Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22707 del 28/09/2017


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Cassazione civile, sez. II, 28/09/2017, (ud. 18/05/2017, dep.28/09/2017),  n. 22707

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21142/2013 proposto da:

D.F.R.P., (OMISSIS), P.A. (OMISSIS),

M.R.L. (OMISSIS), D.F.L. (OMISSIS), D.F.M.P.

(OMISSIS), D.F.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA ATERNO 9, presso lo studio dell’avvocato MICHELE

PELLICCIARI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

TOMMASO CALCULLI;

– ricorrenti –

contro

M.P., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CRISTOFORO COLOMBO 177, presso MILILLO, rappresentato e difeso dagli

avvocati CARMINE RUGGI e DONATO MOCCIOLA;

– ricorrente successivo –

e contro

L.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CIRO MENOTTI

1, presso lo studio dell’avvocato MARCO SAPONARA, rappresentato e

difeso dall’avvocato FRANCESCO PAOLO CHIRIANI;

F.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CIRO MENOTTI

1, presso lo studio dell’avvocato MARCO SAPONARA, rappresentata e

difesa dall’avvocato NICOLA ROCCO con procura non notarile;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 178/2013 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 22/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/05/2017 dal Consigliere Dott. ANTONINO SCALISI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

I coniugi L.M. e F.T. con atto di citazione del 13 maggio 1994 convenivano in giudizio, davanti al Tribunale di Matera, i sigg. D.F.P., L.M.R., P.A. e M.P. per sentire dichiarare che le fessurazioni comparse nell’edificio degli attori, sito in (OMISSIS) fossero imputabili a gravi difetti progettuali ed esecutivi taciuti dal collaudatore e di conseguenza condannare i convenuti a pagare in solido le somme necessarie per riparare le fessurazioni ed eliminarne le cause, oltre i danni da quantificarsi in corso di causa e dopo l’espletamento della CTU. A fondamento della propria domanda, gli attori deducevano di aver affidato all’impresa D.F.P. la costruzione di un alloggio unifamiliare sito in (OMISSIS) su progetto dell’arch. L.M.R. con direttore dei lavori P., che l’abitazione era stata realizzata su concessione edilizia; che in data 16 ottobre 1984, l’ing. M.P. aveva depositato collaudo statico del fabbricato, che nell’immobile nel maggio del 1990, in concomitanza di un evento tellurico, erano comparse molteplici e diffuse fessurazioni da imputarsi a gravi difetti progettuali ed esecutivi, che tali difetti erano stati portati a conoscenza del costruttore D.F. del direttore dei lavori P. e del progettista L.M..

Si costituivano in giudizio tutti i convenuti i quali eccepivano la prescrizione e/o la decadenza e, comunque, concludevano nel merito per il rigetto della domanda.

Il Tribunale di Matera, con sentenza n. 472 del 2006, dichiarava improponibile la domanda proposta dai coniugi L. e F., compensava le spese del giudizio.

Avverso questa sentenza, proponevano appello i coniugi L. e F. censurando l’erronea individuazione della decorrenza del termine di decadenza dell’azione, ex art. 1669 c.c., che era da individuare nel momento in cui gli attori avevano conseguito la consapevolezza della causa delle lesioni manifestatesi nell’immobile e coincidente con l’espletamento dell’incarico peritale conferito all’ing. C..

La Corte di Appello di Potenza, con sentenza n. 178 del 2013, accoglieva l’appello e condannava gli appellati in solido al risarcimento dei danni che liquidava in Euro 117.283,65 e al pagamento delle spese giudiziali. Secondo la Corte di Potenza, il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile prevista dall’art. 1669 c.c., a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegue un’apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti. Nel caso in esame, i committenti hanno conseguito la consapevolezza che il quadro fessurativo inizialmente manifestatosi in concomitanza dell’evento tellurico era etiologicamente riconducibile a vizi di esecuzione, a seguito dell’espletamento dell’incarico peritale, conclusosi con la relazione scritta del 23 maggio 1994, e gli attori hanno denunciato i predetti vizi con la raccomandata del 16 novembre 1993 evitando, dunque, la decadenza di cui si dice. Accertato poi che le numerose fessurazioni erano imputabili a vizi di progettazione e di esecuzione gli originari attori avevano diritto al risarcimento del danno.

La cassazione, di questa sentenza, è stata chiesta da M.R.L., D.F.L. D.F., R.R., D.F.M.P., D.F.M. (eredi di D.F.P. e P.A. con ricorso affidato a due motivi e con separata ricorso da M.P. per quattro motivi. I coniugi L. e F. hanno resistito con controricorso al ricorso proposto dai sigg. D.F., Messina.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

A.- Ricorso M.R.L., D.F.L., D.F., R.R., D.F.M.P., D.F.M. (eredi di D.F.P.) e P.A..

1.- Con il primo motivo di ricorso i sigg. M., D.F. e P. lamentano l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5. Sostengono i ricorrenti che la Corte distrettuale nel ritenere che i committenti avessero conseguito la consapevolezza che il quadro fessurativo era etiologicamente riconducibile a vizi di esecuzione dell’immobile solo a seguito di espletamento di apposito incarico peritale, non avrebbe tenuto conto di fatti decisivi e rilevanti dai quali era possibile desumere che i committenti avevano avuto conoscenza del quadro fessurativo in un tempo anteriore al 1993. In particolare la Corte distrettuale, secondo i ricorrenti, non avrebbe tenuto conto: a) che nel 1990 ((maggio 1990) il sig. L. presentava al Sindaco di Tricarico richiesta di sopralluogo per verificare i danni dovuto al movimento tellurico del 5 maggio 1990; b) che il Comune di Tricarico dopo l’espletamento del sopralluogo (interpellata la Regione Basilicata) in data 12 giugno 1990 riconosceva una notevole entità del danno derivante dal terremoto; c) della revoca da parte del sig. L. dell’istanza formulata al Comune di Tricarico (dell’8 maggio 1990) in contemporanea con la notifica degli atti di citazione (23 maggio 1994) per l’avvio del giudizio de quo posto che da tale revoca non poteva che essere rilevata una discrasia tra la data di revoca dell’istanza presentata al Comune di Tricarico e la data di denuncia del costruttore D.F. e del geom. P. avvenuta in data 16 novembre 1993. Ed ancora, la Corte distrettuale avrebbe omesso di esaminare altri fatti significativi e cioè: a) che il sig. L. convenivano dinanzi al Pretore di Tricarico il sig. T.F., elettricista per l’inesatta e incompleta esecuzione di opere elettrice eseguite sull’immobile, in forza di contratto del 26 maggio 1980, il che starebbe a significare che l’opera era stata ultimata già nel 1980 e non invece nel 1984: b) che dal certificato anagrafico i coniugi L. e F. risultavano abitare anagraficamente dal 9 aprile 1983. Il certificato non poteva, certamente, riferirsi al rustico e, dunque, stava a significare che l’immobile di cui si dice risultava realizzato anche prima del 1984; c) non avrebbe tenuto conto del certificato di abitabilità avventa in data 22 novembre 1985. Insomma, da questa documentazione emergerebbe, secondo i ricorrenti, che l’immobile in questione fosse stato ultimato e consegnato nel 1980 ed in pari data già abitato. Sicchè, la Corte distrettuale avrebbe dovuto ritenere maturata la prescrizione decennale di cui all’art. 1669 c.c..

1.1. – Il motivo è infondato sia perchè si risolve nella richiesta di una nuova e diversa valutazione dei dati processuali, non proponibile nel giudizio di legittimità se, come nel caso in esame, la valutazione effettuata dalla Corte distrettuale non presenta vizi logici e/o giuridici, ma, soprattutto, perchè non coglie l’effettiva ratio decidendi.

1.1.a) Va preliminarmente chiarito che il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento. Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa (Cass. 19150/2016). Epperò, nel caso in esame,questa decisività e questa specifica indicazione della decisività non appaiono sussistenti. I ricorrenti infatti fanno riferimento ad atti che sono per lo più generici o non indicano circostanze decisive, avendo i documenti o le circostanze indicate, essenzialmente, una natura induttiva-presuntiva.

1.1.b) Nel merito va osservato che l’art. 1669 c.c., comma 1, indica due dati temporali diversi: i gravi difetti (ovvero la rovina o il pericolo di rovina) devono manifestarsi entro dieci anni, la loro denuncia deve essere effettuata entro un anno dalla loro scoperta. Il primi dato temporale con tutta evidenza non può che rapportarsi ad un elemento oggettivo, ovvero l’evidenziazione fenomenica del grave difetto (o peggio della rovina o del pericolo di rovina); il secondo dato temporale, poichè da vita ad un termine di decadenza non può riguardare solo l’evidenziazione oggettiva del vizio, ma appunto, censurando una negligenza, un’inazione del danneggiato, si deve collegare anche alla consapevolezza che quel vizio sia da imputare all’opera e, pertanto, sia riconducibile alla cattiva esecuzione dei lavori da parte dell’appaltatore. In questo secondo caso scoperta significa consapevolezza del nesso di causalità tra l’opera ed i gravi difetti.

La conseguenza è che i vizi manifestatisi nel maggio del 1990 escludevano il decorso del decennio dal compimento dell’opera, pur se tale compimento si fa risalire al giugno del 1980. Tuttavia nel maggio del 1990 vi era consapevolezza dell’esistenza dei vizi, ma si pensava fossero riconducibili al terremoto non alla cattiva qualità dei lavori eseguiti dieci anni prima. La consapevolezza del nesso di casualità tar l’appalto ed i vizi si è avuto, appunto, solo dopo l’espletamento dell’incarico peritale commissionato al riguardo o meglio si è avuto nel corso dell’espletamento di tale incarico, concluso con relazione scritta asseverata il 23 maggio 19994, perchè la denuncia scritta del 16 novembre 1993 rivolta al costruttore D.F. e al geom. P. già dimostra questa consapevolezza, sorta per effetto di una comunicazione informale dell’esito delle indagini. Da ciò la tempestività di tale denuncia, addirittura anteriore al deposito della relazione scritta asseverata attestante il nesso causale tra appalto e vizi.

1.1.c) Come, correttamente, ha avuto modo di chiarire la Corte distrettuale, il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione dell’immobile previsto dall’art. 1669 c.c., a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore decorre dal giorno in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera non essendo sufficienti viceversa manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti e tale conoscenza deve ritenersi di regola acquisita in assenza di anteriori ed esaustivi elementi solo all’atto dell’acquisizione di relazioni peritali effettuate. Nel caso in esame specifica la Corte i committenti “(….) hanno conseguito consapevolezza che il quadro fessurativo inizialmente manifestatosi in concomitanza con l’evento tellurico del 5 maggio 1990 e successivamente aggravatosi era etiologicamente riconducibile a vizi di esecuzione dell’immobile solo a seguito dell’espletamento di apposito incarico peritale conferito dagli stessi attori all’ing. C. (…)”.

2.- Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione di norme di diritto in cui è incorsa la Corte di Appello di Potenza nella fattispecie de qua ed in particolare l’art. 116 c.p.c., in tema di valutazione di prove ex art. 360 c.p.c., n. 3.

I ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe viziata da errata valutazione del materiale probatorio e dunque da falsa applicazione della norma di cui all’art. 116 c.p.c.. Avrebbe errato la Corte distrettuale, secondo i ricorrenti, nell’aver conferito l’effetto di determinare il dies a quo della scoperta del vizio ai fini della decorrenza del termine annuale per la denuncia del vizio dal giorno della scoperta ex art. 1669 c.c., ad una comunicazione informale il cui apprezzamento inevitabilmente consegue ad un apprezzamento critico, non essendo la comunicazione informale precisata nelle forme e nella data. Tale comunicazione informale avrebbe sortito effetto legale a discapito di documentazione avente data certa oltre che prova scritta quale l’istanza presentata al Comune di Tricarico nel 1990.

E di più la Corte distrettuale avrebbe commesso un ulteriore errore per quanto attiene alla quantificazione dei danni risarcibili perchè avrebbe richiamato la relazione integrativa del 13 febbraio 2004 che, però, era stata posta nel nulla da parte del giudice di primo grado per assunta violazione del contraddittorio.

2.1.- Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

A) E’ infondato per quelle stesse ragioni di cui si è già detto esaminando il primo motivo del ricorso. Senza dire, in questa sede, che l’assunta violazione di legge si basa e presuppone una diversa valutazione e ricostruzione delle risultanze di causa (in particolare una diversa valutazione della comunicazione informale dell’ing. C.), censurabile – e solo entro certi limiti – sotto il profilo del vizio di motivazione secondo il paradigma previsto per la formulazione di detto motivo e nel rispetto della normativa di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, così come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. Va qui ribadito che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.); viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (in tal senso essenzialmente cfr. Cass. n. 16698 e 7394 del 2010).

B) Oltre che infondato il motivo in esame, è inammissibile per la parte in cui si denuncia l’utilizzazione di una relazione integrativa, a dire dai ricorrenti, posta nel nulla dal giudice di primo grado per assunta violazione del contraddittorio: a) per mancata autosufficienza, dato che i ricorrenti fondano la censura su un provvedimento del giudice di primo grado senza averne riportato il relativo contenuto e, non essendo sufficiente il semplice richiamo della sentenza n. 472 del 2006, e, comunque, b) per genericità perchè i ricorrenti non specificano se in mancanza della relazione integrativa la decisione sarebbe stata sicuramente diversa da quella assunta, posto che quella relazione non è stata assunta come prova dell’esistenza di un fatto ma quale criterio guida per la determinazione dei costi necessari per effettuare il risanamento statico conservativo dell’immobile di che trattasi, i cui lavori erano stati già indicati nella relazione peritale. c) Oltretutto, gli stessi ricorrenti dicono che la relazione sarebbe stata sostituita da altra bis depositata l’11 maggio 2005 e non affermano che al stessa conterrebbe conclusioni diverse in punto determinazione dei danni (anzi questo silenzio sul punto sembra piuttosto accreditare l’idea che si tratti di una mera conferma di quella precedente, del resto anche logicamente una relazione bis subito dopo la declaratoria di nullità di una prima CTU non sembra avere altro senso che una mera conferma della prima). I ricorrenti menzionano poi un’ulteriore relazione integrativa ter, depositata il 28 ottobre 2005, e anche in questo caso non indicano qualificazioni diverse dei danni contenute in detta relazione.

B.- Ricorso M..

3.- Con il primo motivo del ricorso M. lamenta violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per falsa applicazione dei criteri di responsabilità L. n. 1086 del 1971, ex art. 3, al collaudatore statico, per omessa ovvero contraddittoria motivazione in relazione all’art. 16669 c.c.. Il ricorrente ritiene che la Corte distrettuale erroneamente avrebbe ritenuto che lo stesso fosse responsabile in solido con l’impresa per le assunte inadempienze al contratto di appalto non tenendo conto che in tema di responsabilità per erronea carente o imperfetta esecuzione dell’opera edilizia oggetto di appalto obbligati a garantire la perfetta esecuzione, secondo progetto e tecnica edilizia, sarebbero l’impresa appaltatrice, il progettista ed il Direttore dei lavori. In particolare, secondo il ricorrente M., il collaudatore non sarebbe responsabile dell’inadempienza contrattuale attribuita all’impresa perchè mancherebbe il nesso di casualità tra l’opera professionale prestata dal M. e le inadempienze contrattuali ma anche perchè la figura del collaudatore si sensi della L. n. 1068 del 1971, art. 3, non rientrerebbe tra i soggetti obbligati a garantire il risultato dell’oggetto dell’appalto.

3.1.- Il motivo è infondato.

Va qui premesso che la responsabilità del collaudatore sussiste quando l’opera presenti difetti di costruzione, difformità di utilizzo di materiali e modalità di esecuzione non rilevati, e nel caso di falsa attestazione nei documenti contabili relativi alle opere eseguite a fronte delle prescrizioni progettuali e delle definizioni contrattuali.

Ora, nell’ipotesi in esame, la Corte distrettuale ha chiarito che l’ing. M. nella qualità di collaudatore era responsabile per i gravi difetti riscontrati nell’immobile dei committenti L. e F., per aver collaudato la struttura, di cui si dice, senza rilevare che la stessa aveva subito modifiche rispetto all’originario progetto strutturale, e lo avrebbe dovuto fare ai sensi della normativa di cui alla L. n. 1086 del 1971.

4.- Con il secondo motivo di ricorso M. lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per erronea valutazione dell’operato del collaudatore ing. Mi. ed omessa motivazione in relazione al disposto di cui alla L. n. 10867 del 1971, art. 7. Il ricorrente M. sostiene che risulterebbe illegittima la motivazione della Corte distrettuale laddove attribuisce all’ing. M. il mancato rilievo di una modesta modificazione delle strutture progettuali, mentre l’atto di collaudo statico era stato preceduto da apposita dichiarazione del direttore dei lavori della L. n. 1086 del 1971, ex art. 6, attestante l’esecuzione dell’opera secondo progetto. Per altro la contraddittoria valutazione in contrasto con i criteri di cui all’art. 116 c.p.c., del materiale probatorio complessivamente assunto in sede istruttoria costituisce motivo di illegittimità soprattutto per carenza e contraddittoria motivazione sia sul punto relativo all’incongruità causale dei danni da fessurazione con riferimento al mancato rilievo della modifica strutturale evidenziata dagli appellanti sia in rodine alla valutazione casuale delle lesioni ai muri di tompagno non addebitabili all’operato professionale del M.. In definitiva ritiene il M. la decisione impugnata sul punto del mancato rilievo della modificazione strutturale risulterebbe priva di congrua motivazione logicamente conseguenziale e coerente con il disposto dell’art. 116 c.p.c., non sussistendo nè l’evento della criticità statica dell’immobile in contrasto con il certificato di collaudo rilasciato dall’Ing. M. il 16 ottobre 1984 nè alcun dato critico che oggettivamente valutabile in quella sede di accertamento del 16 ottobre 1984.

4.1.- Il motivo è inammissibile.

Va qui evidenziato che il tenore delle censure, richiama, in vero, il testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella versione anteriore alla riforma introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. norma, nel caso, non più applicabile, trattandosi di sentenza depositata il 22 maggio 2013, quindi dopo l’entrata in vigore della precitata novella, la quale ha introdotto una disciplina più stringente, limitata la possibilità della denuncia dei vizi di motivazione che consentono l’intervento della Corte di Cassazione solo al caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Il cambiamento operato dalla novella è netto, dal momento che dal previgente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, viene eliminato non solo il riferimento alla “insufficienza” ed alla “contraddittorietà”, ma addirittura la stessa parola “motivazione”. Può quindi affermarsi che la nuova previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, legittima solo la censura per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, non essendo più consentita la formulazione di censure per il vizio di “insufficiente” o “contraddittorietà” della motivazione. Nè a diverso opinamento può pervenirsi nella considerazione che la censura per “omessa, insufficiente o contraddittorietà della motivazione”, potrebbe trovare ingresso, dando prevalenza all’aspetto sostanziale più che a quello letterale e formale del mezzo e quindi prescindendo dalla inidoneità della, formulazione, ostandovi l’evidente prospettiva della novella, introdotta dal Legislatore al fine di ridurre l’area del sindacato di legittimità sui “fatti”, escludendo in radice la deducibilità di vizi della logica argomentazione (illogicità o contraddittorietà), che non si traducano nella totale incomprensibilità dell’argomentare. In buona sostanza, ciò che rileva, in base alla nuova previsione, è solo l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, cioè la pretermissione di quei dati materiali, acquisiti e dibattuti nel processo, aventi portata idonea a determinare direttamente un diverso esito del giudizio.

5.- Con il terzo motivo M. lamenta la violazione dell’art. 360, n. 3, in relazione all’art. 64 c.p.c. e degli artt. 2947 e 2043 c.c., ai fini della prescrizione dell’azione nei confronti del collaudatore statico. Il ricorrente sostiene: a) che l’azione di risarcimento nei suoi confronti non sarebbe ammissibile per effetto del decorso del termine di cui all’art. 2947 c.c., in relazione all’art. 2043 c.c.. b) che sarebbe illegittima la determinazione del momento iniziale della prescrizione ex art. 1669 c.c., sussunta in sentenza sotto la data del Certificato del Direttore dei Lavori di ultimata costruzione del 13 ottobre 1984, non tenendo conto che risultava pacifico e non controverso che l’Impresa D.F. aveva consegnato l’opera agli attori sin dal 1981 così come emergerebbe dalla stipula del contratto Enel dal certificato di residenza da cui risulterebbe che gli originari attori avrebbe trasferito ufficialmente al loro residenza con effetto 9 aprile 1983. Ciò posto al momento dell’atto di citazione notificato a M. il 23 maggio 1994 il termine decennale di prescrizione dell’azione in questione ex art. 1669 c.c., era già maturato.

5.1. – Il motivo sotto entrambi i profili rimane assorbito dal ricorso proposto dai sigg. M.R.L., D.F.L., D.F., R.R., D.F.M.P., D.F.M. (eredi di D.F.P.) e P.A., già esaminato. In verità deve ritenersi che i termini di cui all’art. 1669 c.c., siano applicabili anche ai corresponsabili in solido, che, appunto, contribuiscono alai determinazione dell’evento dannoso nascente in prima battuta dalla cattiva esecuzione dei lavori da parte dell’appaltatore. Di qui l’insistenza della prescrizione (o decadenza) per quanto detto sopra. Per latro, il risultato non cambierebbe nemmeno qualora si valutasse autonomamente la responsabilità del collaudatore in punto di prescrizione. Invero, il collaudo eseguito dal M. risale al 16 ottobre 1984 e l’azione giudiziale contro di lui è stata proposta (come si legge nello stesso ricorso per cassazione) il 23 maggio 1994, dunque tempestivamente entro il termine di prescrizione decennale di cui all’art. 1946 c.c., che è la norma da applicare trattandosi di responsabilità (anche) contrattuale, in quanto derivante dall’incarico conferito di collaudatore.

6.- Con il quarto motivo di ricorso M. lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 2 e 5, in relazione all’azione riconvenzionale proposta dal M.. Secondo il ricorrente la Corte distrettuale avrebbe rigettata la propria domanda riconvenzionale diretta ad ottenere il pagamento della parcella del 4 giugno 1994 per Lire 7.251.588 rimasta senza riscontro, con motivazione carente contraddittoria ed assolutamente non conforme alle evidenze documentali e al comportamento degli attori. Infatti la Corte distrettuale avrebbe rigettato tale domanda per mancanza di prova non tenendo conto che la relativa richiesta non era stata contestata e stante l’acquiescenza del debitore non era necessaria alcuna prova.

6.1.- Il motivo è inammissibile per novità dell’eccezione. La sentenza impugnata riferisce di una domanda riconvenzionale proposta da M., avente ad oggetto la domanda di condanna degli appellanti principali al pagamento della somma di Euro 3.750,13 oltre accessori a titolo di compenso per la prestazione professionale avente ad oggetto l’incarico di redigere perizia giurata circa le condizioni di stabilità dell’immobile dei coniugi L. – F., mentre la domanda riconvenzionale cui si riferisce il ricorrente riguarderebbe il compenso per una prestazione professionale avente ad oggetto l’incarico di redigere un progetto di costruzione del muro di sostegno in via (OMISSIS) dell’abitato (OMISSIS).

Senza dire che secondo il disposto dell’art. 36 c.p.c., la domanda riconvenzionale nel giudizio civile non è proponibile in maniera incondizionata, ma deve essere instaurata nell’ambito di un processo già pendente (la causa principale), potendo dipendere solamente dal “titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione”. Pertanto, una domanda quale quella identificata dal M. con l’attuale ricorso non sarebbe stata proponibile perchè estranea al thema decidendum e dunque avrebbe potuto essere ritenuta tanquam non esset.

6.2.= Comunque, si tratta di un motivo privo dei requisiti di autosufficienza e di specificità posto che si base essenzialmente sul fatto che l’attività professionale fosse circostanza pacifica, ossia non contestata, senza però indicare e riportare i passaggi degli scritti difensivi di controparte che attesterebbero tale non contestazione.

In definitiva, vanno rigettati entrambi i ricorsi. I sigg. M.R.L., D.F.L., D.F. R.R., D.F.M.P., D.F.M. (eredi di D.F.P.) e P.A. vanno condannati in solido a rimborsare a parte controricorrente le spese del presente giudizio di cassazione che vengono liquidati con il dispositivo. Non occorre provvedere al regolamento delle spese in rodine al ricorso proposto da M.P. posto che gli intimati non hanno svolto alcuna attività difensiva. Il Collegio da atto che, ai sensi del D.P.R. n. 113 del 2002, art. 13, comma 1, sussistono i presupposti per il versamento da parte di entrambe le parti ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso, condanna i ricorrenti (diversi da M.) in solido a rimborsare parte controricorrente le spese del presente giudizio he liquida in Euro 5.800,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali pari al 15% del compenso ed accessori, come per legge, dà atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato da parte di entrambe le parti ricorrenti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 18 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2017

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