Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22656 del 31/10/2011

Cassazione civile sez. II, 31/10/2011, (ud. 21/09/2011, dep. 31/10/2011), n.22656

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. MATERA Lina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1982/2006 proposto da:

B.R. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIALE MAZZIMI 114/B, presso lo studio dell’avvocato RUCCI

Giuseppe, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

CATALANI CARLO;

– ricorrenti –

contro

D.U. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA VIGLIANA 32, presso lo studio dell’avvocate CISBANI FABIO,

rappresentato e difeso dall’avvocato DEL CORTO Stefano;

– controricorrenti –

e contro

C.E., C.S.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 486/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 03/03/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza dal

21/09/2011 dal. Consigliere Dott. LINA NATERA;

udito l’Avvocato PUCCI Giuseppe, difensore del ricorrente che ha

chiesto accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 31-12-1993 B.R., proprietario di due unità immobiliari a piano terra ed al primo piano di un edificio sito in (OMISSIS), conveniva dinanzi al Tribunale di Arezzo F.M., proprietaria di altra unità dello stesso stabile, chiedendo che venisse accertato che la convenuta non vantava alcun diritto su un servizio igienico sito al piano terra dell’edificio, che l’attore assumeva essere di sua esclusiva proprietà.

Nel costituirsi, la convenuta contestava la fondatezza della domanda e chiedeva in via riconvenzionale il riconoscimento del suo acquisto per usucapione della comproprietà del suddetto servizio igienico e la condanna dell’attore alla demolizione delle opere realizzate in un vano di proprietà comune, dove aveva ricavato altro servizio per suo uso.

L’attore, al fine di essere garantito rispetto alla domanda riconvenzionale, chiamava in causa i suoi danti causa C. E. e C.S., i quali si costituivano chiedendo il rigetto della domanda di risarcimento danni formulata nei loro confronti.

A seguito della morte della convenuta, si costituiva l’erede D.U..

Con sentenza del 16-11-2001 il Tribunale adito rigettava sia la domanda principale che la riconvenzionale e la chiamata in causa, compensando le spese tra i due litiganti principali e condannando l’attore alla rifusione delle spese sostenute dai terzi chiamati.

Avverso tale decisione proponevano appello principale il B. e appello incidentale il D..

Con sentenza depositata il 9-3-2005 la Corte di Appello di Firenze, in accoglimento dell’appello principale, dichiarava D.U., quale erede di F.M., comproprietario con B. R., in modo indiviso e per quote uguali, in conseguenza di usucapione, del locale adibito a bagno sito al piano terra dell’edificio in questione, in prosecuzione del vano d’ingresso del fabbricato; sempre in accoglimento della domanda riconvenzionale, condannava il B. a rimettere in pristino stato l’altro locale condominiale a piano terra dello stesso edificio, dal medesimo trasformato in bagno; rigettava la domanda proposta dall’attore nei confronti dei chiamati in causa; condannava l’attore alla rifusione delle spese sostenute dal D., dichiarando invece compensate le spese tra il B. e i chiamati in causa.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre il B., sulla base di tre motivi.

Il D. resiste con controricorso.

C.S. ed E. non hanno svolto alcuna attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo, articolato in tre censure, il ricorrente lamenta in primo luogo la violazione dell’art. 112 c.p.c.. Sostiene che la Corte di Appello è incorsa nel vizio di ultrapetizione, in quanto ha attribuito al convenuto un bene – la proprietà – di maggiore contenuto rispetto a quello – l’uso – richiesto sia nella comparsa di costituzione di primo grado che in quella di appello.

Aggiunge che il convenuto ha dedotto l’usucapione con un’eccezione riconvenzionale diretta soltanto a paralizzare la domanda, e quindi non poteva ottenere in appello il riconoscimento della titolarità del diritto di proprietà per avvenuta usucapione.

In secondo luogo, il B. si duole della violazione degli artt. 1140 e 1158 c.c., rilevando che la F., nel riconoscere nella lettera del 20-5-1993 di non avere usucapito la proprietà del bagno, ha evidenziato la carenza dell’animus possidendi o rem sibi habendi, che costituisce un requisito essenziale del possesso ai fini dell’acquisto per usucapione.

Il ricorrente, infine, denuncia la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c.. Deduce che il convenuto non ha assolto l’onere probatorio su esso gravante quale convenuto nell’azione negatoria, e che il giudice di appello ha dichiarato il D., quale erede della F., comproprietario per usucapione di tale bene, sulla base di presunzioni prive dei caratteri della gravità, precisione e concordanza.

La prima censura è infondata.

Lo stesso ricorrente, nell’illustrazione del motivo, da atto che parte convenuta, nella comparsa di costituzione di primo grado, ha concluso per il rigetto della domanda attrice, con dichiarazione dell’avvenuta usucapione “dell’uso e di ogni altro diritto reale” sul bagno per cui è causa.

Orbene, contrariamente a quanto dedotto dal B., non par dubbio che nella formula “ogni altro diritto reale” doveva ritenersi compreso anche il diritto di proprietà. La Corte di Appello, pertanto, nell’accertare e dichiarare l’avvenuto acquisto per usucapione, da parte del convenuto, della comproprietà indivisa del bene in questione, non è affatto incorsa nel vizio di ultrapetizione, avendo attribuito al resistente un diritto che rientrava nell’ambito delle istanze dal medesimo proposte.

Sotto altro profilo, si osserva che parte convenuta non si era limitata a dedurre in via di eccezione l’intervenuta usucapione, ma, secondo quanto affermato dallo stesso ricorrente, aveva chiesto la relativa declaratoria, così proponendo una vera e propria domanda riconvenzionale, sulla quale il giudice del gravame si è correttamente pronunciato.

Va rilevato, al riguardo, che la distinzione tra eccezione riconvenzionale e domanda riconvenzionale risiede nel fatto che la prima consiste in una prospettazione difensiva che, pur ampliando il tema della controversia, è finalizzata esclusivamente alla reiezione della domanda attrice, attraverso l’opposizione al diritto fatto valere dall’attore di un altro diritto idoneo a paralizzarlo, mentre la seconda consiste in una controdomanda, con la quale il convenuto chiede con effetto di giudicato l’accertamento di un diritto (tra le tante v. Cass. 24-9-2010 n. 20178; Cass. 15-4-2010 n. 9044; Cass. 23/2/2005 n. 3767; Cass. 4-11-2000 n. 14432). Nella specie, ricorre tale seconda ipotesi, in quanto il convenuto non si è limitato a chiedere il rigetto della domanda attrice, ma ha chiesto anche l’accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto di uso o del diverso diritto reale che venisse in concreto accertato.

La seconda doglianza è inammissibile, basandosi sul contenuto di una missiva di cui non è fatta menzione nella sentenza impugnata e la cui omessa valutazione da parte dei giudici di merito avrebbe dovuto eventualmente essere impugnata non già sotto il profilo della violazione di legge, ma mediante la deduzione del vizio di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia.

Come è noto, infatti, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. Sez. 1, 22-2-2007 n. 4178; Sez. L. 6-7-2010 n. 16698; Sez. L. 26/3/2010 n. 7394).

Anche la terza censura è priva di fondamento.

Giova rammentare che nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità; basta, cioè, che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza (Cass. Sez. Un. 13/11/1996 n. 9961; Sez. 1, 29-5-1998 n. 5333; Sez. 3, 6-6-2002 n. 8216; Sez. 3, 30-11-2005 n. 26081). A tale riguardo, l’apprezzamento del giudice di merito circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti di idoneità, gravità e concordanza richiesti dalla legge, non è sindacabile in sede di legittimità, purchè non risulti viziato da illogicità o da errori nei criteri giuridici. (Cass. Sez. 1, 19/1/1995 n. 564; Sez. 1, 26-3-1997 n. 2700; Sez. 2, 5-10-2001 n. 12296).

Nella specie la Corte di Appello, all’esito di un’esauriente disamina delle risultanze processuali, ha ragionevolmente ritenuto che la F., sin dal rogito di acquisto, risalente al 13-4-1964, si è servita indisturbatamente del servizio igienico posto nell’ingresso condominiale del fabbricato, ed ha esercitato su di esso un possesso ultraventennale, avendo accertato, in punto di fatto: che l’appartamento della convenuta era privo di un bagno di uso esclusivo; che il servizio igienico in questione è stato realizzato dalla stessa F. nel 1964, nello stato in cui attualmente esso si trova, esistendo in origine in loco solo una vecchia latrina, ormai in disuso; che il detto servizio igienico, la cui porta si chiude solo dall’interno, è indipendente dagli appartamenti delle parti, ed è accessibile solo dall’androne comune.

Non sussiste, pertanto, la violazione delle norme di legge indicate dal ricorrente, in quanto l’inferenza de fatto ignoto dagli elementi fattuali certi riportati nella sentenza impugnata è stata effettuata dalla Corte territoriale alla stregua dei canoni di probabilità e verosimiglianza.

Vero è, al contrario, che con la censura in esame il ricorrente, nel negare che il bagno in questione era stato realizzato dalla F. ed era l’unico servizio igienico disponibile per la convenuta, propone una diversa ricostruzione della vicenda, chiedendo una lettura alternativa delle risultanze processuali. In tal modo, peraltro, esso sollecita a questa Corte l’esercizio di poteri di cognizione che non le sono propri, non potendo il giudice di legittimità procedere ad un nuovo esame degli atti e ad una nuova valutazione delle prove raccolte, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva ai giudici di merito.

2) Con il secondo motivo il ricorrente si duole della contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, relativamente alla dichiarazione di comproprietà per usucapione in favore del D.. Sostiene che, avendo la Corte di Appello affermato che il bagno per cui si discute “diventa accessorio o pertinenza non già dell’appartamento, ma dell’ingresso, e quindi condominiale a sua volta”, l’acquisto della comproprietà da parte del convenuto non si sarebbe verificato a titolo originario, con l’usucapione, ma sarebbe derivato dai contratti di compravendita, che prevedevano anche le parti condominiali dell’immobile, tra le quali l’ingresso e, quindi, il bagno, che ne era accessorio o pertinenza.

Il motivo è inammissibile per difetto d’interesse.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, l’interesse all’impugnazione – inteso quale manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire e la cui assenza è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo – deve essere individuato in un interesse giuridicamente tutelabile, identificabile nella concreta utilità derivante dalla rimozione della pronuncia censurata, non essendo sufficiente l’esistenza di un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non suscettibile di produrre riflessi pratici sulla soluzione adottata (tra le tante v. Cass. Sez. Un., 19-5-2008 n. 12637; Sez. 5, 21-12-2007 n. 27006; Sez. L., 23-11-2007 n. 24434; Sez. 3, 14-6-2007 n. 1951). Nel caso in esame, è evidente che nessuna utilità concreta potrebbe derivare al ricorrente dall’accoglimento del motivo in esame, atteso che la tesi prospettata presuppone comunque l’affermazione del diritto di comproprietà del convenuto, sia pure a titolo derivativo e non originario.

3) Con il terzo motivo, sviluppato in due censure, il ricorrente lamenta in primo luogo F insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia e la violazione degli artt. 106 e 112 c.p.c.. Sostiene che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, la chiamata in garanzia dei C. non era basata solo sul contratto preliminare e sull’atto notarile, ma anche sui successivi “impegni verbali e scritti” e, quindi, anche sulla dichiarazione scritta del 26-3-1993, con la quale i chiamati si sono assunti la responsabilità di ogni garanzia sulla libertà dell’immobile da servitù ed altri oneri reali. Aggiunge che nè in primo nè in secondo grado i terzi chiamati hanno sollevato eccezioni in ordine al titolo su cui è basata la chiamata in causa e che, pertanto, la pronuncia del giudice di appello è incorsa anche nel vizio di ultrapetizione.

In secondo luogo, il B. deduce la sussistenza di ragioni di equità per la compensazione delle spese relative alla chiamata in causa.

La prima censura è infondata.

La Corte di Appello ha ritenuto che la chiamata in causa di C. E. e C.S., diretta ad ottenere il risarcimento danni per l’ipotesi di accoglimento della riconvenzionale di usucapione proposta dalla F., era basata sul contratto di compravendita immobiliare stipulato il 13-10-1992. Essa ha evidenziato, peraltro, che tale atto, a differenza del preliminare precedentemente stipulato dalle stesse parti, non conteneva alcuna menzione del bagno in questione; ed ha, conseguentemente, correttamente rigettato la domanda proposta nei confronti dei terzi chiamati, essendo ben evidente che questi ultimi, con il contratto di compravendita, non hanno assunto alcuna garanzia in relazione alla piena proprietà di un locale che non ha costituito oggetto di alienazione.

Le valutazioni espresse dai giudici di merito risultano sorrette da un’esaustiva motivazione, con la quale è stato rilevato, in particolare, che eventualmente, a carico dei venditori, potrebbe profilarsi un diverso titolo di responsabilità, nascente non dal contratto di vendita immobiliare, ma dalla successiva dichiarazione unilaterale, datata 26-3-1993, con la quale i C. autorizzavano il B. a proseguire i lavori di ristrutturazione dell’immobile, dicendo di assumersene la responsabilità. In concreto, tuttavia, la Corte di Appello, nel far presente che si tratterebbe, in tal caso, di un’assunzione di garanzia extracontrattuale, ha escluso che la chiamata in causa sia stata basata su tale diverso ed autonomo titolo, non assimilabile nè alla garanzia per evizione, nè alla garanzia per oneri prevista dall’art. 1489 c.c..

Non sussiste, pertanto, il denunciato vizio di motivazione, avendo la Corte di Appello dato sufficiente conto delle ragioni della sua decisione.

Lo stesso ricorrente, d’altro canto, nell’illustrare il motivo in esame, ha sostenuto di aver affermato, nell’atto di chiamata di terzi, che i C. “si sono assunti ia responsabilità di ogni garanzia sulla libertà dell’immobile da servitù ed altri oneri reali sia con i contratti, il preliminare e quello notarile, sia, con particolare riferimento al gabinetto, con impegni verbali e scritti, anche successivamente alla compravendita; il tutto, comunque, sempre con esplicito riferimento al contratto di compravendita”. In tal modo, il B. ha da un lato confermato di aver fatto valere nei confronti dei terzi una responsabilità di natura contrattuale, e di aver fatto solo un generico richiamo ad “impegni verbali e scritti”, senza invocare espressamente la dichiarazione resa dai C. il 26-3-1993; e dall’altro non ha contestato specificamente le argomentazioni svolte dalla Corte di merito, secondo cui la responsabilità dei venditori avrebbe potuto eventualmente basarsi esclusivamente su tale autonomo titolo di garanzia, di natura extracontrattuale. Sotto tale profilo, pertanto, il motivo in esame si palesa anche generico.

Nè ricorre la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c..

E invero, come è stato precisato dalla giurisprudenza, in materia di procedimento civile, sussiste vizio di “ultra” o “extra” petizione ex art. 112 c.p.c., quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. Tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con il principio “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Cass. Sez. L. 13-12-2010 n. 25140; Sez. 2, 31-3-2006 n. 7620).

Devono essere disattese, infine, anche le doglianze mosse dal ricorrente in ordine alla pronuncia di condanna alle spese in favore dei terzi chiamati, nei cui confronti il B. è rimasto soccombente.

Come è noto, infatti, in tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato della Corte di Cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa;

mentre esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del Giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite.

4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal D. nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.

Nei confronti dei C., che non hanno svolto alcuna attività difensiva, non vi è pronuncia sulle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.500,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2011

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