Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22641 del 08/11/2016


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Cassazione civile sez. III, 08/11/2016, (ud. 13/10/2016, dep. 08/11/2016), n.22641

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12519/2014 proposto da:

M.G., domiciliato ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato PIERO IPPOLITI MARTINI, giusta procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è rappresentato e difeso

per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1994/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 12/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/10/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza del 22 ottobre-12 novembre 2013 la Corte d’appello di Bologna ha rigettato l’appello proposto da M. avverso sentenza del 29 luglio 2010 con cui il Tribunale di Bologna aveva respinto la sua domanda di condanna del Ministero della Salute a risarcire i danni che avrebbe patito per avergli il farmaco (OMISSIS) – prodotto da FIDIA S.p.A. – causato la sindrome di Guillain-Barrè, responsabilità che, secondo l’attore, il Ministero avrebbe assunto non adempiendo ai suoi obblighi di vigilanza, per cui avrebbe dovuto togliere o sospendere dal mercato farmaceutico il suddetto medicinale.

2. Ha presentato ricorso M. sulla base di quattro motivi. Si difende con controricorso il Ministero della Salute.

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è infondato.

3.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 178 del 1991, art. 14, che, dopo avere al secondo comma indicati i presupposti per la revoca di un farmaco dal commercio – tra cui il suo risultare nocivo -, al quarto comma statuisce: “Qualora, nei casi previsti dal comma 2, sia opportuno acquisire ulteriori elementi sulle caratteristiche del medicinale, il Ministro della sanità può sospendere l’autorizzazione” alla immissione in commercio, sospensione che comporta “il divieto di vendita per tutto il tempo della sua durata”.

Nonostante tale norma non lasci “margini interpretativi discrezionali”, e nonostante altresì la produzione operata nei gradi di merito di una “copiosa documentazione” che avrebbe attestato la necessità ai sensi dell’appena citato art. 14, comma 4, della acquisizione di ulteriori informazioni e della conseguente sospensione del farmaco dal mercato, la corte territoriale lamenta appunto il ricorrente – ha aderito alla sentenza di primo grado, riproponendone i concetti esposti in motivazione, pur dovendo effettuare “una totale rivalutazione del materiale probatorio”, che invece “non ha riesaminato adeguatamente”. Il giudice d’appello ha sposato assunti contrari al citato art. 14, che non tengono conto di quel che risulta dalla “documentazione prodotta”, alla quale il motivo dedica ampia illustrazione (pagine 18-27 del ricorso), indicando anche i vari decreti ministeriali emessi in relazione al farmaco. Con D.M. 19 agosto 1994, n. 18, tutti i prodotti a base di gangliosidi come il farmaco in questione furono poi tolti dal commercio. Dall’analisi dei provvedimenti relativi al medicinale e dei fatti e della copiosa documentazione prodotta in merito ad avviso del ricorrente “risulta evidente la responsabilità del Ministero” per non avere sospeso in via precauzionale il farmaco dal mercato, ignorando con comportamento gravemente colposo le molte denunce e temporeggiando. In questo modo sarebbero stati violati dal Ministero il principio di correttezza e buona amministrazione, il principio del neminem laedere ex art. 2043 c.c., gli artt. 32 e 97 Cost. e il Trattato della Comunità Europea che gravano il Ministero della vigilanza sui farmaci pure dopo la registrazione del prodotto in commercio, con conseguente obbligo di sospendere la vendita anche dei prodotti con effetti terapeutici discutibili ed effetti collaterali pericolosi; sarebbe stato violato altresì il citato art. 14, che impone la revoca dell’autorizzazione al commercio se il farmaco risulta nocivo e la sua sospensione dal mercato in caso di dubbio. La disciplina sul mercato dei farmaci sarebbe tutta fondata sul principio di precauzione, per cui la colpa del Ministero non rileverebbe quanto alla valutazione della pericolosità del farmaco, bensì della pericolosità della situazione connessa al suo uso. Pertanto la motivazione della sentenza impugnata sarebbe “lesiva degli interessi” del ricorrente tutelati dal citato art. 14.

Il motivo appena descritto dimostra con evidenza che attraverso le sue varie argomentazioni in realtà persegue dal giudice di legittimità la revisione dell’accertamento di fatto, espletato dai giudici di merito, dell’esistenza del presupposto per l’applicazione del D.Lgs. n. 178 del 1991, art. 14, comma 4, ovvero dell’accertamento che, quando l’attuale ricorrente assunse il farmaco, la sua natura, per così dire, non “rassicurante” era già emersa e notoria, o comunque il farmaco aveva già destato notevole preoccupazione per i suoi reali effetti. E, al riguardo, si nota meramente per inciso che, se la situazione fosse all’epoca – l’iniezione del farmaco avvenne il (OMISSIS) – già così negativamente univoca, ovvero, come si afferma nel ricorso a pagina 27, già sussistesse una “moltitudine” di denunce da parte di medici, Usl, ospedali, pazienti, e studiosi sulla correlazione tra i farmaci a base di gangliosidi e la sindrome di Guillain-Barrè (c.d. SGB), non si comprende come mai il ricorrente, che era all’epoca medico di base e si fece iniettare il farmaco dalla moglie, direttore sanitario della stessa AUSL (OMISSIS) di Rimini, non ne era venuto a conoscenza, come d’altronde ha rilevato il giudice d’appello nella motivazione della sua pronuncia (precisamente, nella terz’ultima pagina).

Per schermare tale natura fattuale il ricorrente inserisce pretese violazioni di legge, che non sono però idonee, per quanto si è appena rilevato, a rendere ammissibile il motivo come effettiva denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Per di più, a parte il riferimento all’art. 14 citato, tutte le ulteriori fonti normative invocate nel motivo il ricorrente non indica quando furono in precedenza addotte dinanzi ai giudici di merito: al contrario, ricostruendo la vicenda processuale, il ricorrente (a pagina 5 del ricorso) espone che in secondo grado ha posto come motivi del gravame “erronea statuizione in ordine all’interpretazione della legislazione inerente la vigilanza in materia sanitaria ed alla conseguente asserita mancanza di colpa in capo al Ministero della sanità”, vale a dire, ancora una volta, il D.Lgs. n. 178 del 1991.

Non può non confermarsi, in conclusione, che il motivo patisce in realtà una natura fattuale, prospettando una valutazione alternativa del compendio probatorio relativo alla pubblica conoscenza del farmaco e delle sue complicanze rispetto a quella adottata dal giudice di merito; tanto più che nella parte finale il motivo vira verso una censura motivazionale, ancora una volta per tentar di celare un classico perseguimento del terzo grado di merito.

3.2 n secondo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè falsa applicazione del principio della preponderanza dell’evidenza (criterio della probabilità prevalente).

Le argomentazioni del giudice d’appello sulla mancanza di prova del nesso causale tra il farmaco e la sindrome insorta nel ricorrente sono ad avviso del ricorrente “frutto di una lettura superficiale delle risultanze probatorie e di una mera riproposizione delle statuizione del giudice di primo grado, evidenziano la palese violazione delle norme di diritto in materia di nesso causale e, nello specifico, del principio della c.d. preponderanza dell’evidenza”. A questo asserto segue una lunga analisi degli elementi probatori, degli esiti peritali e della letteratura medica (pagine 34-40 del ricorso) per concludere che ognuno di tali elementi è indiziario, ma, una volta valutati insieme ex art. 2729 c.c., gli elementi suddetti avrebbero “provato” il nesso causale (pagina 40 del ricorso). La corte territoriale avrebbe dovuto rivalutare il materiale probatorio con autonomia, ma, al contrario, ha aderito al primo giudice nell’escludere il nesso causale. Viene poi richiamata giurisprudenza sulla causalità (pagine 41-44 del ricorso) per pervenire alla doglianza (a pagina 45) che la corte territoriale “avrebbe dovuto accertare che, in assenza di altri fattori alternativi, l’omissione perpetrata dal Ministero risultava essere stata la causa dell’insorgenza della malattia”.

A parte, allora, questa argomentazione finale sugli elementi avvinti dal nesso causale (prima si era infatti argomentato sul nesso causale del farmaco con la SGB, mentre in questa si colloca il nesso causale direttamente tra l’assunta omissione ministeriale e la SGB), la descrizione del motivo è stata qui offerta con dettagliata estensione perchè la mera lettura del suo contenuto dimostra che la linea tenuta è la stessa del motivo precedente: ancora una volta, si chiede al giudice di legittimità di operare una valutazione alternativa sul compendio probatorio che venga a smentire l’accertamento fattuale espletato dai giudici di merito, incorrendo pertanto nella inammissibilità del motivo.

3.3 Il terzo motivo denuncia violazione o falsa applicazione del principio di corrispondenza tra chiesto e il pronunciato riguardo al rapporto tra il ricorrente e FIDIA S.p.A., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 112 c.p.c..

Fin dal primo grado il ricorrente non avrebbe accettato il contraddittorio nei confronti di tale società, chiamata dal convenuto, e in appello aveva avanzato motivo di violazione dell’art. 112 c.p.c. dal contenuto seguente.

Lamentava il motivo d’appello che il Tribunale avesse ritenuto che la domanda di condanna al risarcimento dei danni nei confronti anche della società dovesse essere rigettata, senza tenere conto del fatto che l’attuale ricorrente non aveva mai accettato il contraddittorio con essa, dato che nei confronti della società aveva già instaurato una causa davanti al Tribunale di Padova (ed era intervenuto nella sua procedura concorsuale: la società era a quell’epoca in amministrazione straordinaria), causa che si era conclusa con una transazione. Anche la riunione di una causa del Ministero avverso la società ritornata in bonis con quella avviata dal ricorrente e dove era avvenuta la chiamata in causa del Ministero nei confronti della società non aveva tolto l’autonomia delle cause riunite.

Nonostante quanto appena esposto, nessuno dei giudici di merito – lamenta ora il ricorrente ha “statuito sull’eccezione ritualmente sollevata” dal ricorrente in entrambi i gradi, limitandosi al riguardo il giudice d’appello ad affermare che la società imputa al Ministero, che l’ha chiamata per manleva senza poi riproporre la domanda in sede d’appello, la sua partecipazione al giudizio d’appello; e “poichè è indubbio” che detta società è nella controversia “uno dei protagonisti” anzi “quello iniziale” – osserva ancora il giudice d’appello – non è rilevabile “una responsabilità altrui per la sua partecipazione nel giudizio con coinvolgimento anche in questo grado”, e di ciò ha deciso di tener conto a proposito delle spese.

In realtà, l’attuale ricorrente non aveva accettato il contraddittorio con la società produttrice del farmaco, e il giudice di prime cure aveva emesso una pronuncia che non faceva discendere dalla presenza nel giudizio della società a seguito del rapporto processuale di manleva instaurato con essa dal Ministero alcuno svantaggio per il M., non condannandolo a rifondere le spese alla società chiamata, bensì compensando le spese per tutti i rapporti processuali, come si evince dal dispositivo della sua sentenza riportato nel ricorso (a pagina 5). Non si vede, pertanto, come il motivo d’appello fosse fondato da un interesse, visto il tenore della sentenza di primo grado; e avendo anche il giudice d’appello compensate le spese tra tutte le parti, non si ravvisa alcun interesse neppure per la proposizione del presente motivo, che pertanto risulta inammissibile.

3.4 Il quarto motivo è qualificato “motivo attinente al regolamento delle spese” e adduce che i giudici di merito hanno compensato, ritenendo il ricorrente soccombente, mentre avrebbe dovuto essere soccombente il Ministero, sul quale pertanto doveva gravare la condanna alla rifusione delle spese a favore dell’attuale ricorrente. Per quanto si è appena osservato, questo motivo ha come logico e imprescindibile presupposto un inammissibile accertamento di fatto quale è richiesto dal primo e dal secondo motivo del ricorso, per cui, a tacer d’altro, di tali precedenti motivi assume anch’esso la inammissibilità.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 8000, oltre a Euro 200 prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2016

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