Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22654 del 08/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 08/11/2016, (ud. 16/06/2016, dep. 08/11/2016), n.22654

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21208-2015 proposto da:

C.G., C.F. (OMISSIS), rappresentato e difeso

dall’avvocato GAETANO PICCIOLO, domiciliato in ROMA PRESSO LA

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

PUBLIKOMPASS S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

CAPOSILE 10, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO PARBONI,

rappresentata e difesa dall’avvocato CARLO ORLANDI, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 128/2015 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 12/02/2015 R.G.N. 1196/14;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/06/2016 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito l’Avvocato GAETANO PICCIOLO;

udito l’Avvocato ANGELO CUGINI per delega Avvocato CARLO ORLANDI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Con sentenza del 12 febbraio 2015 la Corte di Appello di Messina, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto la domanda proposta da C.G. volta a far dichiarare l’illegittimità del licenziamento a questi intimato dalla Publikompass Spa in data (OMISSIS) per giustificato motivo oggettivo in relazione alla dedotta soppressione della posizione di responsabile amministrativo presso la filiale di (OMISSIS).

La Corte ha ritenuto “evidente, sulla scorta della documentazione presente in atti sin dal primo grado di giudizio, che sin dall’anno 2009 e ancor più consistentemente nell’anno 2010, si siano verificate perdite di esercizio che hanno comportato la messa in cassa integrazione di personale con conseguente evidente riorganizzazione aziendale a seguito della necessità di contenimento dei costi di esercizio”.

Secondo la Corte di Appello “erra, pertanto, il giudice di primo grado nel ritenere che detta perdita, poichè spalmata sull’intero territorio nazionale, non può porsi in rapporto di causalità diretta con il licenziamento del C. dal momento che, una volta dimostrato lo stato di crisi aziendale, le iniziative assunte dalla società al fine di contenere i costi di esercizio, in ipotesi consistenti anche in una mera distribuzione delle mansioni svolte dal personale in esubero, sfuggono al vaglio giudiziale, essendo rimesse alla discrezionalità dell’imprenditore, in virtù del principio costituzionale di cui all’art. 41”.

Per i giudici distrettuali la società aveva anche offerto adeguata dimostrazione dell’impossibilità di ricollocare il dipendente in altra sede lavorativa, affermando che “le analoghe posizioni lavorative distribuite sull’intero territorio nazionale erano, al tempo del licenziamento del C., coperte da altro personale”, circostanza questa “non contestata”.

2.- Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso C.G. affidandosi ad un unico motivo. Ha resistito con controricorso la società, illustrato da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3.- Con l’unico mezzo di gravame si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., sotto il profilo dell’illegittima ammissione di prove documentali, nonchè della L. n. 604 del 1966, art. 3 per insussistenza delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa e per omessa prova dell’impossibilità di repechage.

Ci si duole che la Corte di Appello abbia illegittimamente ammesso una produzione documentale, senza alcuna valutazione di indispensabilità ai fini della decisione, su vicende successive al licenziamento ed alla stessa sentenza di primo grado e come tali tacciate di inconferenza.

Richiamandosi “il ricorso di primo grado e la motivazione della sentenza di prime cure”, si deduce che “il punto è soltanto se alla data del licenziamento una perdita pari all’1% del fatturato annuo nazionale andava fronteggiata con la soppressione di una sola unità lavorativa e se detta soppressione costituisse vero motivo oggettivo, ovvero mascherasse un licenziamento individuale per giustificato motivo soggettivo, o più semplicemente per antipatia personale”.

Si criticano altresì le motivazioni della Corte messinese in punto di prova dell’impossibilità di repechage, ovvero circa l’impossibilità di utilizzare altrove il dipendente in mansioni compatibili con la qualifica rivestita ovvero anche inferiori.

4.- Il Collegio giudica il ricorso non meritevole di accoglimento.

Il motivo posto a suo fondamento presenta innanzitutto pregiudiziali profili di inammissibilità.

L’unico mezzo di impugnazione contiene la contemporanea deduzione di violazione di disposizioni di legge, sia sostanziale (L. n. 604 del 1966, art. 3, che processuale (art. 437 c.p.c.), nonchè di vizi di motivazione, senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 ovvero al n. 5 non consentendo una adeguata identificazione del devolutum.

Invero il ricorso per cassazione, in quanto ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione (da ultimo v. Cass. n. 9228 del 2016).

Il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n. 23675 del 2013), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass. n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n. 3941 del 2002).

L’osservanza del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (Cass. n. 19100 del 2006) ed è dunque inammissibile un motivo che non consenta di individuare in che modo le norme invocate sarebbero state violate nella sentenza impugnata, quali sarebbero i principi di diritto asseritamente trasgrediti nonchè i punti della motivazione specificamente viziati (Cass. n. 17178 del 2014 e giurisprudenza ivi richiamata).

In particolare, poi, ancora di recente questa Corte, a Sezioni Unite, al cospetto di un motivo che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., ha avuto modo di ribadire la propria giurisprudenza che stigmatizza tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf., da ultimo, Cass. n. 14317 del 2016).

Infatti tale modalità di formulazione risulta irrispettosa del canone della specificità del motivo di impugnazione nei casi in cui, nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v. Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008).

Inoltre il motivo risulta palesemente formulato in violazione del canone dell’autosufficienza laddove lamenta l’illegittima ammissione di prove documentali di cui non riporta il contenuto (tra le molte v. Cass. n. 18024 e 15847 del 2014).

La dedotta pretesa violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 non riesce, poi, a censurare adeguatamente la sentenza impugnata perchè, in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo consistente nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile al fine di ridurre i costi, il recesso può effettivamente risultare illegittimo ove il datore di lavoro non abbia improntato la scelta del soggetto o dei soggetti da licenziare ai principi di correttezza e buona fede ai sensi dell’art. 1175 c.c. (per tutte v. Cass. n. 7046 del 2011); tuttavia il motivo in esame non critica in alcun modo tale aspetto nè risulta che la questione dell’individuazione del licenziando mediante il rispetto dei criteri di correttezza e buona fede sia stata mai dedotta in controversia.

Infine sul repechage la stessa Corte distrettuale esplicitamente ritiene provata la circostanza che “le analoghe posizioni lavorative distribuite sull’intero territorio nazionale erano, al tempo del licenziamento del C., coperte da altro personale” sulla base dell’applicazione del principio di non contestazione (pag. 5 sentenza impugnata); come noto tale principio rende il fatto non contestato non bisognevole di prova ed anche tale aspetto non viene efficacemente censurato dal motivo scrutinato.

5.- Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Poichè il ricorso per cassazione risulta nella specie notificato in data 7 agosto 2015 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 3.100,00, di cui Euro 100 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2016

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