Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22638 del 08/11/2016


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Cassazione civile sez. III, 08/11/2016, (ud. 12/10/2016, dep. 08/11/2016), n.22638

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – rel. Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9565/2014 proposto da:

G.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA

BUFALOTTA 174, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA BARLETTELLI,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE DI TRAPANI giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.A.;

– intimato –

Nonchè da:

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE ZEBIO

37, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO FURITANO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CECILIA FURITANO

giusta procura a margine del controricorso;

– ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1204/2013 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 20/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/10/2016 dal Consigliere Dott. ANGELO SPIRITO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 21 ottobre 2005, A.A. – premesso che con scrittura del 18 marzo 2001 aveva stipulato una transazione con la ex moglie, G.V., nei confronti della quale era debitore di una somma quantificata in Lire 117.000.000, scaturente in parte dagli obblighi di mantenimento dell’ex coniuge e delle tre figlie, in parte dall’obbligo di versare mensilmente il 50% del valore locativo della casa familiare nella quale aveva continuato ad abitare; che in base alla transazione egli si sarebbe liberato attraverso la cessione della quota di proprietà (50%) dell’appartamento (fino alla concorrenza di Lire 100.000.000) e attraverso il versamento di un assegno mensile di Lire 1.000.000 sino all’estinzione della parte residua del debito (Lire 17.000.000); che nel medesimo atto era stato pattiziamente regolato per il futuro il mantenimento delle tre figlie, quantificandosi il contributo da lui dovuto a tale titolo in Lire 1.200.000 mensili e stabilendosi che egli avrebbe adempiuto a questa obbligazione facendosi carico di tutte le spese, ordinarie e straordinarie, necessarie per il mantenimento della figlia F. durante il corso di studio da lei seguito presso la (OMISSIS) e a (OMISSIS), mentre la G. avrebbe provveduto all’integrale mantenimento delle altre due figlie, S. e L.; che l’equilibrio tra le obbligazioni reciprocamente assunte si era alterato in ragione della circostanza (sopravvenuta di pochi mesi alla stipulazione dell’accordo transattivo ed indebitamente taciutagli dall’ex moglie) che la figlia S. aveva iniziato a lavorare, raggiungendo la propria autosufficienza economica; e che il contegno della G. aveva costituito inadempimento dell’obbligazione assunta con l’accordo transattivo – convenne quest’ultima dinanzi al Tribunale di Palermo chiedendone la condanna al risarcimento del danno, da quantificarsi in Euro 35.181,52 di cui Euro 30.191,52 corrispondenti alla metà delle spese straordinarie sostenute per la figlia F. ed Euro 5.000,00 per danni morali, lucro cessante e/o danno emergente, oltre interessi legali.

Si costituì in giudizio la convenuta, resistendo alla domanda ed invocandone il rigetto.

Con sentenza del 18 agosto 2009 il Tribunale di Palermo, qualificata la domanda come domanda di risarcimento del danno per violazione dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto ai sensi dell’art. 1375 c.c., la accolse parzialmente e condannò G.V. a pagare ad A.A. la somma di Euro 10.000,00, oltre interessi dalla domanda al saldo, ritenendo entro tali limiti provato, nel quantum, il pregiudizio subito dall’attore.

Con sentenza del 20 luglio 2013 n. 1024, la Corte di Appello di Palermo rigettò l’appello principale proposto da G.V., nonchè l’appello incidentale proposto da A.A., e confermò la sentenza del primo giudice, compensando integralmente tra le parti le spese del grado.

Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale decise sulla base dei seguenti rilievi:

1. correttamente il Tribunale, nell’interpretare la scrittura del (OMISSIS), aveva attribuito al contratto stipulato tra gli ex coniugi una duplice natura ravvisando, nella prima parte di esso, una transazione volta a risolvere, mediante reciproche concessioni, i rapporti litigiosi pendenti tra le parti e, nella seconda parte, un accordo valevole per il futuro in ordine alla reciproca ripartizione degli oneri economici connessi con il mantenimento delle figlie;

2. altrettanto correttamente il primo giudice aveva qualificato la domanda proposta dall’ A. come domanda risarcitoria per violazione del principio di buona fede in sede di esecuzione del contratto, sancito dall’art. 1375 c.c., atteso che, pur in difetto di un espresso richiamo a tale principio, nella citazione introduttiva si era fatto riferimento al comportamento di malafede della G. deducendo che essa, ledendo lo spirito collaborativo posto alla base dell’accordo economico, aveva ingannevolmente omesso di comunicare che la figlia aveva iniziato un’attività lavorativa, così determinando uno squilibrio nella distribuzione del carico economico a sfavore dell’ex marito. Il tribunale aveva quindi correttamente esercitato il potere di qualificazione della domanda senza ledere i principi della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e del contraddittorio;

3. nel merito, la sussistenza del dedotto comportamento improntato a malafede doveva ritenersi pacifica, atteso, da un lato, che la G. non aveva contestato di avere volontariamente omesso di comunicare all’ex coniuge la circostanza che la figlia S. aveva iniziato un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dal (OMISSIS); e considerato, dall’altro lato, che questa circostanza aveva indubbiamente comportato uno squilibrio tra le reciproche prestazioni delle parti in quanto mentre l’ A. aveva continuato a sostenere l’intero carico delle spese sostenute dalla figlia F. per la frequentazione del corso di studi, la G. aveva dovuto continuare a mantenere una sola figlia, avendo l’altra raggiunto l’autosufficienza economica. Pertanto, se la G. avesse doverosamente provveduto a comunicare la circostanza medesima all’ex marito, le condizioni dell’accordo avrebbero potuto essere modificate con l’accollo, da parte sua, di una parte dell’onere economico gravante sull’altro genitore;

4. anche con riguardo al quantum, ancora, la decisione del primo giudice era esente da censure in quanto l’ A. aveva provato l’esborso almeno della somma di complessivi Euro 6.982,26 (mediante il deposito delle fotocopie di 4 assegni emessi dalla figlia F. all’ordine della (OMISSIS)) e in quanto doveva altresì tenersi conto della complessità degli accordi intervenuti tra gli ex coniugi e della durata della situazione di squilibrio delle reciproche prestazioni, protrattasi fino al (OMISSIS), epoca di conclusione del corso di studi da parte della medesima figlia. La correttezza della decisione sul quantum induceva, infine, anche al rigetto dell’appello incidentale, posto che l’ A. non aveva documentato altre spese, oltre la somma di Euro 6.982,26, ed era rimasta sfornita di prova anche la domanda di danno morale e di lucro cessante.

avverso questa sentenza, G.V. ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi.

Ha resistito con controricorso A.A., proponendo altresì ricorso incidentale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo G.V. ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1965 c.c., comma 2.

Secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che l’accordo del (OMISSIS) fosse articolato in due parti distinte e reciprocamente autonome.

Piuttosto, avuto riguardo alla regola che consente che con le reciproche concessioni oggetto della transazione le parti possano creare, modificare od estinguere anche rapporti diversi da quello controverso, l’accordo in questione avrebbe dovuto essere interpretato in senso unitario, valutando nella loro complessità le reciproche concessioni ed obbligazioni convenute tra le parti.

Una simile interpretazione avrebbe consentito di escludere l’alterazione dell’equilibrio delle reciproche prestazioni in considerazione, per un verso, del preventivo sacrificio economico cui ella si era sottoposta e, per altro verso, dell’esplicita chiarezza degli accordi i quali prevedevano la distribuzione tra le parti del mantenimento delle figlie a prescindere dal loro bisogno, di tal che la sopravvenuta circostanza che la figlia S. aveva raggiunto l’autosufficienza economica, quantunque taciuta all’ A., non aveva avuto alcuna incidenza sulla obbligazione di quest’ultimo di provvedere al mantenimento agli studi della figlia F..

1.1. Il motivo è inammissibile.

L’affermazione contenuta nella sentenza impugnata – secondo cui correttamente il Tribunale aveva individuato due distinti accordi nella scrittura del (OMISSIS), attribuendo alla prima parte di essa la natura di transazione e alla seconda parte la natura di accordo economico valevole per il futuro – è un’affermazione ad abundantiam che non si identifica con la ratio decidendi della medesima.

La condanna della G. al risarcimento del danno ha trovato infatti fondamento esclusivamente nel rilievo che il suo contegno successivo alla scrittura (e volto a tacere all’ex marito la sopravvenuta circostanza dell’inizio dell’attività lavorativa da parte della figlia S.) costituisse violazione del dovere di buona fede in sede esecutiva e concretasse, pertanto, una forma di inesatto adempimento alle obbligazioni derivanti dall’accordo, la natura del quale non ha assunto pertanto alcuna rilevanza, nell’economia della decisione di merito, ai fini della configurazione dell’obbligo risarcitorio, scaturendo quest’ultimo unicamente dal ritenuto contegno inadempiente dell’obbligata.

Il rilievo che il motivo di ricorso in esame censuri un’argomentazione della sentenza impugnata non costituente una ratio decidendi della medesima, induce a dichiararlo inammissibile, in conformità al consolidato orientamento di questa Corte secondo cui le affermazioni ad abundatiam, che non spieghino alcuna influenza sul dispositivo della sentenza, non possono essere oggetto di ricorso per cassazione per difetto di interesse, essendo improduttive di effetti giuridici (Cass. civ., Sez. 3, 5 giugno 2007, n.13068, Rv. 597597; Cass. civ., Sez. 3, 19 febbraio 2009, n.4053, Rv. 607020; Cass. civ., Sez. 3, 9 aprile 2009, n.8676, Rv. 607845; v. anche, più recentemente, Cass. civ., Sez. lav., 22 ottobre 2014, n. 22380, Rv. 633495).

2. Con il secondo motivo G.V. ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 112 c.p.c..

Ad avviso della ricorrente, il giudice del merito, qualificando la domanda come domanda risarcitoria per violazione del principio di buona fede in sede di esecuzione del contratto, sancito dall’art. 1375 c.c., avrebbe indebitamente sostituito la causa petendi dell’azione esercitata dall’ A., ponendo a fondamento della pronuncia un fatto costitutivo diverso da quello dedotto dall’attore. Quest’ultimo avrebbe infatti allegato un inadempimento contrattuale fondato sul presunto squilibrio delle reciproche prestazioni senza prospettare la lesione dell’art. 1375 c.c., ed avrebbe evocato il non corretto comportamento della G. “solo ed esclusivamente al fine di fornire elementi a sostegno della domanda di risarcimento del danno da inadempimento”.

2.2. Anche questo motivo è inammissibile.

La violazione di norme processuali, dando luogo a vizio di attività e a nullità del processo e della sentenza (error in procedendo), deve essere dedotta mediante la sussunzione del vizio nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, atteso che quella di cui al precedente n. 3 del medesimo articolo si riferisce alla violazione di norme sostanziali, che dà luogo ad errore di giudizio direttamente incidente sull’oggetto della decisione di merito (error in iudicando).

Tra gli errores in procedendo, da denunciare ai sensi del numero 4 dell’art. 360 c.p.c., rientrano le prospettate violazioni degli artt. 101 e 112 c.p.c., le quali, integrando rispettivamente una fattispecie di lesione del contraddittorio e di ultrapetizione, determinerebbero, in tesi, la nullità del procedimento e della sentenza impugnata.

La circostanza che la ricorrente abbia invece inteso far valere tali vizi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, senza fare alcun riferimento alle conseguenze (nullità del procedimento e della sentenza) derivanti dall’errore sulla legge processuale, impone la declaratoria di inammissibilità del motivo di ricorso in esame, in applicazione del consolidato orientamento di questa Corte secondo cui, pur non essendo indispensabile la formale ed esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, è peraltro necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dal vizio denunciato, dovendosi reputare inammissibile il gravame che si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. civ., Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931, Rv. 627268; v. anche Cass. civ., Sez. 3, 17 settembre 2013, n. 21165, Rv. 628690 e, più recentemente, Cass. civ., Sez. 6-3, Ord. 28 settembre 2015, n. 19124, Rv. 636722).

3. Con il terzo motivo, G.V. ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c..

Secondo la ricorrente, A.A. non avrebbe assolto l’onere di dimostrare il danno asseritamente subito in quanto le fotocopie dei 4 assegni da lui depositate (per un ammontare complessivo di Euro 6.982,26) si riferivano a titoli emessi dalla figlia F. e non provavano dunque la sussistenza di pagamenti a lui riconducibili.

Illegittimamente, pertanto, il giudice del merito aveva proceduto alla liquidazione del danno (tra l’altro, nel maggiore ammontare di Euro 10.000,00, oltre interessi) utilizzando il criterio equitativo, in quanto l’utilizzo di questo criterio presuppone, ai sensi dell’art. 1226 c.c., oltre alla prova dell’esistenza del pregiudizio, l’obiettiva impossibilità o la notevole difficoltà di dimostrarne l’ammontare e non può sopperire all’inerzia probatoria imputabile alla parte.

4. La liquidazione equitativa del danno operata dalla Corte territoriale costituisce oggetto anche del ricorso incidentale proposto da A.A. il quale si è doluto, all’inverso, di una quantificazione eccessivamente contenuta, avendo egli dedotto di aver subito un pregiudizio maggiore, stimabile – come già evidenziato nell’originaria citazione – in Euro 35.181,52 di cui Euro 30.191,52 corrispondenti alla metà delle spese straordinarie sostenute per la figlia F. ed Euro 5.000,00 per danni morali, lucro cessante e/o danno emergente, oltre interessi legali.

Tale doglianza – la quale deve essere esaminata congiuntamente a quella espressa con il terzo motivo del ricorso principale, stante l’evidente connessione – è stata peraltro espressa dal ricorrente incidentale senza la formulazione di specifici motivi di ricorso per cassazione e senza la prefigurazione di vizi della pronuncia sussumibili in una delle fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c..

Il ricorso incidentale di A.A. deve dunque dichiararsi inammissibile, in conformità al disposto dell’art. 375 c.p.c., n. 1 (che fa seguire tale sanzione alla “mancanza dei motivi previsti dall’art. 360”) e dell’art. 366 c.p.c., n. 4, che richiede, sempre a pena di inammissibilità, che il ricorso per cassazione contenga, tra l’altro, “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”.

Parzialmente fondato è invece il terzo motivo del ricorso principale di G.V..

Invero, La Corte di merito, mentre ha reputato “del tutto sfornita di prova” la domanda di liquidazione del danno morale, del lucro cessante e del (l’ulteriore) danno emergente, ha ritenuto che quello consistente nelle spese sostenute dall’ A. per il mantenimento agli studi della figlia F. fosse stato documentalmente provato, attraverso il deposito delle fotocopie di 4 assegni emessi dalla figlia medesima all’ordine della (OMISSIS), nei limiti di Euro 6.982,26, ed ha chiarito che la residua documentazione prodotta dal danneggiato non era idonea a dimostrare un pregiudizio ulteriore, non potendo inferirsi dalla sola sussistenza di “altri assegni” e di un “tabulato dell’estratto conto” la riferibilità delle spese effettuate con i primi e la destinazione delle somme indicate nel secondo agli studi della figlia.

Sulla scorta di queste argomentazioni, la Corte territoriale, preso atto della parziale assoluzione dell’onere della prova da parte dell’ A., avrebbe dovuto pertanto liquidare in Euro 6.982,26 il complessivo danno da lui subito, senza ampliarne l’ammontare attraverso un’indebita liquidazione equitativa volta a tenere conto “anche della complessità degli accordi intervenuti tra i due ex coniugi” e “della durata per la quale si è protratta la situazione di squilibrio delle reciproche prestazioni”.

Il ricorso al criterio equitativo è infatti consentito, ai sensi dell’art. 1226 c.c., non già per sopperire alle carenze probatorie imputabili al danneggiato ma soltanto al fine di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del pregiudizio, allorchè sia obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare, nel suo preciso ammontare, il danno di cui è certa la sussistenza, sicchè la parte non può esimersi dal provare elementi utili alla quantificazione di cui possa ragionevolmente disporre (da ultimo, Cass. civ., Sez. 3, 8 gennaio 2016, n. 127, Rv. 638248).

Avendo il giudice del merito esercitato il potere discrezionale conferito dall’art. 1226 c.c., in mancanza dei presupposti stabiliti dalla norma, la sentenza deve essere cassata in parziale accoglimento del terzo motivo di ricorso principale.

Poichè inoltre non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto, questa Corte può decidere la causa nel merito (art. 384 c.p.c., comma 2), riducendo la condanna di G.V. al pagamento, in favore di A.A., della somma di Euro 6.982,26.

Tale somma, vertendosi in materia di obbligazione risarcitoria, avente natura di debito di valore, deve essere annualmente rivalutata secondo gli indici Istat dal momento dell’inadempimento sino alla data di pubblicazione della sentenza e deve essere accresciuta degli interessi, nella misura legale (Già Cass., Sez. Un., n. 1712/1995; successivamente v. Cass. civ., Sez. 3, 18 luglio 2011, n. 15709, Rv. 619503; Cass. civ., Sez. 1, 17 settembre 2015, n. 18243, Rv. 636751). Questi ultimi devono calcolarsi sul credito espresso in moneta all’epoca del fatto e poi rivalutato anno per anno sino al saldo (Cass. civ., Sez. 3, 10 ottobre 2014, n. 21396, Rv. 632983).

L’esito della controversia giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese dei gradi di merito, nonchè di quelle della procedura relativa all’istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza cassata (istanza proposta dalla ricorrente, ai sensi dell’art. 373 c.p.c. e respinta dalla Corte territoriale con ordinanza del 6 febbraio 2015) la cui liquidazione è stata chiesta dai difensori di A.A. con memoria del 9 dicembre 2015. Stante il limitato accoglimento del ricorso proposto da G.V., le spese del giudizio di cassazione vanno compensate nella misura di due terzi, dovendo condannarsi A.A., resistente e ricorrente incidentale, a rimborsare alla ricorrente principale il residuo terzo, liquidato come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile i primi due motivi del ricorso principale e il ricorso incidentale.

In parziale accoglimento del terzo motivo del ricorso principale, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna G.V. a pagare ad A.A. la somma di Euro 6.982,26 da rivalutare annualmente secondo gli indici Istat fino alla data di pubblicazione della sentenza e da accrescere degli interessi legali da calcolarsi sul credito espresso in moneta all’epoca del fatto e poi rivalutato anno per anno sino al saldo.

Compensa integralmente tra le parti le spese dei gradi di merito e quelle della procedura relativa all’istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza cassata, nonchè, nella misura di due terzi, quelle del giudizio di legittimità e condanna A.A. a rimborsare a G.V. il terzo residuo che si liquida in Euro 1.700,00, oltre accessori e spese generali come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 12 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2016

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