Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22611 del 08/11/2016


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Cassazione civile sez. III, 08/11/2016, (ud. 21/09/2016, dep. 08/11/2016), n.22611

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7710/2015 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA IRNERIO,

67, presso lo studio dell’avvocato SAMUELE ANTONIUCCI, rappresentato

e difeso dall’avvocato ADOLFA AUSILIATRICE BRUNO giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ACQUALATINA SPA, in persona dell’Amministratore Delegato Dott. Ing.

B.R.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA D.

MILLELIRE 47, presso lo studio dell’avvocato ISABELLA AQUINO,

rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMO SIGNORE giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SUD SPA, (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 2002/2014 del TRIBUNALE di LATINA, depositata

il 18/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/09/2016 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;

udito l’Avvocato ADOLFA AUSILIATRICE BRUNO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Nel 2009 M.M. (poi deceduto, e la cui domanda sarà coltivata da M.G.) propose opposizione avanti al Giudice di pace di Latina avverso la cartella esattoriale notificatagli dalla Equitalia Sud s.p.a. (d’ora innanzi, per brevità, “la Equitalia”), su mandato della società Acqualatina s.p.a., ed avente ad oggetto il pagamento di 124 Euro circa a titolo di corrispettivo per il consumo di acqua.

2. La società Acqualatina chiese il rigetto dell’opposizione e, in subordine, la condanna dell’opponente al pagamento del corrispettivo rimasto insoluto.

3. Ordinata l’integrazione del contraddittorio nei confronti della Equitalia, con sentenza 14.12.2010 n. 2157 il Giudice di Pace di Latina accolse l’opposizione, sul presupposto che il contratto di somministrazione di acqua dovesse avere forma scritta ad probationem; che tale forma nel caso di specie non risultava essere stata adottata; che la mancanza del contratto in forma scritta impedisse l’accoglimento della domanda subordinata di ingiustificato arricchimento nei confronti dell’utente.

4. La sentenza venne appellata dalla Acqualatina.

Il Tribunale di Latina, con sentenza 29.1.2014 n. 2002, accolse il gravame e condannò M.M. al pagamento di 124,25 Euro in favore di Acqualatina, oltre interessi.

5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da M.G., con ricorso contenente sei motivi.

Ha resistito con controricorso la Acqualatina, mentre la Equitalia non si è difesa in questa sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta il vizio di omessa pronuncia (invocando, peraltro, la violazione di legge di cui all’art. 360, c.p.c., n. 3).

Deduce che il Tribunale ha omesso di pronunciare sull’eccezione, dedotta con l’opposizione alla cartella esattoriale e riproposta in grado di appello, secondo cui la Acqualatina non aveva mai assunto la qualità di “gestore del servizio idrico integrato” per conto del Comune di Aprilia (luogo di residenza dell’opponente), perchè l’amministrazione comunale di quella città non ratificò mai la relativa convenzione tra l'”Ambito Territoriale Ottimale n. 4″ e la Acqualatina. Di conseguenza quest’ultima non poteva esigere il compenso per la somministrazione dell’acqua a titolo contrattuale.

1.2. Sebbene il ricorrente abbia formalmente invocato, nell’epigrafe del motivo in esame, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 (violazione di lege), nell’illustrazione del motivo ha poi censurato un tipico error in procedendo (omessa pronuncia), di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Questo errore tuttavia non nuoce al ricorrente: infatti, nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioè erri nell’inquadrare l’errore commesso dal giudice di merito in una delle cinque categorie previste dall’art. 360 c.p.c.), le Sezioni Unite di questa Corte hanno stabilito che il ricorso non possa per questa sola ragione dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile l’errore di cui si duole (Sez. U., Sentenza n. 17931 del 24/07/2013): come appunto nel caso di specie.

Le osservazioni che precedono valgono anche i vizi denunciati dal ricorrente con il secondo ed il terzo motivo di ricorso: anche essi recano infatti una intitolazione non coerente col contenuto della censura, ma anche essi non consentono dubbi sull’effettivo tipo di vizio che il ricorrente ha inteso denunciare.

1.3. Nel merito, il motivo è infondato.

Il vizio di omessa pronuncia su una domanda od eccezione ricorre non già per il solo fatto che il giudice abbia trascurato di prendere in esame uno o più argomenti difensivi delle parti, ma solo quando una delle questioni da esse prospettata sia rimasta completamente irrisolta.

Non ricorre, quindi, quel vizio quando la decisione sia implicitamente o logicamente incompatibile con la deduzione difensiva che si assume non esaminata. Si parla, in questo caso, di “rigetto implicito”.

Nel caso di specie, il Tribunale non ha affatto trascurato di esaminare l’eccezione di M.M., secondo cui la Acqualatina non avrebbe mai assunto la veste di gestore del servizio idrico. Più semplicemente, l’ha implicitamente rigettata. Il Tribunale, infatti, ha ritenuto che la Acqualatina fosse cessionaria della azienda comunale di gestione del servizio di approvvigionamento idrico, affermazione che comporta consequenzialmente l’attribuzione alla Acqualatina della qualità di gestore del servizio idrico. Sicchè, giusta o sbagliata che fosse tale valutazione, essa costituisce pur sempre una pronuncia sull’eccezione dell’allora appellante, e nessuna violazione dell’art. 112 c.p.c., è predicabile.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso M.G. lamenta (in sostanza) che il Tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi sull’eccezione con la quale l’opponente aveva lamentato che il credito di Acqualatina non poteva essere riscosso mediante ruolo, mancandone i presupposti di legge: infatti il credito aveva natura extratributaria e non era sorretto da alcun titolo esecutivo.

2.2. Il motivo è infondato.

Sebbene il presente giudizio sia stato incardinato nelle forme dell’opposizione a cartella esattoriale, e quindi come controversia esecutiva, la società Acqualatina, nel costituirsi, formulò una domanda riconvenzionale, subordinata all’accoglimento dell’opposizione: chiese, infatti, la condanna dell’opponente all’adempimento delle sue obbligazioni contrattuali (così si legge a p. 3, primo capoverso, della sentenza).

Il Tribunale pertanto, condannando l’utente al pagamento del corrispettivo (pronuncia non concepibile in un giudizio di opposizione), ha mostrato per ciò solo di ritenere fondata l’opposizione a cartella, ma comunque sussistente il debito dell’utente.

Sicchè, pronunciandosi sulla domanda riconvenzionale, il Tribunale anche in questo caso ha implicitamente mostrato di ritenere fondate le deduzioni attoree circa l’inammissibilità del ricorso alla riscossione mediante ruolo, e dunque omessa pronuncia non vi fu.

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 416 e 615 c.p.c. (deve ritenersi un mero lapsus calami il riferimento, nella pag. 16, p. 3, del ricorso, all’art. 615 “c.p.p.”).

Deduce, al riguardo, che nel giudizio di opposizione all’esecuzione la parte convenuta non può formulare domande riconvenzionali: la società Acqualatina, pertanto, non poteva chiedere l’accertamento del proprio preteso credito.

3.2. Il motivo, che va correttamente qualificato come denunzia di un error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4, è manifestamente infondato.

Sono infatti cinquant’anni (a partire da (Sez. 3, Sentenza n. 1282 del 18/05/1963, Rv. 261899) che questa Corte viene unanimemente ripetendo che il creditore procedente può proporre, nel giudizio di opposizione all’esecuzione, tutte le domande dirette a rimuovere gli ostacoli giuridici alla realizzazione del proprio credito, e quindi può anche chiedere la condanna del debitore opponente per un titolo diverso, svolgendo all’uopo una domanda riconvenzionale al fine di costituirsi un nuovo titolo esecutivo, poichè ha veste, sostanziale e processuale, di convenuto (da ultimo, nello stesso senso Sez. 3, Sentenza n. 1123 del 21/01/2014, Rv. 629827).

V’è solo da aggiungere come la giurisprudenza invocata dal ricorrente a fondamento del motivo di ricorso in esame (p. 16 del ricorso) sia del tutto fuori luogo: le sentenze citate dal ricorrente avevano infatti ad oggetto la ben diversa ipotesi in cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto formuli una domanda riconvenzionale ampliando l’ambito della pretesa azionata in sede monitoria. Situazione ben diversa da quella in cui il convenuto nel giudizio di opposizione all’esecuzione chieda, in via subordinata, l’accertamento della sussistenza del proprio credito: in questo caso, infatti, la domanda introduttiva investe la sussistenza del diritto del creditore a procedere all’esecuzione, e non investe il diverso problema della sussistenza effettiva d’un credito, problema che quindi ben può essere introdotto in via riconvenzionale.

Nel caso opposizione a decreto ingiuntivo, invece, è il ricorrente che, formulando la propria istanza monitoria, delimita il thema decidendum, sicchè non può pretendere poi di ampliarlo in corso di causa.

4. Il quarto motivo di ricorso.

4.1. Col quarto motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 2112 e 2558 c.c.; D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 113 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).

Deduce, al riguardo, che il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto sussistente un contratto di somministrazione di acqua tra M.M. e la Acqualatina. Tale contratto in realtà non esisteva in quanto:

(-) non vi era stata alcuna cessione di azienda tra il Comune, precedente gestore del servizio, e la Acqualatina;

(-) la Acqualatina non aveva la veste di gestore del servizio idrico, perchè il consiglio comunale non aveva approvato la relativa convenzione;

(-) la Acqualatina non aveva rispettato gli obblighi di informazione nei confronti degli utenti.

4.2. Il motivo è infondato, in tutti i profili in cui si articola.

4.2.1. Nella parte in cui sostiene che la società Acqualatina non ha mai assunto la veste di “gestore del servizio idrico”, e quindi non poteva essere parte d’un contratto di somministrazione di acqua, il motivo è infondato perchè si fonda su una erronea lettura della legge.

La materia dei rapporti tra enti locali e gestori dei servizi idrici, nella Regione Lazio, è disciplinata dalla L.R. Lazio 22 gennaio 1996, n. 6 (Individuazione degli ambiti territoriali ottimali e organizzazione del servizio idrico integrato in attuazione della L. 5 gennaio 1994, n. 36).

Questa legge prevede un sistema così riassumibile:

(a) Province e Comuni, per la gestione del servizio di distribuzione dell’acqua, hanno la facoltà o di costituire tra loro o dei consorzi, oppure di stipulare della “convenzioni”, denominate “Ambiti Territoriali Ottimali – A.T.O.” (L.R. Lazio n. 6 del 1996, art. 4);

(b) il Presidente della Provincia, che ha la rappresentanza dell’ATO, stipula la convenzione col gestore del servizio idrico in nome e per conto di tutti gli altri enti locali;

(c) le decisioni dalla conferenza dei sindaci partecipanti all’ATO sono “definitive ed operative” (art. 6, comma 3 ter, L.R. cit.);

(d) l’approvazione dei consigli degli enti locali è necessaria solo “ove espressamente prevista dalla presente legge”. E la legge stessa non prevede alcuna approvazione del consiglio comunale per rendere operativa la convenzione tra ATO e gestore del servizio, la quale come s’è detto esige solo l’approvazione da parte della conferenza dei sindaci dell’ATO, e la ratifica da parte della Giunta Regionale.

Tali previsioni all’epoca in cui si svolsero i fatti di causa (2009) erano del resto coerenti con le previsioni del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 148 (recante “Norme in materia ambientale”), il quale definiva l'”Autorità d’ambito” (ATO) “una struttura dotata di personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla competente regione, alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale è trasferito l’esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche”.

Sicchè, dovendosi ovviamente la legge regionale interpretare alla luce dei princìpi dettati dalla legge-quadro, non possono esservi dubbi sul fatto che l’ATO, e non i singoli comuni, erano attributari della competenze in materia di gestione delle risorse idriche.

Il quadro normativo che emerge dalle norme appena riassunte è dunque il seguente:

(a) l’ATO è soggetto di diritto;

(b) esso agisce nella persona del suo presidente, con decisioni vincolanti per gli enti partecipanti, una volta che la volontà dell’ATO si sia validamente formata attraverso la “conferenza dei sindaci” di cui alla L.R. n. 6 del 1996, art. 6;

(c) nessuna ratifica da parte dei consigli comunali era necessaria per la validità e l’efficacia degli accordi negoziali stipulati dall’ATO, soggetta solo all’approvazione da parte della Giunta regionale (L.R. Lazio n. 6 del 1996, art. 8).

E’ ben vero – e il ricorrente non ha mancato di rilevarlo – che l’art. 17, comma 3, dello “Schema di convenzione” allegato alla L.R. Lazio n. 6 del 1996, art. 8, prevede (non senza ambiguità) che “gli enti locali convenzionati si impegnano ad approvare nei rispettivi consigli la “Convenzione per la gestione del servizio idrico integrato” ed il relativo disciplinare nei tempi previsti dalla L.R. 22 gennaio 1996, n. 6″.

Ma tale previsione è contenuta non nella legge, ma nello “schema di contratto” allegato alla legge, e può spiegarsi col fatto che il comma 3 ter, sopra trascritto, secondo cui l’approvazione dei consigli è necessaria solo se espressamente prevista, è stato introdotto nel 2000, e non è stato coordinato con gli allegati alla legge.

E in ogni caso va da sè che, in ipotesi di conflitto tra la norma o lo “schema di convenzione”, deve prevalere la prima, in quanto l’unica dotata di forza precettiva.

4.2.2. Il motivo di ricorso in esame, è, altresì, infondato, nella parte in cui lamenta la violazione degli artt. 2112 e 2558 c.c..

Infatti, a prescindere dal problema se possa o no definirsi “cessione d’azienda” il trasferimento in blocco dei contratti per la somministrazione di acqua dal comune al gestore del servizio idrico, la questione è risolta direttamente dal cit. D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 153, nel testo vigente all’epoca dei fatti, il quale prevedeva che “le attività e le passività relative al servizio idrico integrato (…) sono trasferite al soggetto gestore, che subentra nei relativi obblighi”.

“Subentrare nei relativi obblighi” non può avere altro significato che “assumere le relative obbligazioni”, ovvero divenire titolari dei rapporti giuridici di cui era in precedenza titolare l’ente comunale. E’ superfluo, pertanto, stabilire se nel caso di specie si sia verificata o no una cessione di azienda, perchè anche in caso negativo la società Acqualatina sarebbe comunque subentrata nei rapporti di somministrazione di cui era parte il Comune.

4.2.3. Infine, nella parte in cui lamenta la violazione, da parte della Acqualatina, degli obblighi informativi previsti dalla legge, il motivo è manifestamente infondato: infatti l’omissione di informazioni legalmente dovute potrebbe al più costituire un inadempimento del contratto, non una causa impeditiva della conclusione di esso.

5. Il quinto motivo di ricorso.

5.1. Col quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134). Deduce, al riguardo, che il Tribunale avrebbe accolto la domanda riconvenzionale della Acqualatina senza considerare due “fatti controversi”, ovvero:

(a) i consumi dell’utente erano stati determinati unilateralmente da Acqua latina;

(b) le tariffe erano state determinate illegittimamente, perchè comprendevano gli oneri di depurazione in realtà non dovuti, non avendo mai Acqualatina attivato il depuratore (secondo quanto ritenuto da Corte cost. 335/08).

5.2. Il motivo è inammissibile, perchè non pertinente rispetto alla ratio decidendi.

Il Tribunale di Latina, dopo avere ritenuto esistente ed esigibile il credito della Acqualatina nei confronti di M.M., ha rigettato tutte le altre eccezioni da questi sollevate, reputandole “genericamente formulate”.

Il Tribunale, quindi, ha chiaramente pronunciato una statuizione di inammissibilità delle eccezioni concernenti il quantum e la legittimità delle tariffe applicate dalla Acqualatina, non di loro infondatezza nel merito.

Giusta o sbagliata che fosse tale decisione, essa non ha esaminato il merito delle eccezioni sollevate da M.M., ma le ha ritenute inammissibili per genericità: quella statuizione, pertanto, andava impugnata censurando l’error in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e deducendo per quali ragioni le doglianze concernenti il quantum non si sarebbero potute ritenere generiche.

In assenza di tale censura, non è consentito dunque a questa Corte esaminare se fossero fondate o meno le eccezioni in questione, per la semplice ragione che quelle eccezioni non sono state rigettate nel merito dal Tribunale, ma reputate inammissibili.

Solo per completezza, sarà comunque utile soggiungere che secondo il costante orientamento di questa Corte, nell’ipotesi in cui l’utente del rapporto di somministrazione idrica lamenti l’addebito di un consumo anomalo ed eccedente le sue ordinarie esigenze, una volta fornita dal somministrante la prova del regolare funzionamento degli impianti, è onere dell’utente provare di avere adottato ogni possibile cautela, ovvero di avere diligentemente vigilato affinchè intrusioni di terzi non potessero alterare il normale funzionamento del contatore (Sez. 3, Sentenza n. 13193 del 16/06/2011, Rv. 618369).

E nel nostro caso il ricorrente non risulta avere mai dedotto che il contatore non funzionasse.

6. Il sesto motivo di ricorso.

6.1. Col sesto motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 2697 c.c..

Deduce, al riguardo, che il Tribunale avrebbe illegittimamente invertito il riparto dell’onere della prova. Sostiene che sarebbe spettato alla Acqualatina dare la prova dei consumi effettuati dall’utente e delle tariffe applicate. Ma poichè tale prova non fu mai fornita, il Tribunale avrebbe dovuto rigettare la domanda riconvenzionale formulata dalla società Acqualatina.

6.2. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 3.

Nel giudizio avente ad oggetto la domanda di condanna all’adempimento d’un a obbligazione sorta dal contratto, quale è quello introdotto dalla Acqualatina con la sua domanda riconvenzionale, onere dell’attore è unicamente dimostrare l’esistenza e l’efficacia del contratto, mentre è onere del convenuto dimostrare vuoi di avere adempiuto, vuoi le ragioni per le quali l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile (Sez. U, Sentenza n. 13533 del 30/10/2001, Rv. 549956).

Nel nostro caso pertanto una volta dimostrata dalla Acqualatina l’esistenza e l’efficacia del rapporto contrattuale, sarebbe stato onere dell’utente dimostrare le ragioni della infondatezza della pretesa del somministrante. Tuttavia nel ricorso non si indica quale sarebbe dovuta essere la tariffa corretta alternativa, in cosa sarebbe consistito l’errore di calcolo della bolletta, per quali ragioni i consumi addebitati all’utente non sarebbero veritieri.

In mancanza di tali indicazioni, pertanto, non è possibile per questa Corte stabilire se la valutazione del Tribunale sia stata corretta o meno.

7. Le spese.

Le spese del presente grado di giudizio vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1 e sono liquidate nel dispositivo.

8. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

(-) rigetta il ricorso;

(-) condanna M.G. alla rifusione in favore di Acqualatina s.p.a. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 1.118, di cui Euro 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di M.G. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 21 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2016

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