Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22721 del 06/11/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 22721 Anno 2015
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: DORONZO ADRIANA

SENTENZA
sul ricorso 28622-2010 proposto da:
GALLO ALCIDE C.F. GLLLCD55E25I435U, domiciliato in
ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall’avvocato FRANCESCO PALADIN, giusta delega in
atti;

– ricorrente –

2015

contro

3483

tr.

REGIONE AUTONOMA FRIULI VENEZIA GIULIA C.F.

80014930327, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

Data pubblicazione: 06/11/2015

COLONNA 355, presso l’ UFFICIO DI RAPPRESENTANZA DELLA
REGIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ETTORE
VOLPE, giusta delega in atti;
– ERDISU – ENTE REGIONALE PER IL DIRITTO E LE
OPPORTUNITA’ ALLO STUDIO UNIVERSITARIO DI TRIESTE, in

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TEULADA 52,
presso lo studio dell’avvocato ANGELO SCARPA, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO
CONSOLI, giusta delega in atti;
– controricorrenti nonchè contro
VACCHER GIUSEPPE;
– intimato

avverso la sentenza n. 36/2010 della CORTE D’APPELLO
di TRIESTE, depositata il 13/08/2010 r.g.n. 93/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 16/09/2015 dal Consigliere Dott. ADRIANA
DORONZO;
udito l’Avvocato VOLPE ETTORE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per
U rigetto e preliminarmente rigetto dell’istanza
presentata di riunione ad altri ricorsi.

persona del legale rappresentante pro tempore,

Udienza del 16 settembre 2015
Presidente Stile
Relatore Doronzo
R.G. N. 28622/2010
Gallo c/ ERDISU+2

1. Con sentenza depositata in data 13 agosto 2010 la Corte d’appello di
Trieste rigettava l’impugnazione proposta da Alcide Gallo contro la
sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato le domande
dell’appellante, aventi ad oggetto l’accertamento dell’illegittimità
dell’ordine di servizio n. 300 del 11/1/1999 adottato dall’Ente Regionale
per il diritto allo studio universitario (d’ora in poi ERDISU), di cui era
dipendente, nonché dell’illegittimità delle plurime sanzioni disciplinari
adottate nei suoi confronti dal datore di lavoro; l’accertamento di una
condotta di mobbing e di demansionamento posta in essere ai suoi danni e
la condanna dell’ERDISU, in solido con la Regione Friuli Venezia e con
Giuseppe Vaccher, già direttore dell’Ente, al risarcimento dei danni,
anche di natura morale ed esistenziale, al pagamento delle differenze
retributive derivanti dall’assegnazione di mansioni diverse da quelle di
portiere, dall’illegittimità delle sanzioni e dalla mancata percezione della
retribuzione relativa ad un rapporto di lavoro a tempo pieno.
2. La Corte riteneva, in sintesi, che le sanzioni disciplinari inferte al
ricorrente, riconducibili a tre diversi filoni (divergenze con gli studenti;
mancato rispetto dell’ordine di servizio n. 300 del 1999; tardiva
comunicazione di certificati medici e assenza alle visite fiscali) erano
state in parte oggetto di una procedura di arbitrato rituale, previsto
dall’art. 35 della legge regionale del Friuli Venezia n. 18 del 1996
(riconducibile, stante la sua fonte legale, all’art. 59 del d.lgs. n. 29/1993,
poi trasfuso nell’art. 55 del d.lgs. n. 165/2001), con la conseguenza che
era inammissibile una nuova valutazione della loro legittimità, in quanto
già esaminate e giudicate dal Collegio arbitrale di disciplina e non
essendo stata proposta impugnazione per i motivi e nelle forme previste
dagli artt. 828 e seguenti c.p.c.; che, anche a voler ritenere l’arbitrato
irrituale e la sua riconducibilità alla fattispecie di cui all’art. 59 bis del
d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nell’art. 56 del d.lgs. n. 165/2001, le
decisioni del collegio arbitrale avrebbero potuto essere oggetto di
impugnazione dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria solo per vizi della
volontà o per incapacità delle parti, vizi e incapacità mai dedotti in
giudizio; che l’ipotetica violazione da parte dell’ente di lavoro e quindi
nel collegio di disciplina delle disposizioni di cui all’art. 7 della legge n.
300/1970 e riguardanti la mancata affissione del codice disciplinare era
stata sollevata dal Gallo solo nel giudizio di appello ed era pertanto
inammissibile; che gli addebiti mossi al lavoratore, poi sanzionati, erano
stati previamente contestati. Per completezza di motivazione aggiungeva

Svolgimento del processo

Udienza del 16 settembre 2015
Presidente Stile
Relatore Doronzo
R.G. N. 28622/2010
• Gallo c/ ERDISU+2

che tutti i fatti contestati al lavoratore erano stati ampiamente dimostrati
anche in conseguenza della mancata loro contestazione da parte del
lavoratore, che si era solo limitato a fornire giustificazioni, infondate e
comunque insufficienti a scriminarne la condotta; che, in ordine alla
domanda di mobbing, l’ordine di servizio n. 300 del 1999, con il quale era
stato trasferito all’ufficio affari amministrativi e finanziari, con
l’attribuzione di compiti diversi da quelli di portiere precedentemente
svolti, costituiva espressione legittima dello ius variandi del datore di
lavoro; che pertanto non sussisteva mobbing né demansionamento ma
solo l’esigenza dell’ente di una razionale organizzazione del lavoro.
Conseguentemente escludeva la sussistenza di un danno risarcibile, anche
sotto il profilo del danno morale, danno all’immagine ed a perdita di
chance. Quanto alle domande di pagamento delle indennità connesse allo
svolgimento delle mansioni di portiere e delle differenze retributive
conseguenti al forzato svolgimento di prestazioni part-time, la Corte ha
escluso le prime in quanto strettamente collegate alle funzioni di portiere,
dalle quali egli era stato legittimamente allontanato, e le seconde per
mancanza di prova di un comportamento illecito dell’amministrazione,
considerate le reiterate richieste del Gallo di trasformare il rapporto da
tempo pieno a part-time e viceversa.
3. Contro la sentenza, il Gallo propone ricorso per cassazione sostenuto da
sette motivi, cui resistono con controricorso l’ERDISU e la Regione
autonoma Friuli Venezia Giulia. Giuseppe Vaccher non svolge attività
difensiva.
4. Motivi della decisione
In via preliminare deve darsi atto che, all’udienza di discussione il
difensore del ricorrente ha chiesto il rinvio della causa a nuovo ruolo
affinché fosse decisa unitamente ad altro giudizio, pendente dinanzi a
questa Corte, per ragioni di connessione. Il Collegio, su parere conforme
del Pubblico Ministero di udienza, non può aderire a tale richiesta in
mancanza di qualsiasi elemento di prova che confermi le affermazioni
della difesa.
Sempre in via preliminare, deve rilevarsi l’infondatezza dell’eccezione di
inammissibilità del ricorso sollevata dall’ERDISU, sul presupposto che
sarebbe decorso il termine previsto dall’art. 325 c.p.c. per l’impugnazione
della sentenza. La sentenza risulta infatti notificata in data 28/9/2010 ed il
termine di 60 giorni previsto dalla norma citata scadeva il 27/11/2010.
Trattasi tuttavia di un sabato, sicché il termine è venuto a scadenza il
giorno successivo non festivo, secondo quanto dispone l’art. 155 c.p.c.,
comma 5°, ovvero il 29/11/2010. Ne consegue che il ricorso per
cassazione, notificato il 29/11/2010, come risulta dalla data apposta
dall’ufficiale giudiziario in calce all’atto, deve ritenersi tempestivo.
1. Con il primo motivo di ricorso il Gallo denuncia la violazione e falsa
applicazione “di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi
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Presidente Stile
Relatore Doronzo
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nazionali di lavoro”, nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, con
riferimento agli artt. 1362-1371 c.c. Reputa che la sentenza avrebbe
dovuto precisare che tanto l’arbitrato rituale quanto quello irrituale hanno
natura privata e avrebbe dovuto specificare, per ogni procedimento, il
singolo titolo negoziale sottostante ogni lodo, qualificandolo come
arbitrato rituale o irrituale in applicazione delle norme codicistiche
sull’interpretazione dei contratti. Solo in esito a tale esame la sentenza
avrebbe dovuto individuare la natura degli arbitrati, la cui validità era
subordinata all’osservanza delle disposizioni inderogabili di legge o di
contratti o accordi collettivi.
/./. Il motivo è inammissibile. Nel ricorso per cassazione il vizio della
violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360, primo comma,
n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, primo comma, n.
4, cod. proc. civ., deve essere, a pena d’ inammissibilità, dedotto non solo
con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche
mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute
nella sentenza impugnata che si assumono in contrasto con le norme
regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita
dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da
prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte
soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al
proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata
violazione (cfr. ex plurimis, Cass., 26 giugno 2013, n. 16038). Inoltre,
seppure l’indicazione delle norme che si assumono violate non si pone
come requisito autonomo ed imprescindibile, occorre comunque tener
presente che si tratta di elemento richiesto allo scopo di chiarire il
contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti
dell’impugnazione. Ne consegue che la mancata indicazione delle
disposizioni di legge può comportare l’inammissibilità della singola
doglianza, qualora gli argomenti addotti non consentano di individuare le
norme e i principi di diritto di cui si denunci la violazione (Cass., 16
marzo 2012, n. 4233). Nella specie, il ricorrente — al di là di un generico
richiamo agli artt. da 1362 a 1371 c.c. – ha omesso di indicare le norme di
diritto o dei contratti collettivi (questi ultimi neppure indicati) che
sarebbero state erroneamente interpretate dalla corte territoriale e quali
specifici canoni interpretativi dei contratti sarebbero stati violati, né
indica quale delle affermazioni della Corte sarebbe in contrasto con le
norme violate. Sussiste poi un’ulteriore ragione di inammissibilità, dal
momento che i giudici dell’appello hanno rigettato le censure proposte
dal Gallo, sotto entrambi i profili connessi alla natura rituale o irrituale
degli arbitrati, con la conseguenza che sussiste un difetto di interesse del
ricorrente, in applicazione dei principi affermati da questa Corte secondo
cui, “qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di
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Relatore Doronzo
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ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla
sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse
ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto
difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente
fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero
comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla
cassazione della decisione stessa” (Cass., 14 febbraio 2012, n. 2108).
2. Con il secondo motivo il ricorrente reitera la denuncia di violazione e
falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi
nazionali di lavoro, nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Assume
che la sentenza non ha dato applicazione all’art. 1 della legge regionale
Friuli Venezia Giulia 31 agosto 1981, n. 53, che richiama per il personale
regionale la normativa vigente per gli impiegati civili dello Stato. In forza
di tale rinvio, l’ente avrebbe dovuto applicare l’art. 104 del d.p.r. n.
3/1957, il quale prevede che la comunicazione dell’atto di contestazione
di addebito sia effettuata a mani dell’impiegato, con contestuale rilascio
da parte di quest’ultimo di attestazione di ricevimento di copia della stessa
o, in caso di impossibilità di effettuare la comunicazione in tale modo, a
mezzo raccomandata con avviso di ricevimento.
2.1. Anche questo motivo è infondato, oltre a presentare profili di
inammissibilità nella parte in cui il ricorrente non trascrive né deposita
unitamente al ricorso (né infine offre precise indicazioni circa la loro
attuale collocazione) gli atti di contestazione dell’addebito e le relative
comunicazioni, al fine di verificare la veridicità delle sue asserzioni. Con
ciò la parte non rispetta il duplice onere imposto, a pena di
inammissibilità del ricorso, dall’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., e, a
pena di improcedibilità, dall’art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. di
indicare esattamente nell’atto introduttivo in quale fase processuale ed in
quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di
evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti
termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la
fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli
d’ufficio o di parte (v. da ultimo, Cass., 12 dicembre 2014, n. 26174;
Cass., 7 febbraio 2011, n. 2966). L’infondatezza sta invece nel fatto che
la legge regionale del 1981, e quindi anche il richiamo in essa contenuto
al d.p.r. n. 3/1957, è stata superata dalla legge 27 marzo 1996, n. 18, di
riforma dell’impiego regionale in attuazione dei principi fondamentali di
riforma economico sociale desumibili dalla legge 23 ottobre 1992, n.
421. La legge regionale n. 18/1996, nel regolamentare il procedimento
disciplinare dei dipendenti della regione, rinvia all’art. 7 della legge n.
300/1070 (salvo quanto stabilito dagli artt. 34 e 35), e tali norme non
prevedono particolari requisiti di forma della comunicazione degli
addebiti. Non sussiste neppure il denunciato vizio motivazionale, giacché
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la Corte ha ampiamente motivato in proposito, osservando in punto di
fatto che l’appellante non ha mai contestato l’avvenuta notificazione
degli atti contenenti la contestazione degli addebiti, che tale modalità di
comunicazione era stata imposta dalla condotta dello stesso ricorrente,
che più volte aveva rifiutato di ricevere la consegna degli atti che lo
riguardavano, e che, infine, la notifica mezzo di ufficiale giudiziario offre
maggiori garanzie di conoscenza dell’atto rispetto ad una raccomandata.
Con
il terzo motivo il ricorrente si duole sempre della violazione e falsa
3.
applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali
di lavoro, nonché dell’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Assume che la
sentenza ha ritenuto idonee a dimostrare l’illecito disciplinare le
dichiarazioni di terzi, non confermate in sede giudiziaria, così violando il
disposto degli artt. 2697 e 2702 c.c.
3.1. Il motivo è inconferente. La Corte infatti ha ritenuto gli illeciti
disciplinari provati in quanto non contestati “sul piano materiale” (pag. 27
e 28 della sentenza) dal ricorrente, che si era limitato ad addurre
giustificazioni alle sue condotte, asserendo che esse erano state imposte
dal rigoroso rispetto del regolamento dell’ente. Il ricorrente non specifica
in quali termini e in quale atto difensivo ha contestato la sussistenza dei
fatti, così ancora una volta non assolvendo gli oneri di autosufficienza
imposti per il ricorso per cassazione (Cass., 28 giugno 2012, n. 10853). La
Corte ha poi escluso la valenza esimente delle giustificazioni addotte dal
lavoratore con un giudizio di fatto completo e congruo, in cui ha
sottolineato che gli insulti rivolti agli studenti o l’impedimento degli stessi
all’accesso alle loro stanze erano comportamenti arbitrari, in contrasto con
i “valori democratici” richiamati nel regolamento del servizio di portierato;
che l’aver ostacolato l’uso di alcuni locali (in particolare quelli posti nella
casa E) costituiva violazione degli ordini ricevuti; che le norme previste
dalla legge regionale n. 53 del 1981, art. 93, imponevano che il certificato
medico attestante la malattia dovesse pervenire all’amministrazione (e non
semplicemente essere inviato) entro il terzo giorno di assenza; che in ogni
caso vi era stata almeno una circostanza in cui il certificato era stato
inviato oltre il terzo giorno; che, in ordine alle disposte visite fiscali, la
condotta del lavoratore era stata tale da rendere difficile e in alcuni casi
impossibile il controllo, dal momento che lo spostamento del suo
domicilio da Trieste a San Vendemiano non era stato comunicato per
tempo, sì da impedire all’amministrazione di svolgere i doverosi controlli.
Ha pertanto ritenuto legittime le sanzioni applicate, in ragione anche della
loro congruità rispetto all’obiettiva gravità dei fatti. Sotto tale profilo non
sussiste neppure il denunciato vizio motivazionale.
4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione
di norme di diritto (artt. 30-32 della legge Friuli Venezia Giulia n.18 del 27
marzo 1996, art. 2106 c.c.), nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria
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motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Si duole
che la Corte ha omesso di verificare la sussistenza, in ordine ai singoli
procedimenti, del presupposto dell’immediatezza, essendo intercorso un
notevole iato temporale tra la data di commissione del presunto illecito,
quella della contestazione e, quindi, della comminazione della singola
sanzione.
4.1. Il motivo è inammissibile. La Corte territoriale non si è occupata di tale
profilo di regolarità del procedimento disciplinare, essendosi invece
occupata del diverso profilo costituito dal ritardo con cui il lavoratore ha
conosciuto gli addebiti, sul quale ha ampiamente motivato, sostenendo che il
ritardo nella conoscenza degli addebiti è dipeso dal rifiuto del lavoratore di
ricevere personalmente gli atti – cosa che aveva costretto l’amministrazione
a inviarli a mezzo di ufficiale giudiziario o messo comunale – oppure dalla
sua volontaria inerzia nell’andare a ritirarli nel luogo in cui erano depositati.
Era dunque onere del ricorrente, in applicazione del principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione indicare quando ed in che termini
la questione, come prospettata nel mezzo in esame, sarebbe stata introdotta
nel giudizio, le ragioni del suo rigetto da parte del giudice di primo grado,
nonché i termini della sua riproposizione come motivo di gravame. Tale
onere non è stato assolto con la conseguente inammissibilità del motivo di
ricorso.
4.2. Né si tratta di questione rilevabile d’ufficio, come pure opina la
ricorrente, essendo invece rimessa alla disponibilità della parte allorché
deduca la mancanza di immediatezza quale vizio procedimentale lesivo del
diritto di difesa garantito dall’art. 7 legge n. 300 del 1970. In tal caso,
occorre che la parte, pur senza necessità di ricorrere a formule rituali,
manifesti con chiarezza la volontà di denunciare il suddetto vizio
procedimentale (Cass., 27 gennaio 2009, n. 1890; Cass., 6 settembre 2006,
n. 19159; Cass., 12 novembre 2003, n. 17058).
4.3. Il motivo è altresì infondato con riguardo all’omessa valutazione, da
parte del giudice appello, della congruità-proporzionalità delle sanzioni
irrogate, anche alla luce della asserita disparità di trattamento creata per i
dipendenti regionali dall’art. 32, comma l°, legge regionale Friuli Venezia
Giulia n.18/1996, che fissa in sei mesi la durata massima del singolo
periodo di sospensione disciplinare, laddove l’art. 7, comma 5 0 , legge n.
300 del 1970 fissa in dieci giorni la durata massima del singolo
provvedimento di sospensione. La questione, posta in questi termini, non è
stata affrontata dalla Corte territoriale. Era dunque onere del ricorrente
specificare in che termini ed in quale atto difensivo verbale di causa essa è
stata proposta nelle precedenti fasi di merito, e indicare — anche ai fini di
evidenziare la decisività della questione – a quale delle numerose violazioni
è stata applicata la sospensione dal servizio per un periodo superiore ai
dieci giorni: tale onere di autosufficienza appare ancor più cogente ove si
consideri che, per molte delle violazioni contestate, sono intervenute le
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decisioni del collegio di disciplina, con la conseguente inammissibilità di
ogni ulteriore valutazione sulla congruità alle sanzioni irrogate per le
ragioni già esposte nell’esame del primo motivo di ricorso.
Dall’inammissibilità del motivo discende l’evidente difetto di rilevanza
della questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 della legge n.
18/1996 prospettato dal ricorrente con riferimento all’art. 3 della
Costituzione.
5. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa
applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali
di lavoro, nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione
circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, con riferimento agli artt.
2103 c.c., 57 d.lgs. n. 29/1993, 2697 c.c. e 421 c.p.c. Assume che la Corte
territoriale ha erroneamente ritenuto che gravasse su di lui l’onere di
provare l’illegittimità dello ius variandi esercitato dall’amministrazione
convenuta, e, nel contempo, ha omesso di valutare se nel comportamento
datoriale fossero ravvisabili gli estremi dell’inadempimento dell’obbligo di
assegnargli le mansioni. Al riguardo la Corte territoriale avrebbe dovuto
fare uso dei poteri ex art. 421 c.p.c. per accertare le mansioni effettivamente
assegnategli e verificarne la legittimità alla luce di quanto previsto dagli
artt. 2103 c.c. e 56 d.lgs. cit., e non invece applicare meccanicamente la
regola di giudizio dell’onere della prova.
6. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa
applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali
di lavoro, nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Lamenta che la Corte
non ha esaminato le eccezioni formulate nel ricorso ex art. 414 c.p.c. e
ribadite nel ricorso in appello, con le quali egli aveva lamentato la
privazione di ogni mansione, né aveva valutato le deposizioni testimoniali.
7. Con il settimo motivo il ricorrente censura la sentenza per la violazione e
falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi
nazionali di lavoro, nonché per l’omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Ritiene
che la sentenza non aveva considerato unitariamente tutti di elementi
istruttori emersi al fine di ritenere sussistente un comportamento di
mobbing ai suoi danni posto in essere dall’amministrazione convenuta.
8. Questi ultimi tre motivi, per il vincolo logico che li lega, vanno trattati
congiuntamente.
8.1. Essi sono inammissibili nella parte in cui, richiamando deposizioni
testimoniali che non sarebbero state esaminate o sarebbero state male
interpretate dal giudice di merito, non recano alcuna indicazione su dove
sarebbero attualmente collocati i verbali in cui esse sono state raccolte,
apparendo del tutto insufficiente il rinvio ai fascicoli di parte, o la richiesta
di trasmissione dei fascicoli di ufficio, rivolta al cancelliere del giudice a

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quo, senza che ne sia riportato l’indice con la precisa indicazione dei detti
verbali.
8.2. Nel merito le censure sono infondate. La Corte ha valutato le mansioni
assegnate al lavoratore con l’ordine di servizio n. 300 del 1999 (con il quale
era stato trasferito all’ufficio affari amministrativi e finanziari e gli erano
stati attribuiti compiti diversi da quelli di portiere precedentemente svolti), e
le ha ritenute comprese nel profilo professionale della qualifica di agente
tecnico ricoperta dal lavoratore; ha quindi affermato la legittimità dello ius
variandi, esercitato dal datore di lavoro con il detto ordine di servizio,
sottolineando correttamente che, in forza dell’ art. 52 del d.lgs. n. 165 del
2001, il principio di equivalenza delle mansioni deve essere condotto sul
piano esclusivamente formale, avendo come unico termine di paragone la
declaratoria della qualifica posseduta dal lavoratore nell’ambito del sistema
di classificazione previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva; ha
concluso che, nella specie, tale equivalenza era stata rispettata dal momento
che nella declaratoria delle mansioni dell’agente tecnico rientravano, oltre
alle mansioni di portiere, anche quelle di addetto all’uso della fotocopiatrice
e di altri macchinari, alla manutenzione degli stessi, ad operazioni
amministrativo-contabili conseguenti, come la consegna di fotocopie e
documentazione varia, al controllo dell’accesso degli studenti. Ha infine, e
conseguentemente, escluso sia il mobbing sia il demansionamento, c
collegando l’ordine di servizio unicamente all’esigenza dell’ente di una
razionale organizzazione del lavoro (in considerazione delle frequentissime
e improvvise assenze del lavoratore), e le numerose richieste di visite fiscali
ad una seria e fondata esigenza di controllo dell’esistenza delle malattie,
fuori da ogni intento persecutorio e vessatorio ai danni del lavoratore. Si è in
presenza di una tipica valutazione di fatto, in cui non sono riscontrabili
errori logici od omissioni, compiuta sulla base di precisi riferimenti alle
emergenze istruttorie, e non già in base ad una meccanica applicazione della
regola di giudizio sull’onere della prova, sicché non sussiste alcuna
violazione delle norme indicate nell’intestazione dei motivi all’esame.
Deve poi ricordarsi che la motivazione omessa o insufficiente è
configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come
risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di
elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando
sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza,
del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi
acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità
rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul
significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi,
altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle
valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una
nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del
giudizio di cassazione Cass. Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24148).
8

9. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere
condannato al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del
presente giudizio, in applicazione del principio della soccombenza. Non
deve invece adottarsi alcun provvedimento sulle spese nei confronti della
parte rimasta intimata
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
del presente giudizio, che liquida per ciascuno dei controricorrente in €
100,00 per esborsi e € 3.000,00 per compensi professionali, oltre oneri
accessori come per legge. Nulla sulle spese per la parte rimasta intimata.
Roma, 16 settembre 2015

Udienza del 16 settembre 2015
Presidente Stile
Relatore Doronzo
R.G. N. 28622/2010
Gallo c/ ERDISU+2

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