, ignoti alla legislazione e contrastanti con i principi generali dell’ordinamento.

Il ricorso va disatteso sulla scorta delle seguenti considerazioni.

Ed invero, quanto al primo motivo, sebbene sia stata denunciata, nell’intestazione della censura, una omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella illustrazione della doglianza la ricorrente contesta in effetti un difetto di motivazione, come tale però non rilevante alla luce di quanto previsto nella formulazione dei vigente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella specie ratione temporis applicabile, atteso che la pronuncia qui impugnata risale al 18 luglio/4 novembre 2013.

Infatti, la ricorrente si è doluta che la motivazione della sentenza non era specifica rispetto al sesto motivo di appello, essendo stata invece resa per relationem con riferimento al secondo motivo di gravame, donde un vero e proprio difetto di motivazione (v. sul punto quanto pure testualmente dedotto a pag. 7 del ricorso).

Invero, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. sez. un. civ. n. 8053 del 07/04/2014, secondo cui peraltro l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

In senso analogo v. Cass. Sez. 6 – 3, n. 21257 – 08/10/2014, secondo cui dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto; al contrario, il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Cfr. poi la recente pronuncia di Cass. 3^ civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciatile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante.

Cfr. altresì Cass. Sez. 6 – 3, n. 25714 del 4/12/2014, secondo cui la differenza fra l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 consiste nel fatto che, nel primo caso, l’omesso esame concerne direttamente una domanda o un’eccezione introdotta in causa, autonomamente apprezzabile, ritualmente ed inequivocabilmente formulata, mentre nel secondo, l’omessa trattazione riguarda una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione. Conforme Cass. n. 5444 del 2006).

Orbene, nel caso di specie non è ravvisabile alcuna omessa pronuncia da parte della Corte territoriale, la cui motivazione va letta nel suo complesso e non frammentariamente, tenuto conto di quanto ivi osservato, in particolare relativamente al secondo motivo di appello, laddove tra l’altro si assumeva che la prova liberatoria ex art. 1218 c.c. andava fornita nei processo di appello in cui era stata pronunciata la sentenza che (nei ritenere l’illegittimità del licenziamento) aveva emesso condanna generica al pagamento dell’indennità commisurata alle retribuzioni non percepite, sicchè correttamente la sentenza impugnata (giudice del lavoro Roma n. 3744, che aveva respinto l’opposizione avverso il di.), aveva ritenuto inammissibile l’eccezione di aliunde perceptum (proposta dalla società sotto forma di domanda riconvenzionale), eccezione che non poteva essere sollevata nel giudizio che aveva ad oggetto la sola quantificazione del credito già accertato genericamente con la sentenza n. 1315/10, dovendo essere necessariamente fatta valere nei processo in cui era stata pronunciata la condanna al risarcimento del danno. Di conseguenza, avendo tale pronuncia n. 1315/10 già risolto la questione della liquidazione del risarcimento, secondo la presunzione juris tantum, la successiva quantificazione involgeva un mero calcolo aritmetico.

Circa, poi, il quinto motivo, con il quale la società appellante aveva censurato la decisione di primo grado per aver ritenuto inammissibile la riconvenzionale concernente l’aliunde perceptum (secondo cui ammessa la possibilità che il giudizio relativo alla quantificazione possa completarsi in un separato processo, anche per questo secondo sarebbe necessariamente ammissibile la contro domanda limitativa del risarcimento), del tutto legittimamente tale censura veniva giudicata infondata, rimandando alle argomentazioni già svolte con riferimento all’anzidetto secondo motivo di appello.

Pertanto, non sussiste alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., nè per quanto in precedenza osservato la censura di cui al primo motivo è ammissibile ai sensi del citato art. 360, n. 5.

Le precedenti considerazioni appaiono, altresì, assorbenti rispetto a quanto dedotto con il surriferito secondo motivo di ricorso, formulato ai sensi del citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, peraltro in base a circostanze di fatto, però considerate evidentemente irrilevanti dai giudici di merito, stante la ritenuta inammissibilità dell’eccezione, in via riconvenzionale, di aliunde perceptum nel secondo giudizio di quantificazione dell’indennizzo dovuto L. n. 300 del 1970, ex art. 18 già riconosciuto mediante condanna generica a seguito dell’accertata illegittimità del licenziamento.

Parimenti va detto per quanto concerne il terzo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, laddove in effetti parte ricorrente nuovamente ripropone, sebbene con altre argomentazioni, la questione della mancata pronuncia nel merito circa l’opposto aliunde perceptum.

Tuttavia, al riguardo va osservato che, come si evince anche dalla sentenza d’appello qui impugnata, la suddetta eccezione era stata già sollevata dalla NOVARTIS FARMA nel precedente giudizio, laddove aveva chiesto con espressa domanda di valutare l’aliunde perceptum, domanda che tuttavia si assumeva ignorata dalla precedente sentenza di appello e per cui era stato anche proposto ricorso per cassazione.

In effetti, dalla sentenza n. 7994 del 18/04 – 21/05/2012 di questa Corte sulla decisione n. 1315/2010 della CORTE d’APPELLO di ROMA (ricorrente NOVARTIS FARMA SPA contro P.A.), di rigetto del ricorso proposto dalla società, emerge che la Corte territoriale, riformando ia sentenza dì primo grado, aveva accolto la domanda del P. nei confronti della Novartis Farma, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento, intimatogli dalla predetta società, con tutte le conseguenze giuridiche ed economiche di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 e successive modifiche.

Avverso questa sentenza la società ricorreva in cassazione sulla base di sei censure.

Orbene, con il sesto ed ultimo motivo la società, denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, ed art. 1223, assumeva l’omessa pronuncia da parte della Corte di Appello sulla domanda di compensazione dell’aliunde perceptum, motivo però anch’esso ritenuto non accoglibile per le ragioni indicate nella succitata precedente sentenza di questa Corte.

Pertanto, in effetti la medesima questione di cui al terzo motivo dei ricorso qui in disamina già risulta definita con pronuncia ormai coperta da giudicato, che, sebbene esterno, in quanto derivato da altro procedimento, formalmente distinto da questo giudizio, però riguardante le stese parti, è rilevabile comunque pure di ufficio, in ogni stato e grado (ma la questione risulta invero essere stata anche già dedotta dal P., con espresso riferimento alla sentenza n. 7994/12, resa di seguito alla pubblica udienza svoltasi il 18.04.2012, in sede di appello – cfr. pag. tre del controricorso, nonchè la stessa pronuncia allegata alla memoria ex art. 378 c.p.c. per il P..

V., tra le altre, Cass. Sez. 6 – 5, sentenza n. 11365 – 01/06/2015, secondo cui l’esistenza di un giudicato esterno è rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità, e, qualora esso si sia formato dopo la notifica del ricorso per cassazione, i relativi documenti giustificativi possono essere prodotti, dalla parte regolarmente costituitasi, fino all’udienza di discussione.

Cfr., peraltro, Cass. lav. n. 24740 del 4/12/2015, secondo cui nel giudizio di cassazione, in caso di giudicato esterno conseguente ad una sentenza della stessa Corte, la cognizione del giudice di legittimità può avvenire anche mediante quell’attività di ricerca, che costituisce corredo del collegio giudicante nell’adempimento della funzione nomofilattica di cui all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario e dei dovere di prevenire contrasti tra giudicati, in coerenza con il divieto del “ne bis in idem”. Conformi: Cass. n. 30780 del 2011, nonchè Sezioni Unite n. 26482 del 2007).

Pertanto, visto che il c.d. aliunde perceptum è stato, comunque, già dedotto dalla stessa società, attuale ricorrente, net precedente separato giudizio, conclusosi però definitamente con il rigetto dell’eccezione al riguardo opposta, appare così precluso ogni ulteriore esame nel merito della questione, tanto più poi che nemmeno emerge dagli atti alcuna novità in punto di fatto, rispetto alle circostanze in precedenza dedotte, circa l’asserita ulteriore attività di lavoro con conseguenti fonti di reddito a favore del P., per l’epoca posteriore alla sentenza d’appello n. 1315, pubblicata il 22 aprile 2010, poi confermata da Cass. lav. n. 7994/12 con il rigetto del ricorso di NOVARTIS FARMA.

Dunque, il ricorso va respinto, con conseguente condanna alle spese della parte rimasta soccombente, tenuta altresì come per legge al versamento dell’ulteriore contributo unificato, ravvisandosi ad ogni modo gli estremi di cui all’art. 96 c.p.c. nei sensi a tal riguardo richiesti da parte controricorrente.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 5000,00 per compensi professionali, oltre Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, con attribuzione agli avv.ti Giovanni Pellettieri e Rosa Troncelliti, dichiaratisi anticipatari per il controricorrente. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2016

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