Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22720 del 11/08/2021

Cassazione civile sez. II, 11/08/2021, (ud. 07/10/2020, dep. 11/08/2021), n.22720

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22303-2019 proposto da:

H.E., domiciliato in ROMA, piazza Cavour n. 38, presso la

cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dell’Avv. Paolo Alessandrini del foro di Ascoli Piceno, che lo

rappresenta e difende con procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato

e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– resistente –

avverso il decreto n. 1494/2019 del Tribunale di L’Aquila, depositato

il 10/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

07/10/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.

 

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– con provvedimento notificato il 13.02.2018 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bari rigettava la domanda del ricorrente volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;

– avverso tale provvedimento interponeva opposizione H.E., che veniva respinta dal Tribunale di L’Aquila con decreto del 10.06.2010;

– la decisione impugnata evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, evidenziando, in primo luogo, che la narrazione, di avere abbandonato il proprio Paese nel 2013 (Bangladesh, regione di Dhaka) per avere contratto un ingente debito per far la dote alla sorella, senza però riuscire a restituire il denaro, non integrava i presupposti dello status di rifugiato, né quelli per ottenere la protezione sussidiaria ovvero la protezione umanitaria, trattandosi di una vicenda privata fondata esclusivamente su ragioni economiche; aggiungeva che nel Paese di origine il richiedente non rischiava la vita ma il “pignoramento” della casa; inoltre, nel portale del Ministero degli esteri era evidenziato fra le informazioni riguardanti il Bangladesh che non erano segnalati conflitti interi; concludeva nel senso di escludere anche la protezione umanitaria non avendo il richiedente svolto attività lavorativa in Italia;

– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione H.E. affidato a tre motivi;

– l’intimato Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva, depositando unicamente “atto di costituzione” al fine della partecipazione a eventuale udienza di discussione.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 l’omessa motivazione circa uno dei motivi di impugnazione e/o dei fatti decisivi per il giudizio oggetto di esame e di discussione tra le parti, in particolare di avere egli richiesto protezione in quanto proveniente dalla Libia.

La censura è inammissibile sotto molteplici profili.

Premesso che il motivo contiene una serie di considerazioni teoriche sul quadro normativo di riferimento, il ricorrente deduce un excursus sulle fonti attestanti la situazione di diffusa violenza e violazione dei diritti umani esistente in Libia, Paese di transito del ricorrente, senza tuttavia tener conto che in casi siffatti, ove si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, occorre comunque evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituendo altrimenti circostanza irrilevante ai fini della decisione, perché l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il Paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale Paese (Cass. n. 31676 del 2018).

Ora, appunto il ricorso non chiarisce quale sia appunto la connessione esistente tra il transito e il contenuto della domanda e perciò ne va confermata la non accoglibilità;

– con il secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione o la falsa applicazione dell’art. 4 della Direttiva 2011/95/UE, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 nonché l’art. 10 Direttiva 2013/32/UE, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27 oltre a carenza e/o apparenza della motivazione in merito allo speciale regime probatorio vigente in materia e agli ampi poteri/doveri di collaborazione posti a carico dell’Amministrazione, prima, e poi del giudice, laddove il Tribunale aveva omesso l’utilizzo di un qualsiasi accertamento nel verificare la situazione di pericolo e di emergenza dovuta alla violenza indiscriminata e ai conflitti esistenti in Bangladesh. La censura è fondata sulla base delle considerazioni di seguito riportate.

Di frequente, la giurisprudenza di questa Corte ha segnalato la forte peculiarità della ripartizione dell’onus probandi nei giudizi di protezione internazionale.

Secondo i più recenti svolgimenti dell’orientamento sviluppato da questa Corte a sezioni unite con la sentenza n. 27310 del 2008, il dovere di attivazione del giudice ha come presupposto che “il richiedente abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi della sua personale esposizione al rischio”.

All’assolvimento di tale onere della parte è in via diretta conseguente “il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, e in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante si verifichino fenomeni” tali da giustificare l’applicazione della protezione internazionale (in termini, Cass. 31 gennaio 2019 n. 3016).

Come ha rilevato, per altro verso, la pronuncia di Cass. 28 giugno 2018, n. 17069, “il giudice del merito ha la possibilità e dunque il dovere… di accertare d’ufficio, mediante le informazioni attingibili presso la Commissione nazionale per il diritto di asilo o da altre fonti, se e in quali limiti”, nei luoghi indicati dal ricorrente, “si registrino fenomeni di violenza indiscriminata” ci altri comunque destinata a comportare la normativa di applicazione della protezione internazionale.

Alla rilevazione della positiva sussistenza del dovere di approfondimento istruttorio, ai sensi del D.Lgs. n. 205 del 2005, art. 8 (il quale dispone, in materia di richieste di protezione internazionale, che “Ciascuna domanda (sia) esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa”), segue che non può ritenersi corretta e adeguata la decisione del giudice del merito che, nel respingere la richiesta di protezione, si limiti a fornire indicazioni generiche e approssimative sulla situazione del Paese interessato dalla domanda del richiedente. Che’ ciò equivale, come appare evidente, a negare la stessa sussistenza di un dovere di questo tipo (cfr. Cass. 28 giugno 2018 n. 17075).

Nel caso di specie il decreto del Tribunale ha utilizzato fonti di conoscenza non autorevoli per accertare le condizioni nel Paese di origine del richiedente e sussistente nel Bangladesh, né nella specifica zona del Bangladesh da cui proviene il ricorrente (la regione del Dhaka).

In tal modo, il provvedimento impugnato non si conforma, nella applicazione della norma, al principio di diritto già enunciato da questa Corte, secondo il quale in tema di protezione internazionale, il dovere di cooperazione istruttoria del giudice, che è disancorato dal principio dispositivo e libero da preclusioni e impedimenti processuali, se presuppone l’assolvimento da parte del richiedente dell’onere di allegazione dei fatti costitutivi della sua personale esposizione a rischio, comporta però ove tale onere sia stato assolto, il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, e in quali limiti, nel Paese di origine del richiedente si verifichino fenomeni tali da giustificare l’applicazione della misura, mediante l’assunzione di informazioni specifiche, attendibili e aggiornate, non risalenti rispetto al tempo della decisione, che il giudice deve riportare nel contesto della motivazione, non potendosi considerare fatti di comune e corrente conoscenza quelli che vengono via via ad accadere nei Paesi estranei alla Comunità Europea (vedi in questo senso, tra le altre, Cass. n. 11096 del 2019);

– con il terzo motivo il ricorrente denuncia” ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 4 Direttiva 2011/05/UL., D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, art. 2 Cost. in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 per non avere il Tribunale rinvenuto situazioni di particolare vulnerabilità ed omesso di verificare la sussistenza di un obbligo costituzionale o internazionale a fornire protezione in capo a persone che fuggono da Paesi, come in Bangladesh, in cui non vi sono strumenti di salvaguardia della incolumità per non avere considerato che il richiedente era stato vittima di usura. Ne’ era stata valutata la sua situazione di integrazione in Italia attraverso il lavoro, avendo egli prodotto le relative buste paga.

La censura è assorbita dall’accoglimento del secondo mezzo.

In conclusione, va accolto il secondo motivo, assorbito il terzo, respinto il primo, con cassazione del decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvio al Tribunale di L’Aquila, in diversa composizione, per un riesame della vicenda alla luce di quanto sopra affermato.

Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo, rigettato il primo; cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia al Tribunale di L’Aquila, in diversa composizione, anche per le spese di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile, il 7 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2021

 

 

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