Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22631 del 31/10/2011

Cassazione civile sez. I, 31/10/2011, (ud. 13/07/2011, dep. 31/10/2011), n.22631

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Q.A. (c.f. (OMISSIS)) – Q.S. –

Q.G. – Q.F. – QU.GU.

– QU.GA., elettivamente domiciliati in Roma, Piazza

del Fante, n. 10, nello studio dell’avv. prof. DE JORIO Filippo, che

li rappresenta e difende, giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI ROMA (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in

Roma, Via del Tempio di Giove, n. 21, presso l’Avvocatura comunale;

rappresentato e difeso dagli avv. FRIGENTI Guglielmo, Americo

Ceccarelli e Domenico Rossi, giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, n. 3903,

depositata in data 14 settembre 2006;

sentita la relazione alla pubblica udienza del 13 luglio 2011 del

Consigliere Dott. Pietro Campanile;

udito l’avv. De Jorio, il quale ha insistito per l’accoglimento del

ricorso;

udito l’avv. Ceccarelli, che ha chiesto l’inammissibilità del

ricorso;

sentite le richieste del Procuratore Generale, in persona del

Sostituto Dott. Aurelio Golia, il quale ha concluso per

l’inammissibilità, o comunque, per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 20373 del 2001, in parziale accoglimento della domanda proposta da Q.A., in proprio e quale erede dei propri genitori, nonchè da Q.F., S., Ga., G. e Gu., condannava il Comune di Roma al pagamento della somma di L. 1.464.175.000 a titolo di risarcimento dei danni prodotti dall’illegittima occupazione dei terreni, di proprietà altrui, condotti per l’esercizio di attività agricola.

1.1 – La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 2595 del 2004, pronunciando sull’appello principale proposto dai Q., i quali si dolevano dell’incongruità per difetto della somma liquidata, nonchè sull’appello incidentale del Comune, in accoglimento di quest’ultimo, rigettava la domanda, così riformando la decisione di primo grado.

1.2 – Tale decisione veniva impugnata per revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5, dal Q.A., in proprio e quale rappresentante della famiglia coltivatrice, deducendosi, da un lato, che l’esclusione della prova dell’esercizio di attività agricola esercitata dalla predetta famiglia contrastava con la decisione del Consiglio di Stato n. 336 del 1997, nella quale la legittimazione del Q. ad impugnare gli atti della procedura ablativa era stata affermata sulla base dell’accertata coltivazione dei terreni in virtù di contratti di affittanza agraria, e, dall’altro, che la decisione era frutto di errore di fatto, ponendosi in contrasto con tutti i documenti allegati agli atti di causa.

1.3 – Veniva disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei congiunti dell’appellante che non avevano proposto impugnazione, ritenendosi che l’affermazione di Q.A. di rappresentarli fosse priva di validi supporti fattuali e giuridici. Tale integrazione non aveva luogo; tuttavia i predetti intervenivano con comparsa depositata in data 29 settembre 2005: in relazione a tale aspetto la Corte territoriale, rilevava che tale intervento era tardivo rispetto al termine per impugnare, e, ritenuta la scindibilità delle domande, dichiarava l’inammissibilità dell’intervento.

1.4 – Nel merito, la Corte di appello dichiarava inammissibile l’impugnazione, considerando che la domanda risarcitoria era stata rigettata anche sotto un profilo autonomo (la proposizione in separato giudizio dell’indennità della L. n. 865 del 1971, ex art. 17), che non era interessato dalla questione cui ineriva l’impugnazione per revocazione.

1.5 – Per la cassazione di tale decisione Q.A., S., G., F., Gu. e Ga., propongono ricorso, affidato a tre motivi, ed illustrato da memoria.

Resiste con controricorso il Comune di Roma.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Preliminarmente deve constatarsi che l’istanza di riunione del presente procedimento a quello n. 27230/2006, chiamato a questa stessa udienza, non può essere accolta, stante l’evidente difformità dei rispettivi giudizi, attinenti, l’uno, a una impugnazione per revocazione di una decisione in materia risarcitoria, l’altro, a una domanda di indennità della L. n. 865 del 1971, ex art. 17, comma 2. L’istituto della riunione di procedimenti relativi a cause connesse, previsto dall’art. 274 c.p.c., essendo volto a garantire l’economia e il minor costo del giudizio, oltre alla certezza del diritto, trova applicazione anche in sede di legittimità, sia in relazione a ricorsi proposti contro sentenze diverse pronunciate in separati giudizi sia, a maggior ragione, in presenza di sentenze pronunciate in grado di appello in un medesimo giudizio, legate l’una all’altra da un rapporto di pregiudizialità e impugnate, ciascuna, con separati ricorsi per cassazione (Cass., 22 giugno 2007, n. 14607).

Nei procedimenti in questione, tuttavia, al di là della dedotta identità della vicenda originaria, sono assolutamente distinte le domande e le ragioni giuridiche sulle quali esse si fondono, ragion per cui non è in alcun modo ipotizzatale quel contrasto di giudicati che la norma contenuta nell’art. 274 c.p.c., tende principalmente a scongiurare.

2.1 – Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 48, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendosi che erroneamente la corte di merito ha sostenuto che Q.A. fosse privo di potere rappresentativo nei confronti dei componenti della famiglia coltivatrice.

E’ stato formulato, in proposito, il seguente quesito di diritto: “La L. n. 203 del 1982, art. 48, deve essere interpretato nel senso che, in virtù dell’assimilazione dell’impresa famiglia coltivatrice alla società semplice, la rappresentanza, anche processuale, della famiglia coltivatrice spetta a ciascuno dei componenti del gruppo, senza necessità che il contraddittorio sia integrato nei confronti degli altri membri ed indipendentemente dalla natura dell’azione promossa in giudizio? Nella fattispecie, l’azione promossa da Q.A., in proprio e quale rappresentante della famiglia coltivatrice, per la revocazione della sentenza della Corte d’appello n. 2595/04, ha spiegato effetti nei confronti di tutti gli altri componenti dell’impresa famiglia coltivatrice, senza necessità di integrazione del contraddittorio?”.

Mette conto di evidenziare, in via preliminare, che non risultano impugnate le ragioni giuridiche poste alla base dell’inammissibilità dell’intervento in giudizio di Q.S., G., F., Gu. e Ga., sostenendosi, in sostanza, che gli stessi erano rappresentati da Q.A., il quale aveva agito anche in nome dei componenti della famiglia coltivatrice. Tanto premesso, il motivo è infondato, ragion per cui deve rispondesi negativamente al quesito proposto. Ed invero, deve richiamarsi l’orientamento di questa Corte, al quale il Collegio intende dare continuità, secondo cui alla famiglia coltivatrice, equiparabile alla società semplice (esclusi il fine speculativo e l’origine contrattuale) si applica il principio della amministrazione disgiuntiva da parte di tutti i partecipanti, con la conseguenza che quando non vi sia stata la nomina del rappresentante ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 48, ciascuno dei suoi componenti può agire, anche sul piano processuale, in nome o per conto di detta famiglia nei confronti del concedente, con effetti per gli altri familiari, nei cui confronti non è necessario integrare il contraddittorio (Cass., 28 agosto 1990, n. 8854). Il tema della rilevanza esterna dell’impresa agricola familiare, nel senso della sola rappresentanza nell’ambito del rapporto agrario fra concedente e famiglia coltivatrice, è stato successivamente ribadito da questa Corte (Cass., 26 marzo 1999, n. 296; Cass., 5 gennaio 2001, n. 124), ragion per cui appare arduo sostenere che possa essersi rappresentanza – sostanziale e processuale – persino fuori dell’ambito dell’ordinaria gestione dell’impresa agricola, con riferimento a pretese di carattere risarcitorio che, se trovano la loro scaturigine nel rapporto agrario, non perdono, tuttavia, la loro essenza squisitamente individuale (cfr., in tema di danni lamentati da comproprietari in relazione a occupazione illegittima del fondo, Cass., 12 gennaio 2010, n. 254).

2.2 – Tanto premesso, non può omettersi di rilevare che, anche per l’infondatezza della censura testè esaminata, l’originaria carenza di legittimazione processuale di Q.A. in relazione alle pretese avanzate i propri congiunti refluisce, determinandone l’inammissibilità, sull’impugnazione proposta dai predetti, i quali, non avendo neppure contestato la declaratoria di inammissibilità del loro intervento, non potevano proporre ricorso avverso una decisione emessa in un processo nel quale non avevano assunto, per le indicate ragioni, la qualità di parte (Cass., Sez. un., 28 novembre 2001, n. 15145; Cass., 16 giugno 2006, n. 13954; Cass., 14 novembre 2008, n. 27239).

3 – Con il secondo motivo si deduce, formulandosi il relativo quesito di diritto, violazione e falsa applicazione di norme di diritto, e, in particolare, della L. n. 865 del 1971, art. 17 e dell’art. 2043 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.1 – Con il terzo motivo le medesime censure vengono prospettate come vizio motivazionale, per aver omesso la corte di appello di esaminare, nella loro interezza, le questioni poste a fondamento della impugnazione per revocazione.

4 – Le esposte censure, che possono essere congiuntamente esaminate, non sono pertinenti, con conseguente inammissibilità dei motivi scrutinati. La Corte di appello si è limitata a rilevare che, a prescindere dallo svolgimento o meno di attività agricola sui poderi occupati (desumibile da una decisione del Consiglio di Stato il cui omesso esame determinerebbe il vizio revocatorio), la sentenza impugnata per revocazione si fondava principalmente su altra ed autonoma ragione, costituita dalla ritenuta incompatibilità fra la pretesa risarcitoria e la domanda – avanzata in un separato giudizio – di indennità ai sensi della L. n. 685 del 1971, art. 17.

Orbene, l’esistenza di una autonoma ratio decidendi costituisce, di per sè – e il punto non risulta adeguatamente contestato – un elemento per escludere il carattere di decisività dell’errore attribuito alla sentenza impugnata per revocazione, richiedendosi, a tal fine, che esista un rapporto di causalità necessaria fra l’errore e la pronuncia, nel senso che, eliminato il primo, cade il presupposto su cui si fonda la decisione (Cass., 18 febbraio 2009, n. 3935; Cass., 21 aprile 2006, n. 9396).

Non si trattava, quindi, di censurare la fondatezza di quella diversa ragione che, da sola, è stata considerata in grado di giustificare la decisione impugnata (cosicchè non può ritenersi che, pur in presenza dell’errore che inficia l’altra ragione, la sentenza sarebbe stata diversa), bensì di contestare i rilievi circa la pluralità delle rationes decidendi e, quindi, circa il difetto di decisività dell’errore invocato. In assenza di tali deduzioni, le doglianze relative all’infondatezza della già ritenuta incompatibilità fra richiesta di indennità e pretesa risarcitoria (in astratto condivisibili), debbono considerarsi del tutto prive di rilievo.

Analoghe considerazioni valgano per il dedotto vizio motivazionale, in quanto anche a tale proposito va rilevata la carenza di decisività.

4 – Il regolamento delle spese processuali, che si liquidano come da dispositivo, segue la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore del Comune di Roma delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 13 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2011

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