Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22617 del 10/08/2021

Cassazione civile sez. VI, 10/08/2021, (ud. 20/05/2021, dep. 10/08/2021), n.22617

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10296-2020 proposto da:

S.S., elettivamente domiciliato in Forlì, al Viale

Matteotti n. 115, presso lo studio dell’Avvocato Rosaria Tassinari,

che lo rappresenta e difende giusta procura speciale apposta in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. cronol. 3319/2019 della CORTE DI APPELLO di

BOLOGNA, depositata il 25/11/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non

partecipata del 20/05/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CAMPESE

EDUARDO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ordinanza del 20 settembre 2017, il Tribunale di Bologna confermò il provvedimento reiettivo delle istanze di protezione internazionale e cd. umanitaria – emesso dalla competente Commissione Territoriale nei confronti del cittadino pakistano S.S., ed il gravame proposto da quest’ultimo contro tale decisione è stato respinto dalla corte di appello della medesima città, con sentenza del 25 novembre 2019, n. 3319, la quale: i) ha ritenuto inattendibile il suo racconto; ha escluso che nella zona (distretto di Jhelum, nel Punjab) del Pakistan, di provenienza del richiedente protezione, fosse riscontrabile una situazione di instabilità politico-sociale di livello così elevato da potere essere qualificata nei termini di quella “violenza generalizzata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, che consente il riconoscimento nei confronti dello straniero della forma di protezione internazionale di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c); iii) ha giudicato insussistenti i presupposti per la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

2. Contro la descritta sentenza S.S. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. Il Ministero dell’Interno non si è costituito nei termini di legge, ma ha depositato un “atto di costituzione” al solo fine di prendere eventualmente parte alla udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, in quanto la Corte d’appello di Bologna non avrebbe applicato il principio dell’onere della prova attenuato, né avrebbe valutato la credibilità del richiedente asilo alla luce dei parametri previsti da tali norme. Lamenta, inoltre, il difetto di motivazione, il travisamento dei fatti e l’omesso esame di fatti decisivi.

1.1. Una siffatta doglianza è inammissibile,

1.2. Invero, in materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare nel caso in cui questi, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (cfr. Cass. n. 1802 del 2021, in motivazione; Cass. n. 15794 del 2019): questa valutazione di affidabilità del dichiarante è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici indicati all’interno del citato art. 3, oltre che di criteri generali di ordine presuntivo idonei a illuminare il giudice circa la veridicità delle dichiarazioni rese (cfr. Cass. n. 1802 del 2021, in motivazione; Cass. n. Cass. 20580 del 2019). La norma in parola obbliga, in particolare, il giudice a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna, ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda (cfr. Cass. n. 1802 del 2021, in motivazione; Cass. n. 21142 del 2019).

1.3. La corte di merito si è ispirata a questi criteri laddove, all’esito dell’esame delle dichiarazioni rese dal migrante, ha rilevato come previsto dall’art. 3, comma 5, lett. a) e c), appena citato – che il racconto offerto dal richiedente asilo era caratterizzato da “numerose e significative contraddizioni che ne inficiano, in radice, l’attendibilità” (cfr. amplius, pag. 5-6 della sentenza impugnata).

1.3.1. Una volta constatato come la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo sia il risultato di una decisione compiuta alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, è sufficiente aggiungere che la stessa costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, censurabile in questa sede solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile; si deve, invece, escludere l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura e interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, nel senso proposto in ricorso, trattandosi di censura attinente al merito. Censure di questo tipo si riducono, infatti, all’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che però è estranea all’esatta interpretazione della norma ed inerisce invece alla tipica valutazione del giudice di merito, la quale è sottratta al sindacato di legittimità (cfr. Cass. n. 1802 del 2021, in motivazione; Cass. n. 3340 del 2019).

1.3.2. Va aggiunto, infine, che la motivazione della corte distrettuale circa l’inattendibilità del racconto dell’odierno ricorrente soddisfa pienamente il minimum costituzionale richiesto da Cass., SU, n. 8053 del 2014, né risultano rispettati gli oneri di allegazione sanciti da quest’ultima pronuncia in ordine alle modalità di proposizione di una censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo, qui applicabile ratione temporis (risultando impugnata una sentenza pubblicata il 25.11.2019), modificato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012.

2. Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in quanto la corte distrettuale non avrebbe verificato, in base a fonti aggiornate, la sussistenza di una minaccia grave alla vita del migrante derivante dalla situazione di violenza indiscriminata esistente nel Paese di origine, né avrebbe minimamente analizzato la situazione sociopolitica ivi esistente.

2.1. La corrispondente doglianza è infondata, atteso che – ferme le considerazioni più sopra riportate, in ordine all’inammissibilità delle censure riferite alla valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente – la corte territoriale ha correttamente provveduto ad attivare i propri doveri di cooperazione istruttoria attraverso l’estensione della propria cognizione alle informazioni sul Paese (distretto di Jhelum, nel Punjab) di origine dell’odierno ricorrente, dando ampiamente conto (cfr. pag. 7-8 della sentenza impugnata) delle fonti (specifiche ed adeguatamente aggiornate, in quanto del 2018, rispetto alla data – 10 settembre 2019 – di deliberazione del provvedimento oggi in esame) dalle quali ha tratto le proprie conclusioni circa l’insussistenza, nel Paese suddetto, delle condizioni legittimanti la sua richiesta di protezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), a nulla rilevando le alternative fonti (peraltro cronologicamente anteriori a quelle utilizzate dalla corte bolognese, e di cui nemmeno è dato sapere se ad essa sottoposte) segnalate dal ricorrente, trattandosi di informazioni generiche, ed in ogni caso inidonee a fornire adeguata contezza degli specifici presupposti oggettivi legittimanti il riconoscimento della protezione sussidiaria in contrasto con i contenuti informativi privilegiati dalle scelte probatorie (legittimamente) operate dal giudice d’appello nell’esercizio dei propri poteri di apprezzamento discrezionale delle fonti istruttorie.

3. Il terzo motivo di ricorso assume la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in quanto la corte d’appello non avrebbe esaminato il ricorrere dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, omettendo di verificare se la prospettazione di un quadro generale di violenza diffusa e generalizzata fosse quanto meno idoneo ad integrare una situazione di vulnerabilità. La corte distrettuale, inoltre, non avrebbe valorizzato adeguatamente l’inserimento socio-lavorativo del migrante, in un’ottica comparativa con la situazione di privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani che si sarebbe determinata in caso di rimpatrio.

3.1. Anche questa doglianza è infondata, osservandosi, al riguardo, che, secondo l’interpretazione fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato (cfr. Cass. SU, n. 29459 2019). Peraltro, a fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione, sicché il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo incorrere in tale ipotesi, la pronuncia, ove impugnata, nel vizio di motivazione apparente (cfr. Cass. n. 26219 del 2020, in motivazione; Cass. n. 13897 del 2019).

3.2. Nel caso di specie, la corte felsinea, dopo aver rimarcato l’insussistenza di particolari condizioni di vulnerabilità connesse alla condizione personale del ricorrente (non adeguatamente e specificatamente censurata in questa sede dal ricorrente), ha comunque proceduto alla comparazione della vicenda personale dell’istante con la situazione obiettiva in cui lo stesso sarebbe esposto in caso di rientro nel Paese di origine, a tali conclusioni pervenendo sulla base di un’analisi delle fonti informative disponibili sufficientemente congrua ed adeguata, suscettibile di corroborare in modo esaustivo il giudizio formulato in ordine alla non prospettabilità di alcuna grave sproporzione tra la vita condotta dal ricorrente nel territorio italiano e quella prospettata nel Paese di origine, con specifico riferimento alla perdurante possibilità, per lo stesso ricorrente, di godere delle prerogative connesse all’esercizio dei propri diritti fondamentali.

4. Il ricorso, dunque, va respinto, senza necessità di pronuncia in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 20 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2021

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