Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2277 del 30/01/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 30/01/2017, (ud. 01/12/2016, dep.30/01/2017),  n. 2277

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24274/2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– ricorrente –

contro

EDIL LOPERFIDO SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SICILIA 66, presso lo studio

dell’avvocato ROBERTO ESPOSITO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato DANIELA CUTARELLI, giusta procura speciale

in calce al controricorso;

– controticorrente –

avverso la sentenza a 37/02/2015 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di POTENZA del 17/02/2014, depositata il 15/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’01/12/2016 dal Consigliere Relatore Dott. LUCIO NAPOLITANO;

udito l’Avvocato Roberto Esposito difensore della controricorrente

che si riporta agli scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte, costituito il contraddittorio camerale sulla relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c., osserva quanto segue:

Con sentenza n. 37/02/15, depositata il 15 gennaio 2015, non notificata, la CTR della Basilicata ha rigettato sia l’appello principale proposto dall’Agenzia delle Entrate, Direzione provinciale di Matera, sia quello incidentale proposto dalla Edil Loperfido S.r.l., per la riforma della sentenza di primo grado della CTP di Matera, che aveva parzialmente accolto il ricorso della società, per l’annullamento di avviso di accertamento, con il quale l’Ufficio aveva accertato in via induttiva per l’anno 2004 un maggior reddito imponibile della società, da imputare ai soci ai fini Irpef in ragione delle rispettive quote di partecipazione come da separati avvisi, nonchè le maggiori Irap ed Iva dovute con applicazione delle relative sanzioni.

Avverso la pronuncia della CTR l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

La società resiste con controricorso.

Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate deduce violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, commi 1 e 5 e art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che “le spese di pubblicità e sponsorizzazione per Euro 25.000,00 risultano essere sproporzionate e correttamente sono state ridotte, dai primi Giudici, ad Euro 12.500,00, tenuto conto sia del reddito dichiarato per l’anno in questione sia degli investimenti fatti per l’adeguamento degli immobili aziendale”.

Nell’articolazione del motivo l’Amministrazione finanziaria per un verso censura la sentenza impugnata perchè si sarebbe sostanzialmente limitata a condividere la decisione resa sul punto dal giudice di primo grado, sebbene la società contribuente non avesse fornito alcun elemento per giustificare la sproporzione del costo sostenuto e per confutare le argomentazioni e le valutazioni poste alla base del recupero; per altro, invece assume che la decisione impugnata avrebbe sostanzialmente confermato sul punto la legittimità dell’accertamento, atteso che nell’atto impositivo in realtà le spese di sponsorizzazione, portate dalla società come deducibili per l’importo di Euro 40.000,00, erano state riconosciute deducibili solo per Euro 15.000,00, con recupero a tassazione della differenza di Euro 25.000,00, di modo che la CTR, riconoscendo la deducibilità delle spese di pubblicità e sponsorizzazione nella misura di Euro 12.500,00, avrebbe indicato una deducibilità inferiore a quella accertata dall’Ufficio in Euro 15.000,00, ciò equivalendo in sostanza a riconoscere l’entità determinata in sede di accertamento.

Il motivo è da ritenersi inammissibile. Delle due l’una: o la decisione impugnata ha inteso effettivamente riconoscere la deducibilità delle spese di pubblicità e sponsorizzazione nell’importo di Euro 12500,00 e, allora, non vi sarebbe sul punto soccombenza dell’Amministrazione, donde l’inammissibilità del motivo d’impugnazione per carenza d’interesse (non potendo esso essere diretto soltanto alla modifica della motivazione: cfr., tra le altre, Cass. sez. lav. 16 gennaio 2015, n. 658; Cass. sez. lav. 24 marzo 2010, n. 7057); ovvero, sia pur con formulazione sul piano letterale sicuramente non felice, la decisione impugnata, nel condividere riguardo alla questione in esame la pronuncia di primo grado, ha inteso ridurre l’importo delle spese di pubblicità e sponsorizzazione da Euro 25.000,00 (40.000 – 15.000,00) ritenuto indeducibile dall’Ufficio, ad Euro 12500,00.

In tal caso, peraltro, la decisione è frutto di uno specifico accertamento di fatto che ha giustificato la decisione sul punto parzialmente favorevole alla contribuente alla stregua “sia del reddito dichiarato per l’anno in questione, sia degli investimenti fatti per l’adeguamento degli immobili aziendali”.

Ne deriva che, trattandosi di accertamento di fatto, lo stesso avrebbe potuto essere censurato in sede di legittimità in relazione al parametro dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, peraltro, in questa sede, neppure invocabile, nei limiti della sua attuale formulazione, trattandosi di cd. doppia conforme (cfr. Cass. sez. unite 7 aprile 2014, n. 8053).

Del pari risulta inammissibile il secondo motivo, con il quale l’Agenzia delle Entrate, lamentando formalmente la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, censura sub specie della citata ultima norma quello che costituisce un tipico accertamento di fatto del giudice di merito, che ha ritenuto non condivisibile il metodo utilizzato dall’Ufficio per determinare la percentuale di ricarico, “perchè, pur in presenza dell’intera contabilità di magazzino,… ha preso a campione solo 119 prodotti su 6000 trattati dalla società”, facendo quindi conseguire, in ragione della non ritenuta rappresentatività del campione esaminato dell’intera gamma commercializzata la conclusione in termini di non applicabilità, per la ricostruzione dei ricavi in via induttiva, della percentuale di ricarico media ponderata del 29,12% applicata dall’Ufficio rispetto a quella del 25,54% dichiarata dalla società.

Questa Corte ha, in proposito, più volte avuto modo di precisare come la censura della valutazione del giudice di merito in punto di determinazione della percentuale di ricarico, in quanto afferente a giudizi di fatto, sia insindacabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata, risolvendosi in realtà nella fattispecie in esame la censura nella richiesta di un apprezzamento dei fatti in senso difforme da quanto statuito dal giudice tributario (cfr., tra le molte, Cass. sez. 5, 14 marzo 2008, n. 6946; più di recente Cass. sez. 5, 12 ottobre 2016, n. 20503), ciò che è precluso dinanzi a questa Corte.

Va pertanto dichiarata l’inammissibilità del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, essendo parte ricorrente Amministrazione pubblica per la quale ricorre il meccanismo di prenotazione a debito delle spese (cfr. Cass. sez. unite 8 maggio 2014, n. 9338; più di recente, tra le altre, Cass. sez. 6-L, ord. 29 gennaio 2016, n. 1778).

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed in Euro 7000,00 per compenso, oltre rimborso spese forfettarie ed accessori, se dovuti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2017

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