Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22626 del 10/09/2019

Cassazione civile sez. lav., 10/09/2019, (ud. 21/02/2019, dep. 10/09/2019), n.22626

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2866-2016 proposto da:

SNATER REGIONALE DEL LAZIO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLE MILIZIE 34,

presso lo studio dell’avvocato MARCO GUSTAVO PETROCELLI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

TELECOM ITALIA INFORMATION TECNOLOGY S.R.L., (già SHARED SERVICE

CENTER S.R.L.) in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo

studio degli avvocati ARTURO MARESCA, ROBERTO ROMEI, FRANCO RAIMONDO

BOCCIA, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5400/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/07/2015 r.g.n. 1358/2014;

Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Premesso:

che con sentenza n. 5400/2015, pubblicata il 23 luglio 2015, la Corte di appello di Roma ha respinto il gravame proposto dallo Snater Regionale del Lazio e conseguentemente confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede, decidendo in sede di opposizione L. n. 300 del 1970, ex art. 28, aveva escluso il carattere antisindacale della condotta di SSC – Shared Service Center S.r.l. (poi TIIT – Telecom Italia Information Technology S.r.l.), consistita nella negazione dei permessi retribuiti per i dirigenti dell’organizzazione sindacale nel gennaio 2012, alla scadenza dell’Accordo (“Protocollo”) già stipulato da Telecom Italia S.p.A., cedente del ramo di azienda in cui la SSC era subentrata, e in seguito prorogato (da Telecom Italia e dal sindacato) fino al 31 dicembre 2011;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione lo Snater Regionale del Lazio, con sei motivi, cui ha resistito la Telecom Italia Information Technology S.r.l. con controricorso;

– che risultano depositate le conclusioni del Procuratore Generale e, in replica alle stesse, memoria per l’organizzazione sindacale ricorrente;

rilevato:

che con il primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., per avere la Corte di appello ridotto la portata dell’Accordo alla sola clausola che prevedeva un determinato numero di ore di permessi retribuiti per i dirigenti dell’organizzazione sindacale, senza considerare che esso era invece volto a disciplinare in maniera organica e tendenzialmente stabile i rapporti tra quest’ultima e la direzione aziendale, fissando le reciproche obbligazioni e regole di comportamento;

– che con il secondo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1322,2112 e 2558 c.c., per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto che l’Accordo rientrasse fra i contratti collettivi che disciplinano il rapporto di lavoro, in quanto tali soggetti alla disciplina di cui all’art. 2112 c.c., anzichè fra i contratti di impresa, che ai sensi dell’art. 2558 c.c., vincolano anche il cessionario;

– che con il terzo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2112,1326,1327 e 1350 c.c., per avere la Corte trascurato di considerare che l’Accordo, nelle parti riguardanti i diritti del sindacato, aveva avuto applicazione di fatto anche dopo la sua scadenza e che tale concreta applicazione aveva implicato, secondo la disciplina dei contratti, l’avvenuta adesione ad esso, per fatti concludenti, da parte della società;

– che con il quarto viene nuovamente dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., per avere la Corte erroneamente escluso che l’obbligo di rinnovare o comunque attivare le procedure di rinnovo, di cui al punto n. 8 dell’Accordo, fosse vincolante anche per il cessionario, mentre la norma non opera alcuna distinzione tra le diverse clausole del contratto;

– che con il quinto viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1322,1351,2932 e 2558 c.c., per avere la Corte territoriale escluso che la cessionaria potesse essere vincolata al rinnovo degli accordi conclusi dalla cedente, ostando alla sussistenza di un obbligo a contrarre gli artt. 39 e 41 Cost.;

– che infine con il sesto viene dedotto il vizio di cui all’art. 360, n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c., avendo la Corte omesso di pronunciare sulla domanda, in base alla quale la condotta della società, consistita nella trattenuta di rilevanti somme a carico dei dirigenti sindacali, senza preavviso, era connotata da autonomi profili di antisindacalità;

osservato:

che il primo e il secondo motivo di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, sono infondati, essendosi la Corte del merito attenuta al consolidato principio, secondo il quale “nel caso di trasferimento di azienda la regola di cui all’art. 2558 c.c., dell’automatico subentro del cessionario in tutti i rapporti contrattuali a prestazioni corrispettive non aventi carattere personale si applica soltanto ai cosiddetti “contratti di azienda” (aventi ad oggetto il godimento di beni aziendali non appartenenti all’imprenditore e da lui acquisiti per lo svolgimento della attività imprenditoriale) e ai cosiddetti “contratti di impresa” (non aventi ad oggetto diretto beni aziendali, ma attinenti alla organizzazione dell’impresa stessa, come i contratti di somministrazione con i fornitori, i contratti di assicurazione, i contratti di appalto e simili), semprechè non siano soggetti a specifica diversa disciplina, come i contratti di lavoro, di consorzio e di edizione, rispettivamente regolati dall’art. 2112 c.c., art. 2610 c.c. e la L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 132″ (conformi, fra le altre: n. 3045/2002; n. 15065/2018);

– che il terzo motivo è inammissibile;

– che infatti i motivi del ricorso per cassazione devono investire a pena di inammissibilità questioni che siano già comprese nel giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass. n. 907/2018);

– che il quarto e il quinto motivo, da esaminarsi anch’essi congiuntamente per la loro sostanziale connessione, sono infondati;

– che l’art. 2112 dispone (comma 3) che “il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario”;

– che la norma in esame, introducendo, a favore dei dipendenti dell’imprenditore che trasferisce l’azienda o un suo ramo, la garanzia della conservazione di tutti i diritti derivanti dal rapporto di lavoro con l’impresa cedente, ha, pertanto, finalità conservativa, nel senso che mira alla tutela dei crediti già maturati dal lavoratore e al rispetto dei trattamenti in vigore;

– che ne discende, in una interpretazione che non travalichi i limiti delle espressioni utilizzate dal legislatore e che sia aderente alla reale portata del precetto, che l’ambito dell’obbligo per il cessionario di applicare i “trattamenti economici e normativi” stabiliti dai contratti collettivi già vigenti presso l’impresa cedente, alla data del trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, non può essere esteso fino a ricomprendervi previsioni che risultino estranee all’anzidetta finalità conservativa (come quelle relative alle procedure di rinnovo), dovendosi escludere una generale efficacia dell’intero contenuto contrattuale;

– che il sesto motivo risulta inammissibile per inosservanza dell’art. 366 c.p.c., non avendo il ricorrente dimostrato di avere proposto la questione della sussistenza di ulteriori e diversi profili di antisindacalità già nel giudizio di primo grado;

ritenuto:

conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 21 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2019

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