Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22659 del 08/11/2016

Cassazione civile sez. lav., 08/11/2016, (ud. 07/07/2016, dep. 08/11/2016), n.22659

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24928-2011 proposto da:

F.D., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

OPPIDO MAMERTINA 4, presso lo studio dell’avvocato GIANDOMENICO

NEGRETTI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIORGIO MARINO,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

BANCA CREDITO COOPERATIVO ROMA S.C.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio

dell’avvocato FRANCO RAIMONDO BOCCIA, che la rappresenta e difende

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7038/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/10/2010, R.G. N. 9474/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/07/2016 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato FRANCO RAIMONDO BOCCIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine

per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 12 ottobre 2010, confermava la pronuncia di primo grado che aveva respinto la domanda proposta da F.D. nei confronti della Banca di Credito Cooperativo di Roma società cooperativa per azioni, volta a conseguire l’annullamento delle dimissioni rassegnate, in sede di accordo transattivo, in data 11 settembre 2003.

La Corte distrettuale, a fondamento del decisum ed in estrema sintesi, rimarcava: a) l’inammissibilità, ex art. 345 c.p.c., di ogni questione attinente alla validità di una transazione intervenuta fra le parti il (OMISSIS), in quanto non tempestivamente spiegata in primo grado; b) l’insussistenza dei presupposti di annullabilità dell’atto per violenza morale, mancando il conseguimento di un ingiusto vantaggio per la parte datoriale, eccedente o diverso dal risultato che la legge mira ad assicurare, e l’indicazione del male minacciato, ovverosia del pericolo cui il dipendente sarebbe stato esposto ove non avesse rassegnato le proprie dimissioni; c) la carenza dei presupposti per la pretesa rescissione per lesione dell’accordo inter partes, non essendo ravvisabile l’iniquità delle condizioni poste a fondamento dello stesso.

La cassazione di tale decisione è domandata dal F. con tre motivi, resistiti con controricorso dalla società intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con i primi due motivi, il ricorrente denuncia violazione dell’art. 345 c.p.c.. Deduce l’erroneità degli approdi ai quali sono pervenuti i giudici dell’impugnazione, laddove hanno ritenuto non tempestivamente impugnato l’accordo sindacale in data 5/6-27/6/03. Argomenta che tale accordo era idoneo esclusivamente a definire i presupposti della domanda, ma non ad integrare l’oggetto della domanda stessa.

Corollario di tale premessa in diritto, era la insussistenza di alcun obbligo per esso ricorrente, di procedere alla impugnazione di un atto la cui allegazione costituiva un essenziale presupposto della domanda, giacchè proprio da tale documento scaturiva “la prova della necessità della banca di procedere alla eliminazione di lavoratori in esubero” mediante il ricorso “a licenziamenti o a dimissioni agevolate, per far quadrare i bilanci e consentire la incorporazione bancaria che poi si è verificata”.

I motivi, che possono congiuntamente trattarsi, siccome connessi, sono privi di pregio.

S’impone innanzitutto l’evidenza del difetto di specificità che connota le doglianze, non risultando riprodotto il tenore del ricorso introduttivo coessenziale alla verifica della congruità delle censure.

Il ricorso per cassazione – in ragione del principio di autosufficienza – deve infatti contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed altresì a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza necessità di far rinvio ed accedere a fonti estranee allo stesso ricorso e quindi ad elementi o ad atti attinenti al pregresso giudizio di merito (vedi ex plurimis, Cass. 6/11/2006 n.23673, Cass. 3/1/2014 n. 38).

Sarebbe stato onere del ricorrente riproporre il tenore del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, indicandone compiutamente il contenuto, per quanto di rilievo ai fini della doglianza sollevata, non essendo compito della Corte stessa quello di ricercarlo autonomamente. Non può, d’altro canto, sottacersi che i motivi presentano ulteriori profili di inammissibilità ove si considerino gli approdi ai quali è pervenuta questa Corte, secondo cui, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dalla disposizione di cui all’art. 366 c.p.c., è necessario indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (vedi Cass. 6/3/2012 n. 4220, Cass. 9/4/2013 n. 8569, cui adde Cass. 24/10/2014 n. 22607).

Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, un contratto o un accordo collettivo prodotto in giudizio, postula quindi, chè si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità.

Può quindi affermarsi che il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi, come nella specie, della erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo integralmente agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto dello stesso.

Nello specifico, la ricorrente non ha indicato in quale parte del fascicolo detto accordo sindacale sia rinvenibile, sicchè il motivo svolto non si sottrae ad un giudizio di improcedibilità alla stregua dei dettami sanciti dall’art. 369 c.p.c., comma 4.

Inoltre, fermo restando il rilevato difetto di autosufficienza del ricorso, va rimarcato che i motivi presentano comunque evidenti profili di novità che li rendono inammissibili nella presente sede. Infatti, dalla motivazione della pronuncia impugnata, emerge che la questione della non necessità di impugnativa dell’accordo era stata formulata dal lavoratore sotto il diverso profilo dell’inefficacia dell’accordo medesimo per la mancata realizzazione della condizione sospensiva ivi prevista, relativa alla “realizzazione di un processo di concentrazione della BBC con altro Istituto di Credito del Movimento Cooperativo”.

E tale deduzione – con argomentazione che non è stata oggetto di alcuna impugnazione da parte del F. – risultava specificamente confutata dalla Corte distrettuale in base al rilievo che detta fusione, come emerso ex actis, era comunque intervenuta.

In definitiva, sotto tutti i profili delineati, le censure all’esame si presentano inammissibili.

Con il terzo motivo si denunzia violazione dell’art. 2697 c.c.

Si deduce che in relazione ad una situazione di esubero del personale – conclamata alla stregua della produzione versata in atti – una corretta valutazione del quadro probatorio delineato, che tenesse conto altresì della copiosa documentazione attestante lo stato di malattia in cui versava la consorte e la obiettiva necessità di fruire di una più larga disponibilità economica onde provvedere alle cure necessarie, avrebbe dovuto condurre il giudice dell’impugnazione all’accertamento della sussistenza della violenza morale, requisito di annullabilità del negozio di dimissioni impugnato.

Il motivo si espone, in primis, ad un’ giudizio di inammissibilità giacchè, per il tramite di una censura di violazione di legge, tende a pervenire ad una rivisitazione del materiale istruttorio e dei convincimenti espressi dal giudice di merito in ordine alla interpretazione degli elementi di prova acquisiti in giudizio, non consentita nella presente sede di legittimità.

Va, infatti, considerato che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.

Nella specie ricorre proprio siffatta ultima ipotesi, in quanto la violazione di legge viene dedotta mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura attiene al vizio di motivazione, mirando a pervenire inammissibilmente, ad una rinnovata considerazione, nel merito, della valutazione dei fatti elaborata dai giudici del gravame che è inibita nella presente sede di legittimità (cfr. Cass. 16/7/2010 n.16698, Cass. 18/11/2011 n. 24253, Cass. 16/09/2013 n. 21099 cui adde, da ultimo, Cass. 11/1/2016 n. 195).

E, sempre sulla medesima linea interpretativa, rimarcato come la giurisprudenza di questa Corte sia costante nel ritenere che “la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e, quanto a quest’ultimo, che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito da tale ultima disposizione, “non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità”, con la conseguenza che “risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa” (v., fra le altre, Cass. 1/9/2011 n.17977, Cass. 16/11/2011 n.27197).

Del resto, come è noto, la ricostruzione della vicenda storica e la sua valutazione in fatto costituisce indagine che è monopolio del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità nei ristretti ambiti del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, pur anche nella formulazione anteriore alla novella di cui alla L. n. 134 del 2012.

Per consolidato orientamento di questa Corte la motivazione omessa, contraddittoria o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa. decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (v. Cass. SS.UU. 25/10/2013 n. 24148).

Invero la Corte di cassazione non ha il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllare, sul piano della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e la concludenza nonchè scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti in discussione, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra numerose altre, Cass. 4/4/2014 n. 8008, Cass. 7/11/2014 n. 23815).

Nello specifico il ricorrente si è limitato ad esporre un’interpretazione dei dati istruttori acquisiti a sè favorevole al solo fine di indurre il convincimento del giudice di legittimità che l’adeguata valutazione di tali fonti probatorie avrebbe giustificato l’accoglimento della domanda.

Lungi dal denunciare una totale obliterazione di fatti decisivi che potrebbero condurre ad una diversa soluzione della controversia ovvero una manifesta illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune od ancora un difetto di coerenza tra le ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi, ha criticato la pronuncia esclusivamente per aver trascurato alcuni dati documentali (dei quali neanche risulta la rituale produzione). In definitiva il F. ha inteso far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo patrocinato, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti.

Tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Deve infatti rilevarsi che, nello specifico, la Corte territoriale ha reso, nei termini riportati nello storico di lite, una motivazione perfettamente comprensibile e coerente con le risultanze processuali esaminate, rimarcando come da un canto, l’iniziativa delle dimissioni fosse stata assunta autonomamente dal lavoratore il quale era stato espressamente invitato dalla Banca a rimeditare sulla decisione, e come in ogni caso mancasse l’indicazione del male minacciato coessenziale alla configurabilità dell’ipotesi di violenza morale; dall’altro, che le dimissioni erano state rassegnate nell’ambito di un ulteriore accordo conciliativo nel cui contesto l’entità delle somme rapportate a quella del sacrificio imposto al ricorrente, inducevano a ritenere eque le condizioni dell’accordo concluso.

Si tratta di motivazione congrua e completa, equilibrata nelle sue componenti e conforme a diritto, perchè coerente con il principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui le dimissioni rassegnate dal lavoratore sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica ed il relativo accertamento da parte del giudice di merito si risolve in un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio (vedi sul punto, ex aliis, Cass. 20/7/2015 n.15161).

In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Il governo delle spese del presente giudizio di legittimità segue il principio della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2016

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