Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22642 del 19/10/2020

Cassazione civile sez. I, 19/10/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 19/10/2020), n.22642

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10909/2019 proposto da:

A.A.K., elettivamente domiciliato in Roma, presso la

CANCELLERIA civile della CORTE SUPREMA di CASSAZIONE e rappresentato

e difeso dagli avvocati Vincenzo Megna, e Vincenzo Zahora, in forza

di procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’Interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositato il 14/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/09/2020 da Dott. IOFRIDA GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Napoli, con decreto n. cronol. 2411/2019, depositato in data 14/3/2019, ha respinto la richiesta di A.A.K., cittadino del (OMISSIS), a seguito di diniego della competente Commissione Territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria e per ragioni umanitarie.

In particolare, il Tribunale, all’esito dell’udienza di comparizione delle parti (nella quale era comparso di persona anche il richiedente) ha osservato che la vicenda personale narrata dal medesimo (essere stato costretto a lasciare il Paese d’origine temendo di essere arrestato a causa di false denunce sporte nei suoi confronti dagli assassini del padre), pur credibile, non integrava i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato (non risultando neppure essere stata richiesta tutela alle Autorità dello Stato, che peraltro in passato erano intervenute, arrestando l’assassino del padre); quanto alla protezione sussidiaria, il Paese di provenienza del richiedente (il Bangladesh) non era interessato da conflitti armati interni (come riferito dai Report 2017 di EASO, Refworld.org, Human Rights); nè ricorrevano i presupposti per la chiesta protezione umanitaria, in difetto di profili di vulnerabilità personale, essendo il richiedente persona di età adulta e non affetta da stati patologici di rilievo, cosicchè, pur a fronte di un’integrazione sociale ed economica in Italia (conoscenza della lingua e svolgimento di attività lavorativa), difettava uno dei parametri necessari per la comparazione tra il contesto di vita nel Pese d’origine e quello raggiunto in Italia.

Avverso il suddetto decreto, A.B. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge difese).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, commi 1 e 2, lamentando la mancata corretta valutazione, ai fini della chiesta protezione umanitaria, della condizione di estrema vulnerabilità correlata alla situazione politico-sociale del Bangladesh; con il secondo motivo, si lamenta poi, sempre in relazione al diniego di protezione umanitaria, sia la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, commi 1 e 2, sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo, rappresentato dalla condizione di estrema povertà in cui versa la famiglia del ricorrente e dalla condizione di instabilità politica del Paese d’origine.

2. Le censure sono infondate.

2.1. Quanto alla prima doglianza, il Tribunale ha considerato le asserite condizioni di povertà del ricorrente, e quelle attinenti alla sua sicurezza, ed ha ritenuto che esse non giustificassero l’accoglimento della domanda spiegata. Invero, sulla base di fonti informative ufficiali, specificamente individuate, il Tribunale ha ritenuto che nel Paese d’origine non ricorresse una situazione di violenza generalizzata o di assoluta insicurezza dei civili. La censura tende a rimettere in discussione siffatto giudizio di merito che è invece insindacabile in questa sede di legittimità.

2.2. La seconda censura è infondata.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che tra i motivi per i quali è possibile accordare la protezione umanitaria non rientrano di per sè l’integrazione sociale e lavorativa in Italia (Cass. n. 25075/2017), nè il versare in condizioni di indigenza o con problemi di salute, “necessitando, invece, che tale condizione sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza, in conformità al disposto degli artt. 2, 3 e 4 della CEDU” (Cass. n. 28015/2017; Cass. n. 2664/12016).

In tale prospettiva, è stato ulteriormente chiarito che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicchè essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio: non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al cit. D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

In conclusione, la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede di per sè alcun rilievo, salvo emerga che essa ha determinato specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nelle recenti sentenze nn. 29459 e 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

Il Tribunale ha ritenuto che le generiche condizioni di povertà del soggetto, rapportate alla situazione di povertà del paese di provenienza, non rientrano nel numero delle circostanze che giustificano la protezione umanitaria, in assenza delle condizioni di vulnerabilità, nel caso di specie neppure specificamente allegate, contemplate dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19. Il decreto risulta del tutto in linea con i principi di diritto affermati da questa Corte.

3. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PQM

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2020

 

 

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