Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22634 del 08/11/2016


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Cassazione civile sez. III, 08/11/2016, (ud. 12/10/2016, dep. 08/11/2016), n.22634

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27953-2013 proposto da:

R.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO

DELLA GANCIA 5, presso lo studio dell’avvocato RENATO MIELE,

rappresentato e difese dall’avvocato LUICINO MARIA MARTELLATO giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.C.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

CALABRIA 56, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BONARRIGO,

rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONINO GAZZARA giusta procura

a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

F.M.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1216/2012 del TRIBUNALE di VENEZIA, depositata

il 29/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/10/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito l’Avvocato LUIGINO MARIA MARTELLATO;

udito l’Avvocato STEFANO MONTESI per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE TOMMASO che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con atto notificato il 27 luglio 2010 C.C.I. citava davanti al Tribunale di Venezia R.E. – suo ex coniuge – e F.M. – moglie di lui – proponendo domanda ex art. 2901 c.c. in relazione alla costituzione il 9 maggio 2008 di un fondo patrimoniale, sulle basi di un proprio credito per assegni di mantenimento divorzile riconosciutole dalla Corte d’appello di Messina con la sentenza n. 516/2009. Si costituiva resistendo il R., restando contumace l’altra convenuta. Con sentenza dell’Il maggio-29 giugno 2012 il Tribunale accoglieva la domanda, revocando quindi ex art. 2901 c.c. nei confronti dell’attrice l’atto di costituzione del fondo patrimoniale. Avendo il R. proposto appello, ed essendosi costituita resistendo la controparte, la Corte d’appello di Venezia, con ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. dell’11 ottobre 2013, ha dichiarato inammissibile il gravame.

2. Ha presentato ricorso il R. sia contro la sentenza di primo grado, sia, ex artt. 3, 24 e 111 Cost. e art. 6 CEDU, contro l’ordinanza del giudice d’appello, per quest’ultima sollevando in subordine anche eccezioni di illegittimità costituzionale degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c..

Si difende con controricorso C.C.I..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso presenta anzitutto quattro motivi avverso la sentenza del Tribunale.

3.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2901 c.c.: il Tribunale afferma nella motivazione che “la situazione psicologica non ha rilevanza”, in tal modo violando l’art. 2901 c.c. e contraddicendo anche l’avere in un precedente passo della motivazione riconosciuta la necessità del consilium fraudis.

Il motivo è intrinsecamente illogico, dal momento che estrapola artificiosamente una frase dalla motivazione della sentenza impugnata e al tempo stesso riconosce che il Tribunale ha affermato la necessità dell’elemento soggettivo quale presupposto di accoglimento della domanda ex art. 2901 c.c.: quella che è evidentemente una contraddittorietà del motivo, il motivo tenta poi di traslarla nella sentenza come contraddittorietà di quest’ultima, così confondendo la pretesa violazione di legge che nella rubrica asserisce di denunciare con quello che sarebbe, semmai, un vizio motivazionale.

Una simile, ambigua oltre che illogica, conformazione conduce il motivo alla inammissibilità.

3.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 111 Cost. e art. 6 CEDU, nonchè nullità della sentenza.

Il Tribunale afferma che “la costituzione del fondo è avvenuta nell’imminenza” della sentenza della Corte d’appello di Messina n. 516/2009, ritenendo questa “circostanza significativa della consapevolezza di ledere la garanzia del credito”. Così viene a violare l’obbligo motivazionale per motivazione omessa o apparente. Tale circostanza non ha infatti valore nel caso in questione, in cui invece la sentenza, secondo il ricorrente, “trascura… i dati concreti della fattispecie”: vengono quindi richiamati dati fattuali e difese in ordine al merito dell’attuale ricorrente, per dedurne poi che nel contesto della specifica controversia l’affermazione “non integra e non può integrare motivazione”, oltre a essere erronea in fatto perchè la sentenza messinese fu emessa oltre un anno dopo. E’ poi violato l’art. 111 Cost., laddove al comma 6 impone l’obbligo motivazionale e ai commi 1 e 2 riconosce il “diritto a un equo giudizio”; parimenti è violato l’art. 6 CEDU.

Per quanto nel motivo, come si è appena illustrato, il ricorrente formalmente adduca violazioni di legge, in realtà quel che definisce tale altro non è, in sostanza, che una critica diretta dell’accertamento fattuale operato dal giudice di merito, la quale esorbita anche dal vizio motivazionale denunciato, in quanto costituisce una mera valutazione alternativa dei fatti.

Anche questo motivo, pertanto, risulta inammissibile.

3.3 Il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 167, 171 e 177 c.c., artt. 3 e 29 Cost. e artt. 8 e 12 CEDU.

Il Tribunale rinviene la “dolosa preordinazione” nella natura di atto gratuito del fondo patrimoniale, in tal modo rendendo comunque revocabile il fondo e svuotandolo di significato. Il fondo patrimoniale è diretto alla tutela della famiglia, che non necessita abbia figli, per cui viene violato anche l’art. 29 Cost.. E vengono parimenti violati i diritti riconosciuti dagli artt. 8 e 12 CEDU, cioè al matrimonio e alla famiglia e al rispetto alla vita familiare.

Inoltre il lungo rapporto con l’attuale coniuge ha portato il ricorrente a convivere anche con le figlie di lei, e ormai devono considerarsi gli interessi della “famiglia allargata”, per cui anche le suddette fanno parte della famiglia del ricorrente.

Ancora, anche durante il matrimonio e in regime di comunione legale “i proventi del lavoro di ciascuno dei coniugi sono beni personali che ricadono in comunione soltanto de residuo, qualora non consumati allo scioglimento della comunione”, onde ingiustificata è la pretesa dell’ex moglie “di considerare – sotto le mentite spoglie di un’azione revocatoria – come propri anche i frutti del lavoro” del suo ex marito negli anni posteriori al vincolo coniugale, inoltre “intervenendo a stravolgere un assetto di vita privata e familiare” fino a ledere il diritto al matrimonio per le ripercussioni sulla posizione del nuovo coniuge. Pertanto la prospettazione di controparte “omette totalmente la considerazione dei doveri” del ricorrente verso la sua nuova famiglia. E il ricorrente, d’altronde, non ha mai violato i propri doveri, vista la definizione “satisfattiva” con le sue figlie fin dal 1999.

Anche questo motivo non si discosta dalla linea dei motivi precedenti. In particolare, decontestualizza una frase dal complessivo tessuto motivazionale della sentenza pugnalata, che ha comunque complessivamente richiesto ed esaminato tutti i presupposti dettati dall’art. 2901 c.c., illustrandone, seppur concisamente, l’accertamento con esito positivo. Gli ulteriori argomenti non hanno poi rilevanza, in quanto a ben guardare tentano di inficiare le risultanze del giudizio divorzile in ordine all’esistenza del credito per l’assegno di mantenimento della ex coniuge del ricorrente. Tutto ciò conduce il motivo alla inammissibilità.

3.4 n quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727-2729 c.c. in via gradata, adducendo che non è stato assolto l’onere probatorio attoreo in quanto l’attrice ha proposto soltanto “illazioni prive di pregio e di valenza probatoria e di riscontro documentale”, smentite dall’attuale ricorrente e inidonee a integrare anche la prova presuntiva.

Di nuovo il ricorrente propone una censura diretta alla revisione degli esiti probatori, perseguendo un terzo grado di merito, il che conduce pure quest’ultima censura alla inammissibilità.

Tutti e quattro i motivi attinenti alla sentenza di primo grado, conclusione, risultano inammissibili.

4.Il ricorso propone poi avverso l’ordinanza tre motivi, e, in subordine, eccezioni di illegittimità costituzionale.

4.1.1 Il primo motivo denuncia violazione di legge in riferimento agli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., artt. 3, 24 e 111 Cost. e art. 6 CEDU.

Il giudice d’appello, ad avviso del ricorrente, ha oltrepassato i limiti dell’esame preliminare, anticipando una vera sentenza di merito, che non tiene conto nè del contenuto dell’atto d’appello nè dei fatti documentati negli atti di causa, ignorati o travisati.

Nella motivazione, poi, la corte territoriale si sofferma specialmente su aspetti estranei al giudizio e alla sentenza di primo grado, che valuta superficialmente.

Viola inoltre la corte territoriale gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c. perchè considera condivisibile la motivazione di una sentenza di primo grado che in realtà è priva di motivazione.

L’inammissibilità dell’appello quindi non deriva dalle stesse ragioni riguardanti le questioni di fatto: il che preclude il ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non rispettando il diritto di difesa e il contraddittorio, e “confisca il grado di giudizio”. Pertanto “le circostanze addotte” dal giudice d’appello integrano violazione sia di legge sia del diritto al contraddittorio.

4.1.2 Pur articolato, come si è appena visto, in vari argomenti, questo motivo si fonda in realtà sul fatto che, ad avviso del ricorrente, la corte territoriale nell’ordinanza ha introdotto nuove ragioni di fatto di cui il giudice di prime cure non si era avvalso. Peraltro, l’art. 348 ter c.p.c. non vieta al giudice d’appello l’introduzione di tali nuove ragioni – introduzione che pertanto, ovviamente, non può integrare violazione di legge -, e anzi fa discendere proprio dalla presenza nell’ordinanza di inammissibilità di nuove ragioni inerenti alle questioni di fatto la proponibilità di ricorso avverso la sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ma a priori non può non rilevarsi che l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. è sì ricorribile ex art. 111 Cost. (e quindi, logicamente, ai sensi pure della normativa sovranazionale che il ricorrente invoca, assorbendo d’altronde l’art. 111, in quanto norma specifica ai fini della impugnabilità, gli artt. 3 e 24 Cost.), però entro determinati limiti, ovvero esclusivamente per i vizi che le Sezioni Unite hanno individuato con la sentenza 2 febbraio 2016 n. 1914, cui non è riconducibile il motivo in esame, che censura, come si è appena rilevato, proprio un’ipotesi espressamente prevista dal legislatore, cioè l’inserimento di nuove ragioni di fatto nella motivazione dell’ordinanza ex art. 348 ter. Di qui la inammissibilità del motivo.

4.2 Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. e art. 6 CEDU per avere il giudice d’appello contravvenuto il principio del contraddittorio per quanto addotto nel motivo precedente. Si rimanda pertanto a quanto appena osservato, da cui deriva l’inammissibilità anche di questo motivo.

4.3.1 n terzo motivo denuncia violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, artt. 167 e 171 c.c., art. 29 Cost., artt. 8 e 12 CEDU, art. 2901 c.c. e artt. 2597 (sic) e 2727-2729 c.c..

Premesso che, ad avviso del ricorrente, la sentenza di primo grado è priva di motivazione e l’ordinanza della corte territoriale presenta una motivazione “avulsa dai dati di causa” ed erronea in diritto, “che vorrebbe sostituirsi a ad una motivazione che non c’è”, questo motivo si articola in tre doglianze.

In primo luogo si adduce violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 dal momento che l’addebito della separazione non comporta il diritto all’assegno divorzile. Essendo stato poi negato l’assegno di mantenimento prima, e quello divorzile poi, alla controparte “in venti anni di giudizio”, non si giustifica “l’errore della Corte”; e comunque si tratta di una circostanza, al contrario di quanto ritenuto dalla corte stessa, idonea ad escludere che l’attuale ricorrente “potesse attendersi una decisione, sfavorevole, diversa dalle precedenti”.

In secondo luogo si adduce violazione degli artt. 167 e 171 c.c., art. 29 Cost. e artt. 8 e 12 CEDU” per avere il giudice d’appello rilevato che dalle seconde nozze non era nata prole, affermando quindi che l’attuale famiglia del ricorrente “non aveva prodotto nuova prole e non poteva necessitare del fondo”. Il fondo patrimoniale è invece strumento anche per le famiglie senza prole.

In terzo luogo si adduce violazione dell’art. 2901 c.c. e artt. 2597 (sic), 2727-2729 c.c.: per avere la corte territoriale operato “assente o comunque erronea individuazione degli elementi costitutivi dell’azione revocatoria” e violato sia il principio dell’onere della prova sia la normativa sulla prova presuntiva, mancando la pluralità di elementi e la loro gravità, precisione e concordanza.

4.3.2 Risulta evidente che pure questo motivo, nelle sue tre articolazioni, non adduce doglianze che rientrino nei vizi denunciabili con ricorso ex art. 111 Cost. avverso l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., derivandone inammissibilità.

5.1 In subordine all’accoglimento dell’impugnazione avverso l’ordinanza della corte territoriale, qualora appunto si ritenga che la Corte d’appello abbia correttamente applicato gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., ad avviso del ricorrente questi ultimi sono costituzionalmente illegittimi sotto tre profili.

Il primo: sarebbero violati gli artt. 24 e 3 Cost. per illegittima compressione del diritto di azione e di impugnazione con la misura della presumibile fondatezza.

Il secondo: sarebbero violati gli artt. 24, 3 e 111 Cost. per non essere stata prevista la completezza del contraddittorio. Se questo infatti fosse completo, il giudice d’appello dovrebbe effettuare una previa comunicazione scritta alle parti della sua intenzione di rigettare l’appello, indicandone i motivi e assegnando all’appellante termine per confutarli, applicando o il modello tedesco o comunque l’art. 380 bis c.p.c..

Il terzo: sarebbero violati gli artt. 24, 3 e 111 Cost. Per non essere stata espressamente prevista l’impugnabilità autonoma dell’ordinanza, è obbligatorio impugnare la sentenza di primo grado, ma così, pur non essendo il secondo grado una garanzia costituzionale, si viene a ledere il principio di uguaglianza, perchè la soppressione del secondo grado non è “sistematica” ed è invece “rimessa alla soggettiva valutazione del singolo ufficio”, senza il ruolo nomofilattico della Cassazione. Sono lesi inoltre il diritto all’azione e il diritto di difesa. Altresì si violano i principi di cui all’art. 111 Cost. – giusto processo e della durata del processo, perchè il processo viene aggravato da “salti procedimentali” – “quanto alla necessità di agire avanti al giudice di legittimità avverso la sentenza di primo grado e con irragionevole e lesiva esclusione del motivo di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

La rilevanza di tutte queste eccezioni di illegittimità costituzionale, ad avviso del ricorrente, “si rinviene in quanto sopra, e in relazione al concreto svolgimento del procedimento”.

5.2 Perchè abbia luogo l’esame della non manifesta infondatezza delle suddette eccezioni occorre, logicamente, che emerga la loro rilevanza nel giudizio in atto. Ma, come si evince dalla sintesi appena tracciata, il ricorrente non ha indicato in che cosa consista, effettivamente, tale rilevanza, limitandosi ad un asserto del tutto generico. Non ha, invero, individuato alcunchè gli sia stato nel concreto pregiudizievolmente impossibile attuare per far valere i propri diritti nella presente causa in conseguenza del dettato degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., per cui anche quest’ultima parte del suo ricorso cade nella inammissibilità, per genericità assoluta sotto il profilo appena evidenziato.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art., comma 1 bis.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 12.200, oltre a Euro 200 per gli esborsi e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2016

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