Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22756 del 28/09/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 28/09/2017, (ud. 27/06/2017, dep.28/09/2017),  n. 22756

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 18334/2016 R.G. proposto da:

P.A., in difetto di elezione in Roma da considerarsi per

legge domiciliato ivi, presso la CANCELLERIA della CORTE SUPREMA di

CASSAZIONE, da se stesso rappresentato e difeso;

– ricorrente –

contro

C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA della CORTE SUPREMA di CASSAZIONE,

rappresentato e difeso da se stesso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 424/2016 del TRIBUNALE di LECCO, depositata il

14/06/2016;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata

del 27/06/2017 dal Consigliere Dott. Franco DE STEFANO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

rilevato che:

l’avv. P.A. ricorre, affidandosi a due motivi e con atto notificato il 22/07/2016, per la cassazione della sentenza n. 424 del 14/06/2016, notificata il 16/06/2016, con cui il Tribunale di Lecco ha rigettato l’opposizione ex art. 617 c.p.c. da lui proposta con atto di citazione notificato il 17/03/2015 avverso la notifica a lui operata il 10/03/2015 in via telematica dall’avv. C.R. e relativa a precetto fondato su sentenza n. 70/15 del giudice di pace di Lecco, incentrate sull’illeggibilità degli allegati con estensione “.p7m”;

l’intimato avv. C.R. resiste con controricorso;

è formulata proposta di definizione – per manifesta infondatezza, attesa l’inammissibilità del primo motivo e la manifesta infondatezza del secondo – in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1, come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197;

Il ricorrente deposita documentazione, tra cui la copia notificata della sentenza impugnata, nonchè memoria ai sensi del secondo comma, ultima parte, del medesimo art. 380-bis;

considerato che:

deve darsi atto che, indicato in ricorso che la sentenza impugnata (la n. 424/16 del tribunale di Lecco) è stata notificata in data 16/06/2016, la copia notificata non risulta ritualmente depositata in atti entro il termine previsto dall’art. 369 c.p.c., comma 1, in quanto a tanto il ricorrente si è indotto soltanto con la notifica di documenti ai sensi dell’art. 372 c.p.c. non prima del 07/06/2017, come risulta dal relativo elenco prodotto in atti: non rilevando la dedotta difficoltà di scarico del relativo documento informatico, oltretutto nemmeno essendo stata al riguardo formulata una rituale istanza di rimessione in termini e sempre ammesso che ne risultassero i presupposti, visto che, per quanto si dirà, sarebbe stato comunque onere del professionista destinatario della notifica munirsi dei minimali strumenti informatici richiesti dal sistema normativo, anche secondario, per leggere o decodificare le notifiche delle controparti (o le comunicazioni o notifiche della cancelleria) eseguite col sistema della posta elettronica certificata;

al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte è fermissima nel comminare la sanzione dell’improcedibilità in caso di mancato deposito della copia notificata della sentenza gravata entro il termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, tutte le volte che lo stesso ricorrente – come avviene nella specie – deduca che la sentenza stessa gli sia stata notificata, ammettendo solo un deposito tardivo ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., purchè esso avvenga appunto entro il medesimo termine previsto a pena di improcedibilità (per tutte: Cass. Sez. U. ord. 16/04/2009, n. 9005, seguita da numerose successive; nè potendo operare, nella specie e per le sue peculiarità, il principio più permissivo in questi giorni affermato da Cass. Sez. U. 02/05/2017, n. 10648, che esclude l’improcedibilità ove la copia notificata sia comunque stata presente, entro quel termine, negli atti del fascicolo, non importa da chi prodotta o come acquisita);

tuttavia, il ricorso è stato comunque notificato prima del sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza gravata e quindi risulta irrilevante l’evidente tardività del deposito di questa completa di relata di notifica (Cass. 10/07/2013, n. 17066);

ciò posto, il ricorrente si duole in questa sede, col primo motivo, di “violazione di legge (artt. 3 e 24 Cost.)”, ma il motivo è infondato, a prescindere da ogni rilievo formale sulla carenza di precisa indicazione in ricorso della sede processuale di formulazione della questione al giudice del merito;

la questione, come articolata nel primo motivo di ricorso, si incentra nella ascrivibilità o meno della mancata lettura dei documenti sottoscritti (o forse rectius formati) in CAdES al destinatario della notifica, che non si sia dotato degli strumenti per decodificarla o leggerla, ovvero al notificante; ed è prospettata pure una disparità di trattamento con le notifiche cartacee (o, rectius, in formato analogico) per la pienezza della conoscenza e/o conoscibilità che queste, a differenza di quelle telematiche, assicurerebbero ove si imponesse al destinatario di dotarsi di specifici strumenti o programmi di lettura o decodifica; con finale negazione dell’esistenza di qualunque normativa che imponga al destinatario dell’atto di munirsi di un programma di lettura di file con “suffisso” – recte, estensione – “p7m”, il quale comporterebbe oneri particolari e non esigibili, violando apertamente gli artt. 3 e 24 Cost.;

va notato, in via preliminare, che non sono qui idoneamente riproposte altre questioni, pure esaminate e disattese dalla gravata sentenza, quali la legittimità del ricorso alla notifica diretta, da parte di un avvocato ed ai sensi della L. n. 54 del 1993, art. 3bis, a mezzo posta elettronica nei confronti di un altro avvocato nella sua qualità di destinatario di un atto di precetto, nonchè la piena sussumibilità di quest’ultimo nella fattispecie degli atti del processo formati in forma di documento informatico (o, comunemente, “nativi informatici”): questioni le quali vanno, pertanto, lasciate necessariamente impregiudicate;

in questi precisi e limitati termini, la questione posta col primo motivo, anche quanto alla prospettata contrarietà alle richiamate norme costituzionali, è manifestamente infondata, a volere ritenere superabile la carenza – correttamente riscontrata nella proposta del relatore (e corrispondente a principi affermati correntemente nella giurisprudenza di questa Corte in relazione all’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, al fine di escludere la novità della doglianza in questa sede) e non emendabile per presunzioni o in base a ciò che accade di norma – di puntuale indicazione, nel ricorso per Cassazione, dei passaggi degli atti del giudizio di merito in cui la tesi è stata in concreto sottoposta ai giudici di quello;

il corpus di norme, anche tecniche e di rango secondario, su cui si basa il c.d. processo telematico ha reso possibile e pertanto legittimo, ma anzi via via talvolta perfino indispensabile in quanto necessario perchè unico strumento valido per la formazione dell’atto o lo sviluppo della fase processuale, l’impiego di particolari strumenti informatici – di hardware e di software (vale a dire, secondo una definizione non tecnica, ma linguistica, di quei componenti rispettivamente strutturali o fissi e modificabili di un sistema o di un apparecchio e, più specificamente in informatica, l’insieme delle macchine che sostengono e dei programmi che possono essere impiegati su un sistema di elaborazione dei dati) tanto per la formazione che per la notificazione dell’atto;

senza alcuna pretesa di completezza, viene qui in rilievo, ad ogni buon conto, soltanto la notificazione di un atto del processo (tale, per quanto detto in premessa, essendo stato qualificato il precetto) formato fin dall’inizio in forma di documento informatico: ed a tale particolare profilo sarà beninteso limitata la disamina dello sterminato corpus normativo già stratificatosi in materia;

ad oggi (ma con disposizioni di contenuto sostanzialmente analogo a quelle previgenti ed applicabili ai precetti resi oggetto delle opposizioni per cui è causa), il formato dell’atto del processo in forma di documento informatico è regolato, in via di sostanziale delegificazione, dall’art. 12 del Provvedimento 28/12/2015 del Direttore Generale per i sistemi informativi automatizzati (DGSIA) del Ministero della Giustizia in forza dell’art. 11 del decreto del Ministro della giustizia del 21/02/2011, n. 44, recante il “Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24″ e successive modificazioni”;

ai sensi del capoverso di tale disposizione, per quel che qui può rilevare, è stabilito poi che “La struttura del documento firmato è PAdES-BES (o PAdES Part 3) o CAdES-BES; il certificato di firma è inserito nella busta crittografica;… nel caso del formato CAdES il file generato si presenta con un’unica estensione p7m”, mentre le definizioni degli acronimi PAdES e CAdES si rinvengono alle lett. z) ed y) del precedente art. 2 del detto provvedimento DGSIA: potendo, se non altro a fini meramente descrittivi ed accettando il rischio di banalizzazioni od imprecisioni tecniche, concludersi che risulta quindi indispensabile l’estensione (o formato) “p7m”, a garanzia dell’autenticità del file e cioè dell’apposizione della firma digitale al file in cui il documento informatico originale è stato formato, solo per il secondo caso, in cui cioè il documento informatico originale è creato in formato diverso da quello “pdf”;

completano il quadro normativo di riferimento l’art. 13, lett. a) e art. 19bis del già richiamato provvedimento del DGSIA: ai sensi dell’uno, la notifica insieme all’atto del processo in forma di documento informatico di un allegato è consentita se questo è in formato “.pdf” – ai sensi della lett. a) dell’art. 13 del richiamato provvedimento DGSIA – ma, se il secondo è firmato digitalmente, dovrebbe quest’ultimo appunto recare l’estensione – in virtù del già detto cpv. dell’art. 12 – “p7m”, a garanzia della sua autenticità; ai sensi dell’altro, in caso di notificazioni eseguite in via diretta dall’avvocato, “qualora il documento informatico, di cui ai commi precedenti, sia sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata, si applica quanto previsto all’art. 12, comma 2”;

in via descrittiva e sempre accettandosi il rischio di imprecisioni o banalizzazioni, invero, parrebbe potersi dire che con l’imposizione dell’elaborazione del file in documento informatico con estensione “p7m” il normatore tecnico abbia inteso offrire la massima garanzia possibile, allo stato, di conformità del documento, non creato ab origine in formato informatico ma articolato anche su di una parte o componente istituzionalmente non informatica, quale la procura a firma analogica su supporto tradizionale, al suo originale composito, incorporando appunto i due documenti in modo inscindibile e, per quel che rileva ai fini processuali e soprattutto se non altro con riferimento alla presente fattispecie – della regolare costituzione nel giudizio di legittimità (per la quale è da sempre stata considerata quale presupposto indispensabile la ritualità della procura speciale), con assicurazione di genuinità ed autenticità di entrambi in quanto costituenti un unicum;

in tale complessivo contesto, l’autorizzazione all’impiego della notifica col mezzo telematico, purchè soddisfi e rispetti tali requisiti tecnici, implica intuitivamente (ma di necessità) l’onere che il suo destinatario – in questa sede, per quanto detto in premessa, non essendo discusso ulteriormente dell’utile applicabilità della disciplina per la qualità rispettiva dei soggetti coinvolti dal precetto e per la natura di questo, questione agitata davanti al giudice del merito, ma non qui espressamente riproposta – si doti degli strumenti minimali per leggere una notifica che quei requisiti rispetti: altrimenti pervenendosi alla bizantina o assurda conclusione che sarebbe lecito per il notificante eseguire un’attività completamente inutile o la cui funzionalità od utilità sarebbero rimesse alla mera condiscendenza o buona volontà o discrezionalità del destinatario, ciò che contraddice ogni principio processuale, prima che lo stesso buon senso;

nè può dirsi che, nell’attuale contesto di diffusione degli strumenti informatici ed in ogni caso delle telecomunicazioni con tali mezzi, quello che consenta di leggere correntemente il formato di un atto notificato nel rispetto di quelle regole, corrispondenti a standard tecnici minimi ed adeguatamente diffusi e pubblicizzati, comporti, per un professionista legale quale ordinario ovvero normale destinatario di quelle regole, un onere eccezionale od eccessivamente gravoso: integrando piuttosto la dotazione di quegli strumenti un necessario complemento dello strumentario corrente della sua attività quotidiana e, quindi, un adminiculum ormai insostituibile per l’esercizio corrente della sua professione, attesa l’immanente e permanente quotidiana possibilità dell’impiego, da parte sua o nei suoi confronti, degli strumenti tecnici consistenti nella notifica col mezzo telematico di atti, soprattutto processuali; e salva beninteso l’allegazione e la prova, da valutarsi con il necessario rigore, del caso fortuito, come in ipotesi di malfunzionamenti del tutto incolpevoli ed imprevedibili, comunque non imputabili, nemmeno con la diligenza professionale legittimamente esigibile, al professionista coinvolto;

in tal modo, va esclusa qualsiasi contrarietà con gli artt. 3 e 24 Cost., poichè la normativa sulle notifiche telematiche, interpretata con l’imposizione, implicita siccome indispensabilmente funzionale all’operatività stessa della modalità di nuova introduzione, di un onere per il destinatario di dotarsi degli strumenti necessari per leggere o decodificare i messaggi di posta elettronica coi quali la notifica è eseguita in conformità con le specifiche tecniche poste dalla stessa normativa, costituisce la mera evoluzione della disciplina delle notificazioni tradizionali ed il suo adeguamento al mutato contesto tecnologico ed alle relative esigenze legate al contesto di operatività del professionista legale;

e, nella fattispecie, integra un accertamento di fatto, pertanto non censurabile nella presente sede e del resto in quanto tale neppure idoneamente censurato, che la notifica da parte dell’intimante abbia avuto luogo in corretta applicazione della normativa anche secondaria in tema di notifica a mezzo posta elettronica certificata da parte di avvocato, poi non essendo più contestata la legittimità dell’applicazione del medesimo alla notifica di un atto di precetto da un avvocato (siccome distrattario di spese di lite) ad un altro avvocato: con la conseguente manifesta infondatezza del primo motivo;

quanto al secondo motivo, è di lampante evidenza che non può integrare violazione dei doveri di lealtà e probità una condotta che si è mantenuta nel pieno rispetto della normativa, anche solo di rango regolamentare, in tema di notificazione telematica degli atti del processo, quando ad essa è poi corrisposto il mancato assolvimento di un preciso onere di autodotazione di strumenti di decodifica o lettura idonei a mettere in grado il professionista di interagire con il sistema di notifiche telematiche di atti processuali nativi informatici reso legittimo dalla normativa primaria e da quella secondaria ad essa complementare e da essa espressamente a tanto abilitata: tale pieno rispetto essendo stato accertato dal giudice del merito e non essendo stato oggetto di valida impugnazione neppure in questa sede; mentre non sussiste giammai un diritto del soccombente totale – quale deve, nella specie, definirsi il P. – alla compensazione, che resta sempre, perfino nel caso di novità della domanda, rimessa alla valutazione discrezionale del giudicante (per tutte: Cass. ord. 31/03/2017, n. 8421; Cass. 19/06/2013, n. 15317; Cass. 03/07/2000, n. 8889);

il ricorso va pertanto rigettato, con condanna del soccombente ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, pure dandosi atto mancando la possibilità di valutazioni discrezionali (Cass. 14/03/2014, n. 5955) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione.

PQM

 

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 900,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2017

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